SCENARI . Mentre la Cina dispiega il proprio inviato a Mosca e Kyiv, c’è da registrare per la prima volta il cauto ottimismo del Segretario di Stato USA Blinken circa il ruolo che Pechino potrà avere nel portare la Russia a sedere a un tavolo negoziale
Conferenza stampa di Zelensky e Meloni dopo il loro incontro a palazzo Chigi - Getty Images
I combattimenti di queste ore preparano il campo della massiccia controffensiva. La visita a Roma del comandante in capo Volodymyr Zelensky è parte di un lungo tour interamente volto a rinsaldare il supporto alleato, compattandolo nella fase decisiva.
Non si tratta di una missione per parlare di pace, come hanno titolato alcuni media italiani, ma di una missione di guerra, nella quale si è riaffacciata con enfasi la retorica della vittoria.
Incontrando la presidente del Consiglio Giorgia Meloni il leader ucraino ha incassato l’appoggio all’ingresso nella Nato e stretto i rapporti con quella parte del governo italiano che, spesso convertendosi last-minute, ha tenuto la linea di deciso sostegno impostata da Mario Draghi.
Per ragioni di sicurezza ormai spesso vediamo Zelensky parlare su uno sfondo bianco e spostarsi con un corteo di macchine uguali, anche se il messaggio resta invariato: servono urgentemente armi a gittata più lunga ed occorre rafforzare la capacità di manovra. A sottolineare lo stretto nesso che esiste, sul fronte atlantico, con le opinioni pubbliche, Zelensky ha significativamente dichiarato che l’Ucraina porterà a termine la liberazione prima delle elezioni statunitensi del prossimo anno.
Un’immagine di efficienza, dunque, a rassicurare sui rischi di escalation e protrazione della guerra e dei suoi costi per tutti. E così arrivano sia i missili Storm Shadow da Londra, sia un nuovo pacchetto di carri armati Leopard e Gepard da Berlino, dove domani è atteso il presidente ucraino.
Sul piano diplomatico, mentre la Cina dispiega il proprio inviato a Mosca e Kyiv, c’è da registrare per la prima volta il cauto ottimismo del Segretario di Stato USA Blinken circa il ruolo che Pechino potrà avere nel portare la Russia a sedere a un tavolo negoziale, verosimilmente a Parigi.
Dopo quasi un anno di lentissimi e sanguinosi avanzamenti, l’arretramento di Mosca verso posizioni difensive anche sul fronte di Bakhmut è avvenuto in modo precipitoso, con tanto di voci di miliziani Wagner che sparano sui soldati russi in fuga. Gli ucraini hanno ristabilito una via di rifornimento, e questa circostanza segna probabilmente un punto di culmine per l’iniziativa militare russa: affrontando costi umani molto alti gli ucraini hanno assorbito le molteplici offensive russe, disarticolandole.
Le incognite principali delle prossime settimane riguardano la capacità di sfondamento delle linee pesantemente fortificate dalle forze di occupazione. Nel frattempo, i sistemi militari occidentali hanno mostrato la loro efficacia: il tentativo russo di affossare le difese antimissile Patriot con un missile ipersonico è stato affossato dalla risposta del sistema Patriot stesso.
L’economia russa cresce nonostante le sanzioni
Le iniziative diplomatiche sono condizionate da questi eventi sul campo di battaglia. Nella politica internazionale Roma è anche (talvolta soprattutto) il Vaticano: quando si entra nella Santa Sede, però, si esce dai binari dell’atlantismo, per incontrare i fili di una diplomazia esplicitamente schierata sul dialogo e per la pace. Nei mesi scorsi la posizione del Papa ha attirato le pesanti critiche dei più accesi sostenitori di Kyiv, convinti che in ogni appello a far tacere le armi si celi un favore fatto all’aggressore che ormai sarebbe sempre più all’angolo.
Il Vaticano gestisce le complesse vicende del dialogo ecumenico, e non perde occasione per ricordare come il ‘martirio dell’Ucraina’ sia una guerra fra popoli fratelli, famiglie vicine per lingua e religione. Rispetto al solco di odio e crescente disumanizzazione su cui si erigerà questa frontiera europea il messaggio di fratellanza e perdono cristiano agisce su molteplici livelli. Il Vaticano dichiara di essere disponibile in ogni momento per iniziative che facciano tacere le armi.
