La lettura del Def ci conferma in buona sintesi che la Melonomics è una prosecuzione della politica economica di Draghi, con marcate accentuazioni in chiave di austerity, perfettamente coerenti con le attuali scelte europee, sempre più subordinate agli interessi Usa, e alla politica monetaria restrittiva della Bce.
Mentre sul terreno dei diritti civili e sociali, come sulle politiche migratorie, il governo ha da subito incrudelito scelte ed atteggiamenti – con l’aggiunta delle note dichiarazioni fascisteggianti da non sottovalutare - che lo avvicinano di più all’area orbanista, la sua politica economica si modulava finora lungo due indirizzi.
L’uno, rappresentato dal neoliberismo nella sua forma più cruda, accentuando le politiche privatistiche e antiwelfare, motivate culturalmente – si fa per dire - dal rilancio in ogni campo dell’esaltazione del merito.
L’altro, costituito da un insieme di neocorporativismo e di sbriciolamento distributivo, che cercava di non alienarsi i ceti popolari.
Da quanto emerge, il Def sposta il vacillante equilibrio tra questi due aspetti decisamente a favore del primo. Non si prevede alcuna reale politica di bilancio per contrastare la contrazione dell’economia e l’immiserimento della popolazione, accentuati dalla guerra - di cui non si intravede, non a caso, né fine né tregua – dall’incremento dell’inflazione e dall’aumento dei tassi che la Bce persegue indefessamente.
Si dirà che gli spazi per una simile manovra sono scarsi. La soglia “psicologica” dell’1% di crescita promessa dalla Meloni non è raggiunta per quanto riguarda il “tendenziale” a legislazione vigente. Il Def la inchioda allo 0,9%, ma le stime di autorevoli istituzioni sono più basse, a cominciare dal Fmi che prevede per l’Italia un rialzo del Pil dello 0,7%, entro un quadro che riporta la crescita mondiale ai valori del 1990, con possibilità di peggioramento.
È vero quindi che il governo Meloni si muove in un quadro difficile, ma scelte e incapacità lo aggravano pesantemente, come si vede anche nell’implementazione del Pnrr. Soprattutto lo si vede nell’incremento dell’avanzo primario, cioè del risparmio al netto delle spese per interessi, che, nel 2024 sarà pari a circa 6 miliardi, per crescere a 26 e 45 miliardi nei due anni successivi.
La cancellazione della Fornero – cavallo di battaglia della destra “sociale” – è così passata in cavalleria.
Mentre si prevede la finalizzazione nella legge di Bilancio di fine anno di un ulteriore aumento delle spese militari di circa 1,8 miliardi, dall’1,38% del Pil all’1,48%, con l’obiettivo voluto dalla Nato di raggiungere il 2%.
Né i 3 miliardi che sbucano dal mantenimento del deficit tendenziale al 4,5%, in luogo del previsto 4,35%, che verranno utilizzati, con un futuro provvedimento, per ridurre il cuneo fiscale, risolvono alcunché sul fronte delle troppo basse retribuzioni.
Mentre la riforma fiscale annunciata, con la riduzione delle aliquote da tre a due, premierà i ceti più forti, distruggendo ogni barlume di progressività.
Lo riconosce persino Confindustria – che di suo però non vuole mettere nulla – quando osserva che gli effetti sulla busta paga saranno modesti. Se si considerano i tagli per pensioni e sanità già avvenuti, quelli ulteriori che verranno, specie in campo scolastico e sanitario anche in conseguenza dell’autonomia differenziata – se il progetto governativo passerà - si può prevedere che il taglio del cuneo fiscale non compenserà perdite ed esborsi di reddito di un lavoratore medio.
La riforma del patto di stabilità europeo, presentata in questi giorni dalla Commissione, respinge il puro ritorno al passato voluto dalla Germania e dai paesi “frugali”, ma la riduzione progressiva del debito, con un percorso da concordare, porta di fatto ad un commissariamento della politica di bilancio dei paesi più indebitati, fra i quali il nostro.
