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Rimuovono la sconfitta dell'uomo tecnologico, credono nella sua illusoria infallibilità e pretendono che continui la sua marcia trionfale al centro del creato

Massimo Cacciari

Massimo Cacciari  © Elisabetta Baracchi e Serena Campanini

Giorgio Agamben e Massimo Cacciari, noti e prestigiosi filosofi, cui si è aggiunto un giurista di rango come Ugo Mattei e altri intellettuali, hanno già ricevuto più di una sensata obiezione alle loro posizioni sostanzialmente no vax. Credo tuttavia che lo spettro delle critiche da muovere a questi volenterosi difensori delle nostre libertà, debba essere meno limitato e riferirsi a una visione più radicale.

Quel che in realtà appare sorprendente e meritevole di approfondimento è la cultura di fondo, l’implicito “inconscio filosofico” su cui si reggono le posizioni di questi studiosi, che non differiscono in nulla rispetto alle vulgate popolari dei no vax di strada. La rivendicazione della libertà di spostamento e di movimento degli individui, al centro delle critiche e delle proteste, che pare essere una trincea di lotta democratica, rivela in realtà una concezione squisitamente neoliberista, se non aristocratica, della società. Non a caso si tace del tutto il fatto che la libertà di spostamento degli individui, in quanto esseri sociali, comporta relazioni e vicinanza con gli altri ed è quindi il vettore unico e universale della trasformazione di una malattia virale in una pandemia planetaria. Senza contatti il virus non si diffonde, così che la loro limitazione per intervento statale costituisce una iniziativa di salute pubblica, mirata a difendere la comunità, contro il diritto solitario del singolo che vuole essere libero di contagiare gli altri.

I filosofi potevano esaminare e lamentare i guasti di una società già devastata dall’individualismo edonistico della nostra epoca, cui si aggiunge, per dolorosa necessità, questa ulteriore spinta dall’alto alla disgregazione. Ma non lo fanno, figli poco filosofici della propria epoca, lamentano le restrizioni subite dall’individuo solitario.

Non meno rivelatore di un atteggiamento che non si discosta dalla psicologia corrente del comune uomo medio, è la posizione critica e recriminatoria contro la scienza medica che si occupa di monitorare l’andamento della pandemia e che orienta il governo nelle sue strategie di contenimento. Si tratta di rivendicazioni che muoverebbero al riso per la loro superficiale ingenuità, ma che rivelano rimozioni più profonde.

La continua protesta di Cacciari, come di tanti non filosofi, per la scarsa informazione fornita dagli scienziati, per le loro comunicazioni contraddittorie, per gli effetti collaterali del vaccino non perfettamente indagati, rivelano in realtà l’ingenua pretesa della infallibilità della scienza, che vorrebbero simile a quella dei papi medievali. Ma non sanno i filosofi che anche nel mondo della scienza esistono diverse scuole, differenti approcci metodologici, molteplici esperienze sperimentali, che portano anche a conseguenze e risultati difformi? E davvero i filosofi possono, senza arrossire, rimproverare agli scienziati errori e contraddizioni, dimenticando che costoro hanno dovuto far fronte a un nemico sconosciuto, che nei primi tempi combattevamo a mani nude, e che in poco tempo ci hanno fornito conoscenza e strumenti efficaci di contenimento?

Ma la ragione di fondo, la base “filosofica” di quasi tutte queste posizioni di recriminazione contro le scelte istituzionali è con ogni evidenza quella che potrei definire l’arroganza antropocentrica di un pensiero che oggi appare invecchiato di fronte alle emergenze ambientali del nostro tempo. Perché non riconoscono il virus, non riescono a concepire la superiorità e la potenza della natura, di qualcosa che sfugge al dominio dell’uomo e lo sovrasta. Rimuovono del tutto la sconfitta sul campo dell’uomo tecnologico, la cui illusoria infallibilità hanno introiettato come un dato naturale e pretendono perciò fanciullescamente che esso continui la sua marcia trionfale al centro del creato.