Sappiamo di canali diplomatici vaticani che agiscono discretamente e sottotraccia, sappiamo del desiderio del Papa di portare di persona il proprio messaggio ai popoli in guerra. Di rientro dall’Ungheria, Francesco ha spiazzato tutti parlando apertamente di un’iniziativa di pace in corso.
Difficile sapere quale ruolo di preciso la Chiesa cattolica si stia ritagliando rispetto ai calcoli strategici e tattici delle Grandi Potenze o aspiranti tali. È possibile l’impegno su alcune iniziative che ri-umanizzino il conflitto, ad esempio sul ritorno alle famiglie dei bambini ucraini portati in Russia.
Di certo il messaggio del Papa è fra i pochi che si sono distinti, in questo anno orrendo, per rifiuto della logica che porta alla crescita senza fine della spesa per armamenti. L’unico lontano dalla retorica della vittoria, fra i pochi a prendere le distanze dal nazionalismo armato e dalle ossessioni identitarie come fucina della storia europea
Commenta (0 Commenti)ELEZIONI TURCHE . Che Paese sarà se vince l’opposizione? Il progetto di egemonia interna ed estera di Erdogan, in crisi per il disastro economico e per la tragedia del sisma, ha soffocato la società civile
Quale Turchia avremo se dovesse vincere le elezioni Kemal Kilicdaroglu, nato a Dersim nel 1948, alevita, laico e progressista?
Una domanda che è ormai più che legittima visto che Erdogan è al potere da oltre un ventennio, quasi una generazione, e andranno alle urne per la prima volta cinque milioni di giovani. E se la sua vicenda politica è realmente all’epilogo, è ancora più legittimo chiedersi come potrebbe essere la transizione.
In questo ventennio la Turchia, che celebra i 100 anni della repubblica fondata da Ataturk, è assai cambiata. Una generazione fa era dominata da una élite militare e secolarista, con Erdogan si è allargata agli strati più popolari e tradizionalisti rappresentati dall’ascesa del partito Akp. Erdogan ha cavalcato questa ascesa con piglio cinico e autoritario, come prevedibile. In un’intervista al quotidiano Milliyet del 14 luglio 1996 – mentre era ancora sindaco di Istanbul – affermava: «La democrazia è come un tram, quando raggiungi la tua fermata scendi».
DA QUEL TRAM Erdogan è sceso da un pezzo mandando in carcere oppositori politici, leader curdi, giornalisti, scrittori e gente comune che ha soltanto osato criticarlo. Il suo progetto di egemonia politica e culturale, incrinato oggi dalla crisi economica e dalla tragedia del terremoto, ha soffocato la società civile turca, che molti casi, per sopravvivere, ha scelto l’esilio. Ma la Turchia riserva sorprese e non sempre in meglio. In 40 anni chi scrive ha assistito a tre colpi di stato, di cui uno fallito, tre guerre, una interna contro i curdi, una in Iraq e un’altra in Siria, oltre al terrorismo con attentati spaventosi nel cuore del Paese.
IL 12 SETTEMBRE 1980 ci fu il colpo di stato del generale Evren: passando in pullman in un villaggio vidi un uomo impiccato che penzolava dal palo della luce. Dieci giorni dopo Saddam Hussein attaccava la repubblica islamica iraniana: la Turchia era già diventata il nuovo fattore strategico della regione accanto al tradizionale ruolo di baluardo anti-sovietico della Nato di cui faceva parte dagli anni Cinquanta.
IL SECONDO GOLPE è stato definito postmoderno o «bianco», nel senso che non ci fu spargimento di sangue. Il 28 febbraio 1997 ai generali bastò far sfilare i carri armati per strada per mettere in riga il premier islamista Erbakan mentre Erdogan finiva dietro le sbarre.
Si pensava che l’islam politico fosse stato ricacciato indietro ma il lavoro condotto da Erbakan ed Erdogan aveva lasciato radici nella società che riscopriva, senza ovviamente averlo mi dimenticato, il suo ruolo di potenza ottomana, dai Balcani, al Medio Oriente, alle ex repubbliche sovietiche e turcofone. Il terzo golpe è stato quello fallito contro Erdogan del 15 luglio del 2016. Con lo scrittore Ahmet Altan, poi gettato in carcere, passammo sui uno dei ponti sul Bosforo dove avevano ucciso un generale, il vice comandante della base Nato di Istanbul. Poche ore dopo Erdogan fece chiudere anche Incirlik dove gli Usa tengono le testate nucleari.