Vi è chi dice, come Bini Smaghi ex membro del board della Bce, che ormai il Def sarà inutile visto che non si può modificare quasi nulla lungo il percorso concordato. Come è noto il governo punta sullo scorporo di green e digitale dal calcolo su deficit e debito, che restano fissati, nella loro stupidità, agli obiettivi del 3% e del 60% del Pil come prima.
La partita si deciderà in estate, ma le premesse non sono buone. Intanto ci troviamo di fronte ad una enorme questione salariale, alla quale la risposta dei tre sindacati confederali appare debole e inadeguata. Almeno finora.
Eppure di fronte ad una inflazione del carrello della spesa che viaggia su due cifre e un aumento nel 2022 dei salari dell’1,1%, ci sarebbe spazio per un incremento significativo e percepibile delle retribuzioni, senza innescare alcuna spirale, come riconosce anche il Centro Europa Ricerche (Cer), il noto centro studi al quale in molti fanno riferimento.
Ma questo più che argomento di dibattito istituzionale è tema di lotta sociale e, appunto, sindacale
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Non servono passerelle, ma un luogo di elaborazione collettiva tra forze sociali e politiche che, con metodo democratico definisca una strategia della sinistra che inveri ora la Costituzione
Quel che noi chiediamo alle forze politiche è di uscire dalla retorica della costituzione, per prenderla sul serio, prendere sul serio la portata normativa del nostro patto sociale. Non è, infatti, tollerabile dividere l’Italia in nome di una isolata disposizione costituzionale, letta fuori contesto, (l’art. 116, III co) dimenticando il principio fondamentale dell’articolo 5 che impone l’unità della Repubblica, dell’articolo 3 che prescrive il rispetto del principio d’eguaglianza su tutto il territorio nazionale, dell’articolo 2 che richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Non è sopportabile che si dimentichi che la nostra costituzione dispone di riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo su tutto il territorio nazionale, per andare invece solo alla ricerca delle tutele minime dei diritti sociali e civili mediante una generale e generica “determinazioni” governativa dei Lep. Riscrivendo in tal modo per intero lo stato sociale utilizzando una Cabine di regia, formalmente assistita da una Commissione, la quale, per quanto quest’ultima possa essere ritenuta autorevole, è pur sempre un organo tecnico senza rappresentanza; escludendo invece il vero organo della rappresentanza reale, che è il Parlamento.
Non è accettabile che si favorisca la precarietà perseguendo nelle miopi politiche sulla flessibilità del lavoro sin qui adottate, che si voglia cancellare qualunque forma di
Commenta (0 Commenti)SCENARI . Il processo della ricostruzione deve essere intrecciato, secondo il governo italiano, a quello dell’adesione dell’Ucraina all’Unione europea e alla sua integrazione nel mercato comune. Ecco il punto dell’ambiguità. Perché quello che avviene in realtà sul terreno dei rapporti tra Ucraina ed Unione europea mostra invece una realtà a dir poco opposta
Il ritorno sulla scena del conflitto ucraino della diplomazia cinese segna la giornata di ieri tra le più importanti per chi pensa ad una soluzione negoziata della crisi che si è ufficialmente aperta con l’invasione russa dell’Ucraina un anno e due mesi fa.
L’attesa telefonata di Xi Jinping è stata per Zelensky «lunga e significativa» accompagnata anche del rilancio degli scambi bilaterali con la nomina dell’ambasciatore ucraino a Pechino; per parte sua Xi ha insistito sulla linea cinese: «Il dialogo e il negoziato per la pace sono l’unica via d’uscita praticabile», aggiungendo che «non ci sono vincitori in una guerra nucleare», con chiaro monito per una crisi appesa all’uso sfrenato di armi sempre più micidiali e che rischia la «linea rossa» dell’atomica; e ribadendo, nonostante che Pechino non abbia messo sanzioni a Mosca e anzi difenda il rapporto «indistruttibile» con la Russia, che «il rispetto reciproco di sovranità e integrità territoriale è la base politica delle relazioni Cina-Ucraina».
Positive ma fredde le reazioni di Mosca e di Washington, ma l’avere allacciato questo dialogo è probabilmente una svolta nei rapporti internazionali appesi alla guerra ucraina, e anche al confronto, per ora solo di teatro, Usa-Cina per la crisi di Taiwan.