Ma la rimozione del virus come un accidente transitorio è in questo caso la spia di un distacco profondo del pensiero filosofico, e in genere di quasi tutta la cultura italiana, dal mondo della natura, dagli sconvolgimenti inflittale dall’uomo. Il quale rimane il signore di tutte le cose, secondo l’antica concezione giudaico-cristiana. Non si è compreso il salto epocale, generato dal fatto, per dirla con Edgar Morin, che «più l’uomo possiede la natura, più la natura lo possiede».

Tutte le pandemie degli ultimi decenni provengono dagli allevamenti intensivi e in genere da un assoggettamento sempre più vasto del mondo selvaggio alle economie umane. Non si pretende che i filosofi si occupino di zootecnica, ma forse qualche visione generale del mondo dovrebbero trarre dal fatto che miliardi di animali, sono oggi ammassati in giganteschi lager, imprigionati in gabbie, fatti vivere per breve tempo in condizioni di sofferenza inaudita. Su tale realtà, soprattutto fuori d’Italia, è fiorita una vasta letteratura, perfino una corrente di pensiero, quella sui diritti degli animali (animal rights). La nostra civiltà si regge sul dolore e sullo sterminio quotidiano di milioni di creature viventi, ma in Italia il fenomeno non viene degnato di alcuna considerazione da un pensiero umanistico invecchiato, rimasto fermo all’homo sacer.

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Partiti. La ricostruzione della sinistra non passa attraverso la partecipazione alle urne. Anche risultati locali a volte confortanti hanno corto respiro

Massimo D'Alema

Massimo D'Alema  © LaPresse

Se un pregio lo hanno le esternazioni dalemiane di fine anno è quello di alzare impietosamente il velo sul “piccolo mondo antico” della sinistra. Quelle parole hanno creato non poca turbolenza su entrambi i versanti, nel Pd e in Articolo 1, ovviamente con opposte motivazioni. Saranno gli aderenti a Articolo1 a decidere della loro sorte nelle sedi opportune che siamo tenuti a rispettare. Ma già prima avevamo compreso, da altre voci, che era in atto un progressivo sfarinamento di Leu, realtà peraltro già virtuale, arroccata nelle istituzioni ma assente in quanto tale nella società.

Le cause non risiedono solo nella scelta, con l’eccezione della navicella di Sinistra Italiana, di collocarsi al governo entro il perimetro draghiano. Sono più profonde e più lontane. Lo evidenzia, per converso, la diagnosi di D’Alema sul Pd, che sarebbe stato affetto da una malattia, il renzismo, dalla quale sarebbe ora guarito. In realtà, dalla Bolognina in poi, attraverso i cambiamenti di nome e di assetto, abbiamo assistito a un percorso di fuoriuscita dalla storia del movimento operaio di questa forza politica. Un approdo ben più grave, credo irreparabile, di una sterzata a destra della linea politica, che ha portato con sé l’abbandono di referenti e legami sociali, dell’idea di una trasformazione seppure graduale della società, di strutture organizzative basate sulla partecipazione degli aderenti e su un insediamento sociale, per schiacciare le prospettive politiche sull’aggiustamento del presente, di cui la priorità del governo su ogni cosa è la manifestazione più evidente.

Ma è inutile negare che questo percorso ha avuto ed abbia tutt’ora una forza di attrattiva giocata su un malinteso realismo. Questo processo non poteva essere contrastato, e infatti non lo fu, raccogliendo semplicemente le antiche bandiere dismesse. Ma neppure sperando che la spinta di movimenti reali e innovativi fosse sufficiente per dare vita ad una nuova forza della sinistra. I frequenti appuntamenti elettorali sono stati più d’ostacolo che di aiuto. A distanza di cinquant’anni il monito della Rossanda contro il “contarsi per contare” è di bruciante attualità. Bisognerebbe allora mettere un punto fermo.