PIÙ CHE LE TEORIE complottiste sul ruolo dei gulenisti e degli americani, preme sottolineare che in quel momento drammatico la Turchia aveva sbattuto le porte in faccia alla Nato, come nel 2003 quando rifiutò il passaggio alle truppe Usa dirette contro Saddam Hussein.
Il fallito golpe, le primavere arabe, le conseguenze della guerra in Siria e del colpo di stato in Egitto nel 2013 contro i Fratelli Musulmani, sono stati eventi vissuti in Turchia come prove dell’ostilità occidentale nei confronti dell’islam in generale e della nazione turca nata dalla maggiore sconfitta subita in un millennio: lo smembramento dell’impero ottomano da parte delle potenze occidentali. È questo sentimento diffuso, rimasto sotterraneo durante gli anni della repubblica kemalista, accompagnato da un senso di rivincita e di rabbia, che è riemerso in questi 20 anni nella politica estera di Erdogan. Un sentimento presente oggi anche nell’elettorato dell’opposizione.
LA STRATEGIA GEOPOLITICA turca, che si basa sulla riconquista della leadership regionale, non è destinata a cambiare ma nel breve periodo, se vincesse Kilicdaroglu, si potrebbe riaccendere il dialogo tra Ankara e l’Ue, con rapporti più distesi con la Nato, accompagnati dalla liquidazione del sostegno ai gruppi islamisti e ai Fratelli Musulmani, spianando così le relazioni tra Turchia, Egitto e Israele, un’evoluzione per altro già cominciata con il presente governo.
MA IN TERMINI strategici i mutamenti non saranno così rilevanti: la politica estera continuerà ad assecondare le ambizioni della Turchia dal Caucaso al Mediterraneo, dall’Azerbaijan alla Libia: in questi anni l’opposizione, sul fronte della politica estera, ha fatto da spalla a Erdogan, al suo governo e alla politica della “Patria Blu”.
Come pure ha sostenuto la repressione dei curdi siriani nel Rojava e dei curdi di casa. Non cambierà troppo neppure l’atteggiamento nei confronti della Russia: nessuno al comando ad Ankara può alienarsi i rapporti con Mosca per evidenti ragioni energetiche ed economiche. E forse un giorno ci si accorgerà che il problema della Turchia non è soltanto Erdogan ma la Turchia stessa
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le cause di questo disastro sono molte e diverse.... ma a proposito di pulizia degli alvei e degli argini alleghiamo una considerazione, ricevuta tra le tante che circolano:
Buongiorno, le considerazioni dell'amico Maurizio Nieddu sono condivisibili per la regimazione dei canali, ma a mio parere non per i corsi d'acqua naturali quali sono i fiumi, tema che indubbiamente trova pareri discordanti da parte degli "esperti" sulla velocità dell'acqua da favorire con la pericolosità che comporta o da rallentare con la presenza ad esempio di vegetazione negli argini, che li rende anche più sicuri contro il rischio di rotture.....alla pag 16 delle Linee guida regionali per la riqualificazione integrata dei corsi d’acqua naturali
dell’Emilia-Romagna troviamo infatti quanto segue:
"Le associazioni vegetali ripariali, oltre a costituire un importante valore ecologico e fungere da agenti di una notevole attività di depurazione del- le acque, possono essere considerate come la più naturale delle difese idrauliche, efficaci per la limitazione dell’erosione e per il rallentamento della corrente nelle zone d’alveo non soggette ad invaso permanente.
Risulta quindi evidente la necessità di mantenere, al di fuori dell’alveo normalmente attivo, la vegetazione esistente, limitando gli abbattimenti agli esemplari di alto fusto morti, pericolanti, debolmente radicati, che potrebbero essere facilmente scalzati ed asportati in caso di piena."
LINEE GUIDA REGIONALI PER LA RIQUALIFICAZIONE INTEGRATA DEI CORSI D’ACQUA NATURALI DELL’EMILIA-ROMAGNA
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COMMENTI. Il pericolo di una disfida tra i rigidi, antieconomici e inquinanti impianti nucleari e le energie rinnovabili. Con il rischio per il paese di rinviare la decarbonizzazione
Centrale del Garigliano - Ansa
Ci sarà pure un motivo per il quale la generazione elettrica complessiva da nucleare dal 18% del 1996 è scesa al 10% del 2021 (Iea, World Energy Outlook 2022)? Qualsiasi discussione sul nucleare deve preliminarmente dare risposta a questa e ad altre domande. Soprattutto dopo l’approvazione del Parlamento di una mozione sul nucleare. Un atto propedeutico per un eventuale dispositivo normativo che lascia ancora dubbi e perplessità. La ragione delle necessarie domande è semplice: per non ritrovarsi in una incresciosa ed assurda competizione con le rinnovabili sugli investimenti necessari per la decarbonizzazione, che prevede impegni, come noto, già al 2030.