Di altro segno, se non opposto, la conferenza bilaterale tra Italia e Ucraina per la ricostruzione della martoriata Ucraina che si è svolta ieri a Roma. A guerra però non ancora conclusa, e anzi ogni giorno più sanguinosa.
Alla conferenza la premier Meloni ha portato come interlocutori del dividendo di guerra che si apre, ben 600 aziende italiane. «Parlare della ricostruzione dell’Ucraina – dice Meloni – significa scommettere sulla vittoria e
Leggi tutto: La Cina dialoga. E dall’Est Europa sì alle armi no al grano - di Tommaso Di Francesco
Commenta (0 Commenti)25 APRILE. Questo anniversario della Liberazione è stato forse il più antifascista di sempre, perché ha moltiplicato la presenza di donne, anziani, ragazzi nelle piazze, da Milano a Roma
Milano, 25 aprile - foto LaPresse
Mentre il presidente Mattarella va in montagna con Piero Calamandrei ricordando il significato del 25 aprile, la presidente del consiglio sciorina al Corriere della Sera un fiume di parole quando ne bastava una. Difficilmente i due Palazzi romani hanno mostrato la diversità, svelato la distanza, interpretato il contrasto tra una cultura che affonda le radici nell’antifascismo e perciò nella Costituzione, e una ideologia liberticida che galleggia sui luoghi comuni del neo-post-fascismo.
Questo anniversario della Liberazione è stato forse il più antifascista di sempre, perché ha moltiplicato la presenza di donne, anziani, ragazzi nelle piazze, da Milano a Roma (come abbiamo documentato con la diretta-tv sul manifesto.it), rinnovando l’impegno alla resistenza antifascista e antirazzista. Dopo sei mesi di messa alla prova del governo più a destra della storia dal ’45 a oggi, sappiamo che sono sotto attacco i diritti individuali e collettivi, civili e sociali da parte di forze e personaggi che, per convinzione, sono estranei ai valori della Resistenza.
Speciale 25 Aprile ai tempi del governo di Giorgia Meloni: rivivi la diretta del manifesto
Per il partito di maggioranza il 25 aprile è ancora vissuto come il giorno della sconfitta, comunque camuffata, preferibilmente usando
Leggi tutto: In piazza la nostra identità - di Norma Rangeri
Commenta (0 Commenti)PASSATO E PRESENTE. È vero che il fascismo di Giorgia Meloni non coincide con quello di Benito Mussolini (diversamente da quello di alcuni suoi ministri o sodali), e però per quanto si controlli, poi le sfugge la verità: che anche lei una riflessione critica su quel ventennio non l’ha mai neppure tentata
Un gruppo di partigiani in una foto storica
Primo anniversario del 25 aprile in presenza di un governo che trae la sua ispirazione politico-culturale da quelli che in quella data furono sconfitti. Che la nostra festa possa essere realmente condivisa è evidentemente impossibile. Ha fatto bene l’Arci a produrre per questa occasione un manifesto su cui è scritto:”25 aprile divisivo. Per i fascisti “. Perché sia giorno di fierezza anche per gli attuali Ministri dovrebbero aver fatto la rivoluzione dentro sé stessi, quella che tanti giovani nell’immediato dopoguerra hanno saputo fare, al contrario di loro, che non ne hanno mai avuto il coraggio e l’intelligenza.
È vero che il fascismo di Giorgia Meloni non coincide con quello di Benito Mussolini (diversamente da quello di alcuni suoi ministri o sodali), e però per quanto si controlli, poi le sfugge la verità: che anche lei una riflessione critica su quel ventennio non l’ha mai neppure tentata. Mi ha colpito una sua frase rivelatrice, pronunciata pochi giorni fa mentre prendeva l’aereo per Addis Abeba : «È’ un po’ – ha detto con il tono colpevole di una Ong un po’ in ritardo – che non ci occupiamo dell’Africa». Vale a dire: che non l’aiutiamo come in passato.