La ricostruzione della sinistra non passa attraverso la partecipazione alle urne. Anche risultati locali a volte confortanti hanno corto respiro. Di fronte al taglio del Parlamento e alla prospettiva per quanto da contrastare, che si torni a votare con la stessa legge, salvo rimaneggiamenti obbligati, avrebbe davvero poco senso un’aggregazione elettorale, per giunta con un incerto e improvvisato profilo.
Del resto più di un’analisi dimostra che il voto di appartenenza, non solo di testimonianza, ha perso terreno rispetto a quello di opportunità, per qualche risultato concreto.

Non si tratta quindi di recidere ogni confronto con le istituzioni. Si possono costruire intese con forze o individualità per specifici obiettivi. Ma in primo luogo serve raccogliere tutte le forze disponibili per avviare un processo costituente di una nuova forza di sinistra. Non sommare, ma riuscire a fare interloquire i portatori di un pensiero alternativo, siano questi pezzi di organizzazioni, esperienze di movimento, associazioni o singole intellettualità. Nessuna miniorganizzazione può proporsi come il centro di un simile progetto. Per cui individuare il punto di partenza non è facile. Tuttavia la discussione aperta su questo giornale ci può aiutare fornendo un modello di ambito comune, una sorta di crogiolo, in cui riversare le diverse riflessioni che puntano alla trasformazione dell’attuale società rifiutandosi di concepire il capitalismo come la fine della storia, che contrappongano al suo totalitarismo un’altra idea dialettica di totalità e l’esigenza di dare vita ad un’organizzazione che, con tutte le innovazioni necessarie, costituisca una massa critica capace di costruire concreti modi alternativi di vita e di lavoro.

Un percorso indubbiamente difficile perché ci si scontra con un pervicace attaccamento alle storie delle proprie organizzazioni nell’illusione di ognuno di fare della propria il centro di una nuova aggregazione più o meno larga. Il guaio è che questo vizio non è riscontrabile solo nei minipartiti, ma anche nei numerosi cenacoli intellettuali, spesso ricchi di idee, ma non comunicanti attivamente tra loro. Ma se non vogliamo la desertificazione bisogna evitare, come ci ammoniva Franco Fortini, di essere “materialisti con gli altri e idealisti con noi stessi”.

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L'atomo fuggente. Il leader dem: «Dalla commissione Ue scelta totalmente sbagliata» Chiara Braga: «Da Salvini solo pericolosa demagogia»

Enrico Letta  © LaPresse

Sul nucleare il Pd batte un colpo. «Non ci piace la bozza di tassonomia verde che la Commissione Ue sta facendo circolare», spiega Enrico Letta. «L’inclusione del nucleare è per noi radicalmente sbagliata. E il gas non è il futuro, è solo da considerare in logica di pura transizione verso le vere energie rinnovabili».

IL LEADER PD SI SMARCA dunque dalla posizione del premier tedesco Olaf Scholz che aveva fatto un clamoroso dietrofront sulla proposta avanzata da Bruxelles di inserire il nucleare e il gas naturale in una lista di attività economiche considerate sostenibili dal punto di vista ambientale. Se Scholz dunque si arrende alle posizioni nucleariste di Parigi, il Pd prova a far sentire la sua voce in vista della decisione del governo italiano attesa entro il 12 gennaio. Una decisione difficile visto che il ministro della Transizione ecologica Cingolani è aperto al nucleare e il leader della Lega Salvini ne è un tifoso.

«Nella tassonomia proposta da Bruxelles, sul nucleare si dà per scontato che non rechi danno per l’ambiente, ma così non è», spiega Chiara Braga, deputata, responsabile transizione ecologica del Pd. «Ci sono troppi elementi non chiari che riguardano la sicurezza delle centrali, lo smaltimento delle scorie e i costi di produzione. Per noi non è ragionevole inserire questa fonte energetica tra quelle sostenibili».

PER I DEM FANNO ANCORA fede i due referendum del 1986 e del 2011. «Gli italiani si sono pronunciati nettamente, per quanto riguarda il nostro paese la scelta di investire sul nucleare di terza generazione sarebbe anche anti-economica», spiega Braga. «Si tratta di una tecnologia che abbiamo abbandonato da decenni. In altri paesi come la Francia i costi per la realizzazione delle centrali di terza generazione sono schizzati alle stelle, come ha certificato la loro corte dei conti».