Prima di tutto di quale tecnologia si parla, con un ruolo dell’Italia tutto da reinventare attraverso partnership internazionali (quali?) per un know-how perduto dopo l’esito di due referendum tranchant. E’ necessario anche sapere l’ammontare dei finanziamenti necessari, in termini di prezzo dell’energia prodotta e del costo di realizzazione, che per il nucleare cresce all’aumentare della taglia.
I mini-reattori (quando disponibili, pur sempre di 3-400 megawatt) hanno la necessità di individuare più siti sul territorio, cosa molto improbabile in un Paese come l’Italia. Occorre chiarezza anche per i tempi di realizzazione, allo stato attuale assolutamente incompatibili con la decarbonizzazione. Se si sta parlando di reattori di cosiddetta quarta generazione non è al momento possibile quantificare costi e tempi in quanto è ancora solo una tecnologia sperimentale con pochi prototipi funzionanti. Più verosimilmente le proposte potrebbero riguardare reattori di terza generazione plus Epr che annoverano oggi quattro reattori di grande capacità (1,6 GW) in tre impianti diversi, anche qui con costi e tempi elevati.
Attualmente, e questo è bene ribadirlo pubblicamente, il confronto dei costi con le rinnovabili è a tutto vantaggio di queste ultime. Lazard e Iea stimano un valore del fotovoltaico utility scale molto più competitivo (valori medi 40 $/MWh contro 165 $/MWh, cioè quattro volte di meno).
Anche considerando la presenza di sistemi di accumulo per il fotovoltaico, si ha un costo del MWh massimo pari a 120 $, ancora inferiore a quello del nucleare. Tale valore può comunque essere ridotto già oggi sfruttando diverse soluzioni di accumulo energetico non solo legate alle batterie elettriche ma riguardanti tecnologie innovative del pompaggio, dell’idrogeno e dell’accumulo termico. La soluzione nucleare è quella comunque meno adatta a stabilizzare la rete a causa della sua intrinseca rigidità a modulare la potenza.
Ancora, come affrontare il tema dell’inquinamento. La tassonomia europea considera il nucleare una fonte verde, ma anche qui si chiede trasparenza. Ricordiamo che uno dei punti inderogabili del principio di non arrecare danno all’ambiente Dnsh per qualunque tipo di intervento riguarda l’inquinamento dell’aria, dell’acqua ma anche del suolo. Dal punto di vista della riduzione delle emissioni di CO2 derivanti dalla produzione di energia elettrica tra rinnovabili e nucleare, recenti studi hanno mostrato il confronto tra le due fonti energetiche.
Esaminando in modo sistematico modelli diversi caratterizzati da quote diverse di rinnovabili e di nucleare, e sulla base di ipotesi riguardanti scenari diversi di potenzialità di mitigazione nei confronti delle emissioni assegnate al nucleare e alle rinnovabili, i risultati delle analisi effettuate mostrano che le emissioni di CO2 sono inferiori nel caso delle rinnovabili.
Inoltre viene evidenziata anche l’esistenza di una associazione negativa tra lo sviluppo in un unico Paese degli impianti nucleari e di quelli che usano fonti rinnovabili, che di fatto si escludono a vicenda. Un Paese ad elevata penetrazione nucleare risulta a bassa diffusione di utilizzo di fonti rinnovabili, e viceversa. Inoltre, la vicenda del deposito delle scorie radioattive come è andata a finire? E’ stata fatta una mappa per i siti delle ipotetiche nuove centrali? Che procedura mettere in campo per superare l’ostacolo dei referendum? Risposte a domande senza ovviamente entrare nel mondo dell’iperuranio, fatto di reattori a fusione, di quarta generazione o microreattori modulari.
Governo e Parlamento farebbero bene a rispondere preliminarmente a queste domande, anche perché il futuro del nucleare è limitato persino per l’Agenzia Internazionale dell’Energia (Iea) che all’atomo assegna uno scarso 10% per la generazione elettrica a livello mondiale, nulla di più di quanto si riscontra oggi.