Una frase terrificante, perché sembra inconsapevole di come sia stata «aiutata» dal nostro paese nei non lontanissimi anni ‘30. C’è da domandarsi se Giorgia abbia mai saputo cosa hanno fatto i fascisti quando dell’Etiopia, della Somalia, e della Libia si sono «occupati». L’epoca di “faccetta nera ti verremo a liberar “ – scritta che, ricordo, campeggiava sulla parete della mia aula scolastica – una delle pagine più vergognose della nostra storia patria.
Certo è vero che ora non andiamo in Africa con le bombe a gas, bensì a fare accordi commerciali e a concordare misure per impedire che gli africani godano degli stess
Leggi tutto: Partigiani con il coraggio del mondo nuovo - di Luciana Castellina
Commenta (0 Commenti)Non si arresta l’iniziativa del presidente del Brasile per aprire la strada ad un cessate il fuoco e all’apertura di una fase negoziale del conflitto in Ucraina. Una nuova prospettiva multilaterale che chiede l’impegno della Cina e un ruolo attivo più attivo dell’Europa
Luiz Inacio Lula Da Silva (AP Photo/Eraldo Peres)
«Il Brasile può negoziare la fine della guerra in Ucraina?». È questa la domanda che si è posta la rivista americana Foreign Policy prima del recente viaggio del presidente Lula in Cina. Tra le risposte possibili, la più pertinente è arrivata da un commento alla stampa rilasciato da un diplomatico dell’Itamaraty, il ministero degli affari esteri brasiliano: «Il Brasile sta solo proponendosi di collaborare affinché si arrivi a un negoziato che ponga fine alla guerra. Sarebbe molto arrogante se fossimo noi a proporre un piano di pace».
Se il quesito del Foreign Policy può lasciare qualche dubbio, una cosa, invece, è certa. L’impegno internazionale di Lula per dare una possibilità alla pace.
Il presidente brasiliano, come ha affermato Jorge Heine, ex diplomatico cileno professore alla Boston University sentito da Foreign Policy, «si sta giocando il proprio capitale politico». E sono molti coloro che, su lati opposti della barricata, ritengono questo impegno di Lula a favore della pace un azzardo.
Non c’è, infatti, analista politico che sulla guerra in Ucraina scommetta oggi su un negoziato. La Defense Intelligence Agency, cioè la principale agenzia militare di intelligence per l’estero, sostiene che la guerra in Ucraina non cesserà prima del 2024 e considera “improbabile” un negoziato nel 2023.
L’assenza, però, di una possibilità negoziale e, persino, di canali diplomatici utili allo scopo è una disgrazia per l’umanità. In primo luogo, per la popolazione ucraina e per tutte le vittime del conflitto. In secondo luogo – come evidenziato sempre da Foreign Policy – «la guerra sta imponendo costi elevati all’economia mondiale. Ha interrotto le catene di approvvigionamento, contribuendo all’inflazione elevata, al rialzo dei prezzi energetici (il petrolio potrebbe arrivare a 100 dollari a fine 2023 secondo Goldman Sachs) mentre i Paesi del sud del mondo risentono in modo drammatico della carenza di cibo», per il peso specifico rappresentato dall’export di grano russo e ucraino e di fertilizzanti russi.
«La guerra- sottolinea ancora l’autorevole rivista statunitense- sta polarizzando pericolosamente il sistema internazionale. Con la rivalità geopolitica tra l’Occidente e l’asse cinese-russo (Brics compresi) si accentua il ritorno a un mondo diviso in blocchi dove la maggior parte del globo preferisce il non allineamento, piuttosto che rimanere intrappolato in una nuova era di scontro Est-Ovest».
In aggiunta, i governi dei Paesi europei devono fare sempre più i conti sia con gli effetti economici e sociali della guerra, sia con opinioni pubbliche in larga parte contrarie a un conflitto senza limiti con la Russia. Nonostante ciò, tranne i ripetuti appelli di papa Francesco, non c’è politico attualmente al potere che parli esplicitamente di pace, cercando di interrompere – con la spirale del riarmo e dell’aumento delle spese militari – l’escalation della guerra.