Secondo Braga poi «il nucleare di quarta generazione non esiste e non è praticabile». Quanto a Salvini, che agita l’atomo per far fronte al caro bollette, la deputata dem è netta: «Pura demagogia, e anche pericolosa perchè agitare questo spauracchio rischia di rallentare il percorso verso le fonti rinnovabili».

IL LEGHISTA PARLA ANCHE di un nuovo referendum. «Io ricordo che quando il governo Conte 2 si è attivato per realizzare un deposito nazionale delle vecchie scorie nucleari italiane Salvini si è scatenato creando allarme sociale», dice Braga. «In ogni regione dove andava diceva “le scorie non devono venire qui”. Mi chiedo oggi possa pensare di proporre agli stessi cittadini la realizzazione di nuove centrali. Davvero, fa solo demagogia. Non a caso il governo gialloverde non fece nulla per il deposito delle scorie, tanto che siamo in grave ritardo. Già smaltire le vecchie scorie è un processo complesso e costoso.

ORA PERÒ DEVE PRONUNCIARSI il governo italiano. «Il Pd farà sentire la sua voce nelle sedi istituzionali, per noi il nucleare non fa parte del futuro energetico dell’Italia neppure come fonte di transizione», assicura Braga. «Certo, trattandosi di criteri per gli investimenti, dunque di un tema economico, sarà dirimente il parere del Mef».

I dem sosteranno la posizione anche al parlamento europeo, dove il no alla tassonomia proposta da Bruxelles è largamente condiviso dai socialisti. «Ci sarà una discussione, ma mi pare che anche gli altri partner socialisti siano d’accordo nel non considerare il nucleare compatibile con il green deal», spiega la componente della segreteria Pd. «Così la pensa anche il capodelegazione a Bruxelles Brando Benifei: «La proposta di qualificare il nucleare come investimento sostenibile è un grave errore, perché oggi tutti gli incentivi devono andare alle fonti di energia realmente sostenibili. Ora il governo agisca».

L’uscita di Letta piace agli ambientalisti. «Una scelta politica importante», dice Angelo Bonelli di Europa Verde. «L’inserimento del nucleare e gas nella tassonomia verde Ue non tutela il pianeta e nemmeno gli interessi economici dell’Italia, ma solo quelli dell’industria nuclearista francese, fortemente indebitata, che vuole mettere le mani sui fondi pubblici europei e quindi anche nostri. Ora ci sono le condizioni per costruire insieme al Pd e i Verdi nel Parlamento europeo una maggioranza che possa bocciare la proposta di tassonomia».

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Delocalizzazioni. Domenica consiglio comunale straordinario. Tante iniziative di solidarietà ai cancelli dello stabilimento presidiato dalle operaie. La destra attacca il sindaco invece della multinazionale che vuole chiudere.

Chiusura fabbrica dei marroni a Marradi, la solidarietà degli ex Gkn

Le lavoratrici e i lavoratori dell’Ortofrutticola Mugello hanno iniziato il nuovo anno in presidio per difendere la “loro” fabbrica. E Walter Scarpi, marradese doc, rilancia le parole del sindaco campigiano Emiliano Fossi per la Gkn occupata: “Da qui non esce nemmeno un bullone”. Una presa di posizione condivisa dal sindaco Tommaso Triberti, con un delibera che vieta il passaggio dei camion su cui potrebbero essere caricati i macchinari. Perché c’è il rischio di perdere uno dei pochissimi siti produttivi dell’Alto Mugello, per giunta con lavorazioni a chilometro zero.
A Marradi, cittadina al confine fra la Toscana e la Romagna, in segno di solidarietà sono arrivate, fra i tanti, anche le tute blu del Collettivo di Fabbrica. Una mobilitazione generalizzata per non far chiudere il più importante stabilimento del comprensorio, sorto nel 1984 e dal 2020 di proprietà di Italcanditi, che ora ha annunciato di voler spostare a Pedrengo, nel bergamasco, la lavorazione del rinomato Marrone del Mugello Igp. Una delocalizzazione interna che