Se non saremo tutti più che convinti in termini di costi, tempi e soluzioni, sarebbe ridicolo per il nostro Paese affrontare questa avventura – comunque marginale – al di fuori del perimetro di un necessario e fondamentale impegno in termini di ricerca applicata. Fino a quando non si avrà certezza delle fattibilità tecniche e dei costi, il ricorso al nucleare produrrà solo uno slittamento inaccettabile dei tempi di decarbonizzazione del nostro Paese.
*Prorettore alla Sostenibilità, Sapienza Università di Roma e Presidente del Coordinamento FREE
Commenta (0 Commenti)Una data che ricorre, e ora divide, in Europa con la sconfitta del nazifascismo e in Italia, paese sempre più smemorato, con l’epoca del terrorismo e delle stragi fasciste e di Stato
Piazza Fontana, Banca Nazionale dell'Agricoltura il 12 dicembre 1969 - Ansa
Nello smarrimento del tempo presente il 9 maggio è diventata una ricorrenza con cui la nostra società politica e civile sembra fare i conti in modo sempre più complicato e contraddittorio. Eppure è un giorno che richiama tre momenti storici molto diversi. Ma particolarmente importanti per angolatura, prospettiva e interpretazione del nostro passato.
IL 9 MAGGIO 1936 Benito Mussolini dal balcone di Piazza Venezia declamò con tono trionfale «la riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma» per annunciare l’ingresso delle truppe italiane, guidate dal maresciallo Pietro Badoglio, ad Addis Abeba in Etiopia a conclusione di una guerra coloniale e imperialista ideologicamente strutturata sul razzismo di Stato e caratterizzata dai crimini contro la popolazione civile e le forze della Resistenza.
UNA VICENDA SULLA QUALE a tutt’oggi il Paese, grazie alla «mancata Norimberga italiana» e all’impunità garantita ai «nostri» criminali di guerra dagli equilibri della Guerra Fredda, preferisce guardare attraverso la lente deformante del falso mito degli «italiani brava gente» oppure tramite la rimozione tout court dei fatti coronata nel 2012 dalla costruzione del mausoleo al criminale fascista Rodolfo Graziani ad Affile e ribadita dalla postura pubblica assunta sul tema da Giorgia Meloni nel suo recente viaggio nella capitale etiope.
IL 9 MAGGIO 1945 l’annuncio del governo dell’Urss della capitolazione della Germania nazista, che faceva seguito alla resa tedesca alle forze Alleate sul fronte occidentale, apriva al mondo la porta della fine della seconda guerra mondiale in Europa (il conflitto avrebbe avuto il suo tragico epilogo in agosto con le bombe atomiche sul Giappone). Tuttavia, secondo la logica che vuole la rivisitazione del passato come forma di governo del presente, nel contesto bellico di oggi anche questi eventi, che rappresentano la radice fondativa della nostra società contemporanea, vengono sottoposti ad un uso pubblico della storia che ne fa strumento propagandistico dei governi. Così a Mosca la sconfitta del nazifascismo ad opera dell’Armata Rossa serve a legittimare l’aggressione militare all’Ucraina ad opera dell’armata russa, mentre a Kiev (dove il collaborazionista filo-nazista e antisemita Stepan Bandera è considerato eroe nazionale) il giorno della vittoria contro il III Reich cambia data e significato per volere di Zelensky e, con il consenso della presidente tedesca della Commissione europea Ursula von der Leyen, si trasforma in una «festa dell’Europa» (e della Nato).
IL 9 MAGGIO, INFINE, ricorre l’anniversario del ritrovamento a Roma del corpo di Aldo Moro sequestrato e ucciso dalla Brigate Rosse nel 1978 e per questo è stata istituita dal Parlamento la giornata della memoria delle vittime del terrorismo. Un’operazione di «memoria per legge» che interpreta una scelta tanto politicamente «logica» per le istituzioni quanto discutibile per la storia, al netto della drammaticità e della sensazione che l’assassinio dello statista dc provocò allora ed ancora oggi evoca.
