Ri-Nato Nel fine settimana l’ultimatum di «volenterosi» e Usa, Zelensky accetta e la Casa bianca esulta, ma il Cremlino non conferma
Starmer, Zelensky, Macron, Tusk e Merz durante l’incontro dei volenterosi a Kiev – Ap
Ciò che è sembrato impossibile per oltre tre anni si è sbloccato in 24 ore: Putin e Zelensky potrebbero incontrarsi giovedì in Turchia per avviare le trattative sulla fine della guerra. Probabilmente sarà presente anche Donald Trump che si è già detto molto fiducioso sull’incontro di Istanbul dichiarando di avere la sensazione che «ne usciranno cose buone».
IL MODO in cui tre anni di silenzi, accuse e insulti arrivano a questa svolta è rocambolesco. Alla vigilia del vertice convocato a Kiev per il 10 maggio, un giorno dopo le celebrazioni a Mosca per la vittoria nella II Guerra mondiale, nessuno avrebbe previsto il riavvicinamento fulmineo di Usa e Ue e la conseguente contromossa di Mosca. Ma, evidentemente, le corde erano quelle giuste e i tempi maturi.
Dopo aver passato il traguardo dei primi 100 giorni di mandato in modo decisamente deludente, disattendendo le promesse di porre fine alla guerra in Ucraina e di piegare il mondo alla sua volontà per mezzo dei dazi doganali, il tycoon si era rifugiato in un silenzio assordante. Oltre agli sporadici rigurgiti di odio contro i protagonisti e al ritornello «la guerra non sarebbe mai scoppiata se io fossi stato presidente», Trump era stato costretto a ritrattare sia sui tempi di risoluzione del conflitto, sia sull’eventualità stessa di riuscirsi.
Tanto da spingere il segretario di Stato Marco Rubio a ventilare l’ipotesi che Washington si sarebbe ritirata dal ruolo (auto-assegnato) di arbitro se i due belligeranti non fossero giunti a più miti consigli. L’idea che il Cremlino stesse semplicemente prendendo tempo per continuare l’avanzata militare sul campo e ottenere concessioni dal presidente statunitense doveva essersi insinuata anche nell’ego spropositato di Trump.
Ma la mossa dei 4 «volenterosi» – il francese Macron, il britannico Starmer, il tedesco Merz e il polacco Tusk – è capitata nel momento perfetto. Trenta giorni di tregua da avviare subito oppure un nuovo pacchetto di sanzioni durissime contro la Russia.
ERA STATO SEMPRE il piano b Usa, elaborato dall’inviato del tycoon Keith Kellogg: «interruzione delle forniture di armi a Kiev se Zelensky si rifiutasse di trattare ma aumento delle forniture all’Ucraina e sanzioni alla Russia se a rifiutarsi di trattare fosse Mosca». L’allineamento di Washington con la parte più bellicosa di Bruxelles a Mosca è stato letto come una potenziale pietra tombale per la ripresa dei rapporti con il Congresso. Mediaticamente Putin e i suoi sapevano di essere stati messi all’angolo, oltre a rischiare di aggravare le condizioni economiche del gigante eurasiatico.
Ma la risposta di Putin è stata altrettanto inattesa. In un video-messaggio alla nazione mandato in onda all’una e mezza di notte, il presidente ha prima ringraziato i leader internazionali presenti a Mosca per la parata del 9 maggio, passando subito alle accuse l’Ucraina. Alla fine delle recriminazioni è giunta la proposta: «Nonostante tutto, proponiamo di riprendere i colloqui interrotti alla fine del 2022. Già a partire da giovedì prossimo, a Istanbul, dove si erano già svolti, e dove era stata approvata una bozza di accordo poi cestinata. Noi vogliamo una pace duratura, di prospettiva storica.