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Obbligo Vaccinale per Over 50. Come già per scuola e sanità, nessuna sanzione disciplinare per chi non si adegua. Le misure non concordate: Cgil, Cisl e Uil critiche

Un controllore di Trenitalia controlla il Green pass all'ingresso della carrozza  © Foto LaPresse

Dunque a partire dal 15 febbraio i lavoratori pubblici e privati – compresi quelli in ambito giudiziario e i magistrati – che hanno compiuto i 50 anni dovranno esibire al lavoro il cosiddetto Super Green pass. Chi non lo farà, non riceverà lo stipendio ma conserverà il posto di lavoro e sarà considerato «assente ingiustificato, senza conseguenze disciplinari e con diritto alla conservazione del rapporto di lavoro, fino alla presentazione».
L’accesso ai luoghi di lavoro senza certificato che attesti vaccino o guarigione è vietato e chi non rispetta il divieto subirà una sanzione amministrativa tra 600 e 1500 euro. Tutte le imprese, senza eccezione dunque sul numero complessivo di dipendenti, potranno sostituire i lavoratori sospesi perché sprovvisti di certificazione verde. La sostituzione rimane di dieci giorni rinnovabili fino al 31 marzo 2022.
Sebbene con alcune sorprese dell’ultimo giorno, ancora una volta senza confronto con le parti sociali, il governo ha varato con enormi difficoltà provvedimenti che impatteranno fortemente sul mondo del lavoro.
Rispetto alle decisioni prese dal consiglio dei ministri ieri sera sull’estensione del Green pass rafforzato – solo per guariti e vaccinati, escludendo i “tamponati” – per i lavoratori con più di 50 anni considerati la fascia più a rischio, i sindacati avevano più volte chiesto un confronto al governo Draghi.
La posizione di Cgil, Cisl e Uil fin dalla scorsa estate era quella di chiedere l’obbligo vaccinale generalizzato, senza limitarlo ad alcune categorie di lavoratori.
Posizione inizialmente contestata dal governo e poi progressivamente appoggiata direttamente – ma con tre mesi di ritardo – perfino dal segretario del Pd Enrico Letta.
Più problematica la considerazione sull’estensione del Green pass rafforzato che i sindacati considerano una mera ipocrisia, accusando il governo di non avere il coraggio di imporre l’obbligo vaccinale.
I lavoratori non vaccinati vengono stimati 2,5 milioni, pari circa ad un lavoratore su dieci. Quanti siano quelli over 50 è ancor più difficile stimarlo, ma la cifra supera certamente il milione di persone.
Su questo altissimo numero di lavoratori i sindacati sono coscienti di avere ben poco controllo. Il tentativo di fare assemblee sui luoghi di lavoro per favorire la vaccinazione fatto nei mesi scorsi ha sortito scarsi effetti. Nonostante la necessità di dover rappresentare anche questi lavoratori, per evitare discriminazioni sui luoghi di lavoro, i sindacati scontano la stessa lontananza di politica, scienza e istituzioni.
D’altronde già nella scuola – dove vige l’obbligo di vaccinazione – non sono state previste sanzioni: chi non si vaccina non lavora ma si mette in aspettativa e non perde il posto.
Intanto proprio ieri è stata formalmente sottoscritta l’ipotesi di rinnovo del contratto nazionale delle Funzioni Centrali della pubblica amministrazione. Ad annunciarlo sono Fp Cgil, Cisl Fp e Uil Pa, che sottolineano come la firma di «perfeziona la pre-intesa siglata lo scorso 21 dicembre con i riferimenti alla legge di Bilancio che assicura le risorse necessarie alla realizzazione del nuovo ordinamento e al finanziamento dei fondi per la contrattazione integrativa».

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Il caso. Il silenzio di Speranza. Fornaro: non c'è alternativa a una riunificazione a sinistra

Il segretario di Art.1 Roberto Speranza «Il Pd è un progetto fallito che non è in grado di rappresentare il mondo del lavoro, lì non dobbiamo ritornare», taglia corto Simone Bartoli, segretario di Articolo 1 in Toscana. «Letta sta facendo solo una manutenzione del Pd, noi dobbiamo restare un soggetto autonomo», gli fa eco Pippo Zappulla, che guida il partito di Bersani in Sicilia.