UNA SCELTA CHE temporalmente scavalca tutte le stragi compiute dai gruppi neofascisti coadiuvati dagli apparati di forza dello Stato, da Piazza Fontana in avanti senza dimenticare Portella della Ginestra, e colloca nell’immaginario collettivo il fenomeno del terrorismo tutto dentro «gli anni di piombo» quasi ad obliare gli «anni del tritolo». Una raffigurazione che crea un vuoto di memoria pubblica rispetto alle responsabilità nel decennio dello stragismo, rappresentando l’attacco di un nemico esterno, le Brigate Rosse, «al cuore dello Stato» e contestualmente «dimenticando» che il fenomeno del terrorismo in Italia è nato, molti anni prima del 1978, proprio da quel cuore.
IN QUESTA CORNICE, meno definita di quanto sarebbe invece necessario, ieri al Quirinale sono stati ricordati da Sergio Mattarella (figura che incarna una unicità assoluta essendo fratello di una vittima del terrorismo mafioso che parla ad altri parenti delle vittime del terrorismo politico) alcuni degli eventi di quella stagione politica. Ha avuto una sua peculiarità ascoltare il ricordo dell’assassinio dell’agente di polizia Antonio Marino. Morto a Milano il 12 aprile 1973 nel corso di una manifestazione non autorizzata del Msi dalla quale i neofascisti Vittorio Loi e Maurizio Murelli lanciarono una bomba a mano che lo dilaniò. A guidare quel corteo insieme ai massimi dirigenti missini Franco Maria Servello e Franco Petronio vi era Ignazio Benito La Russa, ieri seduto in prima fila alla cerimonia in qualità di Presidente del Senato. Così come un sussulto ha provocato la frase pronunciata dal Presidente della Repubblica a proposito della strage del 17 maggio 1973 alla questura di Milano avvenuta «per mano anarchica». Una versione poi rettificata nella comunicazione ufficiale pubblicata sul sito del Quirinale.
QUELL’ATTENTATO VENNE realizzato da Gianfranco Bertoli, finto anarchico in realtà neofascista di Ordine Nuovo e già agente informatore del Sifar, nome in codice «Negro». Lanciò una bomba a mano con l’intento di uccidere il ministro dell’Interno democristiano Mariano Rumor «reo», agli occhi degli ordinovisti, di non aver proclamato lo «stato d’emergenza» e sospeso la Costituzione la notte del 12 dicembre 1969 dopo l’eccidio di Piazza Fontana.
Prima della strage Bertoli aveva alloggiato per settimane a Verona nella casa di Marcello Soffiati, ordinovista e agente informativo della Nato in Veneto, dove era stato istruito rispetto alla versione da dare in caso di arresto: dichiararsi anarchico e rilanciare la falsa pista messa in piedi contro Giuseppe Pinelli e Pietro Valpreda. Una goccia nel mare per uno smemorato Paese.
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RIFORME. Si avvia il secondo atto sul palcoscenico delle riforme. Meloni convoca le opposizioni, non è chiaro se per scrivere insieme il copione, o per diffidarle ad accettare il ruolo di […]
Giorgia Meloni alla Camera - foto LaPresse
Si avvia il secondo atto sul palcoscenico delle riforme. Meloni convoca le opposizioni, non è chiaro se per scrivere insieme il copione, o per diffidarle ad accettare il ruolo di comparse. Nemmeno sappiamo se c’è, e nel caso quale sia, la proposta della destra. Unico dato è l’investitura popolare diretta. Ma di chi e per fare cosa?
In ogni caso, sarebbe una innovazione incompatibile con l’architettura fondamentale della Costituzione vigente, fondata sulla forma di governo parlamentare.
Inevitabilmente stravolgerebbe il ruolo e i poteri del presidente della Repubblica, sia che fosse il prescelto per l’unzione popolare, sia che invece lo fosse il capo del governo. Una riscrittura di tale portata da rendere insignificante la diatriba sul ricorso all’art. 138 o altri metodi. Quale che fosse la modalità prescelta, si tratterebbe in ogni caso di una successione tra ordinamenti. Una Costituzione muore, una Costituzione nuova nasce.
Può stupire che la destra sia rimasta ancorata alle vecchie bandiere. L’investitura popolare non è più sinonimo di stabilità e solidità politica e istituzionale. Nel mondo di oggi l’elezione diretta divide e contrappone, non unisce. I due modelli di riferimento – gli Usa per il presidenzialismo e la Francia per il semipresidenzialismo – lo dimostrano in questa fase storica con
Leggi tutto: Riforme, un presidenzialismo fuori tempo e il baco delle Autonomie - di Massimo Villone
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