Questo sarebbe un passo duraturo e stabile, e non invece la continuazione del conflitto dopo un nuovo riarmo ucraino. La decisione spetta adesso alle autorità di Kiev e ai loro protettori. Vogliamo anche esprimere gratitudine per gli sforzi di pace intrapresi dai nostri colleghi stranieri, da Cina, Brasile e negli ultimi tempi dalla nuova amministrazione americana». Il messaggio è chiaro: il Cremlino non accetterà alcuna tregua mentre le armi occidentali continuano ad arrivare alle forze armate ucraine, un cessate il fuoco temporaneo sarà subordinato alla presentazione delle rispettive posizioni (e rivendicazioni) e, come ha specificato ieri Putin: «Molti dei Paesi Brics sostengono la nostra proposta».
L’ANNUNCIO del presidente russo ha immediatamente spaccato il fronte occidentale. L’Unione europea, attraverso le parole dell’Alta rappresentante per gli Esteri Kaja Kallas, ha invitato Kiev a «non accettare alcun incontro senza il cessate il fuoco».
TRUMP, DAL CANTO SUO, è stato perentorio: «L’Ucraina dovrebbe accettare immediatamente». Nemmeno una parola è stata spesa per prendere in considerazione le rimostranze europee, una volta ottenuto ciò che voleva, Washington ha ricominciato a muoversi in solitaria. L’ordine è stato recepito e Zelensky ha dunque dichiarato che volerà a Istanbul anche senza tregua. A quel punto il tycoon è tornato alla dialettica fluviale ed emotiva e ha fatto sapere che sta «seriamente valutando» di partecipare al primo, storico incontro tra i due nemici.
«Tutti noi in Ucraina apprezzeremmo se il presidente Trump potesse essere presente a questo incontro in Turchia», ha sottolineato Zelensky, che ieri ha anche evidenziato lo «strano silenzio» di Mosca sia sul cessate il fuoco temporaneo sia sull’ufficializzazione della presenza di Putin in Turchia.
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«Il Pkk ha compiuto la sua missione storica»: dopo quarant’anni il Partito dei Lavoratori del Kurdistan annuncia lo scioglimento e la fine della lotta armata. In un mondo in guerra, Ocalan parla di pace. Ora la palla passa alla Turchia: «Si impegni per una soluzione democratica»
Kurdi Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan si scioglie e abbassa le armi. Una decisione epocale, su spinta del leader Ocalan. «Ora liberatelo»
Un gruppo di combattenti del Pkk nelle montagne nord-irachene – Ap
«Il Pkk ha compiuto la sua missione storica». Con queste parole, e con una dichiarazione che ha il peso di una cesura epocale, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan ha annunciato ieri lo scioglimento della sua struttura organizzativa e la fine della lotta armata. Dopo quarant’anni di conflitto con lo Stato turco, il partito fondato da Abdullah Öcalan chiude un ciclo e apre un nuovo fronte esclusivamente politico, civile, democratico.
IL 12° CONGRESSO – l’ultimo nella storia del Pkk – ha riunito 232 delegati «in condizioni di sicurezza nonostante le difficili circostanze, tra cui incessanti attacchi aerei e terrestri, l’accerchiamento delle nostre aree e un embargo continuo da parte del Partito Democratico del Kurdistan (Kdp)», si legge nel comunicato conclusivo del congresso. Tra loro, in prima fila, Cemil Bayik e Duran Kalkan, unici presenti ad aver partecipato al congresso di fondazione del partito, avvenuto il 27 novembre 1978 nel villaggio di Fis. In apertura dei lavori è stata annunciata la morte di due storiche figure del movimento, Ali Haydar Kaytan – anche lui tra i ventidue fondatori – e Rıza Altun, alle quali il congresso è stato dedicato.