Mentre Roberto Speranza, che di Art.1 è il segretario, continua a tacere sul nodo politico portato sotto i riflettori a fine anno da Massimo D’Alema, la discussione sul rientro nel Pd di chi nel 2017 aveva sbattuto la porta è tutt’altro che scontata. Non è ancora chiaro se, nel congresso di aprile, l’intendenza si ribellerà, ribaltando la volontà di Speranza, Bersani e soci, ma il passaggio è delicato.

In queste ore gli iscritti e i dirigenti di Art.1 sono molto attivi sulle chat, la ricomposizione evocata dal leader maximo non convince. Nonostante Renzi se ne sia andato da tempo. «Ma quale guarigione dalla malattia», protesta Bartoli. «Il renzismo è stata una degenerazione di un progetto che parlava già dal 2007 di partito post ideologico, di vocazione maggioritaria. Tutto sbagliato, all’Italia serve un partito del lavoro». E Letta? «Un sincero democratico, ma nel Pd l’humus culturale che ha portato al renzismo è tutt’altro che sparito. Può accadere di nuovo».

«Il congresso di primavera farà chiarezza sul nostro futuro», spiegano dal coordinamento regionale del Veneto. «Ma il suo esito non può essere scontato o pregiudicato dalla partecipazione alle agorà democratiche. Ci sarà un confronto tra diverse opzioni». «Non servono scorciatoie o fughe in avanti», fanno eco i lombardi nel loro documento. «Non possiamo limitare la nostra azione politica alle agorà del Pd», insistono dal Lazio. «Dobbiamo tornare con forza e convinzione al nostro originario progetto politico: costruire una forza plurale della sinistra».

Toni bellicosi anche dai coordinamenti di Sardegna e Abruzzo: «Non intendiamo tornare nel Pd». Non tutti la pensano così: in Emilia Romagna, ad esempio, la strada di una riunificazione coi dem trova molti più consensi. Così anche in Friuli. E c’è chi ricorda che all’ultima assemblea nazionale, a maggio 2021, la partecipazione alle agorà di Letta fu votata quasi all’unanimità.

Certo, naufragato il progetto di Leu con Sinistra italiana, per i bersaniani la strada è politicamente molto stretta. Federico Fornaro, capogruppo alla Camera, ragiona come sempre in modo pacato: «Finite le agorà a primavera tireremo una riga e decideremo». Ma, aggiunge, «mi devono spiegare qual è l’alternativa a questo processo di riunificazione. Nessuno di noi ha mai pensato di fare la Linke o una sinistra radicale».

Al contrario, Fornaro guarda alla riunificazione del 1966 tra socialisti e socialdemocratici: «Rispetto a 5 anni fa siamo in una nuova fase politica, serve uno spirito costituente, se avessero continuato a parlare dei torti e delle ragioni del passato nel 1966 le anime socialiste non si sarebbero reincontrate». Già, in mezzo a tante scissioni, dal 1921 in poi, c’è stata anche quache riunificazione. Quella del 1966, ammette Fornaro, «andò male, ma fu un tentativo».

In Art.1, stando agli umori diffusi, il no al rientro tra i dem sembrerebbe favorito. Ma pesa il fatto che tutto il gruppo dirigente nazionale spinga in quella direzione. E che i ribelli non abbiano un frontman in grado di competere per la leadership. « Dal Pd, almeno per ora, non traspare una grande voglia di una nuova costituente. Di cambiare nome neppure per sogno, ma neppure di una robusta revisione del programma in chiave più di sinistra e laburista. Le porte per gli ex compagni appaiono socchiuse. Eppure, avverte Fornaro, «gli attuali contenitori non bastano a intercettare il malessere sociale, neppure il Pd. Guai a illudersi per le vittori nelle città come i progressisti nel 1994».

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