Lula rappresenta un’eccezione. Nei giorni scorsi, in una conferenza stampa ad Abu Dhabi, ha ribadito: «Tutti sanno che ho già proposto la creazione di una specie di G-20 per la pace. Quando c’è stata la crisi economica del 2008, abbiamo rapidamente creato il G20 per cercare di salvare l’economia. Ora è importante creare un altro G20 per finire la guerra e stabilire la pace». Pur cosciente che la soluzione del conflitto non è semplice, il leader brasiliano è nondimeno impegnato a convincere altri leader internazionali in questa sua ricerca della fine della guerra. «Stiamo cercando di costruire un gruppo di paesi che non hanno nulla a che fare con la guerra, che non vogliono la guerra, che vogliono costruire la pace nel mondo, per parlare sia con la Russia che con la Nato».
Seppure la sua iniziativa sia stata accolta con scetticismo e qualche riserva negli Usa e in Ue, è evidente quanto sia necessario «iniziare a parlare di pace».
Richard N. Haass e Charles Kupchan, diplomatici di rilievo dei precedenti governi statunitensi, hanno scritto su Foreing Affairs, rivista fondata nel 1922, che «l’Occidente e l’Ucraina hanno già raggiunto il loro obiettivo respingendo il tentativo della Russia di soggiogare il Paese e attuare un cambio di regime».
Pertanto, anche gli Stati Uniti e la Unione Europea dovrebbero iniziare a formulare un finale di partita diplomatico, sin da ora. Si tratta di proporre un cessate il fuoco in cui Ucraina e Russia ritirerebbero le loro truppe e le armi pesanti da una nuova linea di contatto creando una zona smilitarizzata monitorata da Onu o Ocse.
Al cessate il fuoco dovrebbero seguire colloqui di pace su due binari: uno tra Russia e Ucraina con mediatori internazionali, l’altro tra Nato e Russia per un dialogo strategico sul controllo degli armamenti.
Affinché ciò sia possibile è fondamentale, secondo molti osservatori internazionali, che la Cina (come richiesto anche dal presidente francese Emmanuel Macron) assuma un ruolo più deciso nella risoluzione del conflitto.
Invito rivolto a Xi Jimping anche da Lula, nel suo recente viaggio in Cina. Se c’è un’esile spiraglio da parte della Russia per sedersi ad un tavolo negoziale, questo è aperto verso le azioni messe in campo da Cina e Brasile. Rispetto alla guerra «ci deve essere un argomento per convincere Putin a fermarla», ha dichiarato Lula.
È per questo importante che, a conclusione della sua visita in Cina, Lula e il presidente Xi Jinping abbiano insieme sottolineato che «il dialogo e il negoziato sono l’unica via d’uscita praticabile per risolvere la crisi ucraina» e che «tutti gli sforzi per risolvere pacificamente la crisi dovrebbero essere incoraggiati e sostenuti», invitando più Paesi a svolgere un ruolo costruttivo nel promuovere la soluzione politica della crisi.
C’è nella posizione dell’ex-sindacalista metalmeccanico una linea coerente con la sua traiettoria politica e con gli interessi stessi del Brasile (e di tutta l’America Latina) di non allineamento e d’impegno sul fronte del multilateralismo.
Sin dall’incontro di febbraio con Joe Biden negli Stati Uniti, Lula ha detto di no a qualunque coinvolgimento militare del Brasile. E aveva già declinato la richiesta di Washington di fornire all’Ucraina gli armamenti russi in dotazione all’esercito brasiliano, sostituendoli con quelli americani. Lo stesso no, chiaro e forte, detto prima a Macron e poi a Scholz sull’invio di munizioni per i carri armati all’Ucraina.
Anche per questo, chi ha cuore la pace non può non seguire con grande interesse e speranza l’azione internazionale avviata dal presidente brasiliano, che da subito si è schierato (insieme ai presidenti di Argentina, Cile, Colombia e Messico) contro l’invasione russa in Ucraina, ma anche contro l’invio di armi. E, in queste settimane, ha avviato contatti e incontri con altri capi di Stato per costruire una coalizione di Paesi contro la guerra.
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