IL PKK È STATO una delle espressioni più durature della lotta armata in Medio Oriente. Come quasi tutti i movimenti armati del suo tempo, la sua storia militare inizia nella valle della Bekaa, nel sud del Libano, dove il partito aveva trovato rifugio dopo il sanguinoso colpo di Stato militare del settembre 1980 in Turchia. Quando Israele lanciò la sua invasione su larga scala del Libano nel 1982, ai combattenti del Pkk fu assegnato dal quotidiano Serxwebun il titolo di «eroi del Castello di Beaufort», un forte risalente ai tempi delle Crociate, situato a meno di cinque chilometri dal confine israeliano, in cui i militanti curdi opposero una feroce e disperata resistenza. Due anni dopo, il 15 agosto 1984, l’esperienza maturata nella Bekaa venne messa in pratica nella prima azione armata del Pkk contro lo Stato turco, che diede inizio al conflitto terminato, almeno in teoria, con il 12° congresso.
Per oltre un decennio il Pkk ha sfidato lo Stato turco con l’obiettivo di gettare le basi per la fondazione di un Kurdistan socialista, sopravvivendo alla caduta del Muro di Berlino e allo sfaldamento del blocco socialista. Nel 1993, durante la fase più cruenta del conflitto, Öcalan lanciò la prima proposta di pace, accettata dall’allora presidente turco Turgut Özal, seguita da un cessate il fuoco unilaterale e incondizionato del Pkk. La morte di Özal, tuttavia, determinò la fine del primo, fragile tentativo di giungere a una soluzione politica per la questione curda.
DOPO LA CATTURA di Öcalan, avvenuta nel 1999 nel contesto di un viaggio alla ricerca di un paese europeo disposto a supportare un nuovo processo di pace, il movimento visse un periodo di ristrutturazione interna che portò, da un lato, all’abbandono di figure chiave del partito, tra cui il fratello minore di Abdullah Öcalan, Osman e, dall’altro, al «cambio di paradigma»: il passaggio da partito-guerriglia dedito alla fondazione di uno Stato socialista curdo a organizzazione decentrata, focalizzata sulla democratizzazione della regione secondo il paradigma del Confederalismo democratico, ideato in carcere proprio da Abdullah Öcalan. Un’ulteriore svolta arrivò nel 2013, quando un appello di Öcalan, non
Leggi tutto: «Il Pkk ha compiuto la sua missione»: fine della lotta armata - di Tiziano Saccucci
Commenta (0 Commenti)Nella foto: Turisti leggono l’Osservatore Romano in Piazza San Pietro, foto Andrea Solero /Ansa
Oggi un Lunedì Rosso dedicato all’elezione di Leone XIV e non solo. Un cambiamento, un punto di svolta, un inizio e una fine. Da interpretare e osservare.
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Referendum I partiti del sì: «La seconda carica dello Stato invita a disertare il voto, hanno paura». Magi (+Europa): «Un’onda democratica li sommergerà». Conte annuncia il proprio sì al quesito sulla cittadinanza, ma rimane la libertà di voto per i 5S
Roma, manifestazione pro referendum davanti alla Camera dei deputati – Marco Di Gianvito/Zuma
Invoca un’«effetto sobrietà» l’opposizione dopo l’uscita del presidente del Senato La Russa che venerdì sera ha detto che farà propaganda per l’astensionismo. Se la proclamazione del lutto nazionale (dopo la morte del papa) in concomitanza con il 25 aprile non ha sgonfiato le piazze della Liberazione, l’auspicio delle minoranze è che la campagna astensionista del governo si tramuti un boomerang utile a raggiungere l’agognato quorum. Campagna che ha prodotto i primi piccoli smottamenti anche nel fronte delle opposizioni.
L’OPPORTUNITÀ delle affermazioni di La Russa è il primo bersaglio degli attacchi alla dichiarazione di non-voto. Trattandosi della seconda carica dello Stato, fatto di cui La Russa stesso ammette «di ricordarsi», stride l’ambiguità con cui veste i panni di presidente del Senato e militante di partito a momenti alterni. Ambiguità tramutata in linea difensiva ieri a mezzo del suo portavoce, Emiliano Arrigo, che ha ritenuto «lecito e quasi doveroso» da parte di La Russa seguire la linea del proprio partito durante un’iniziativa di Fratelli d’Italia, ricordando che in ogni caso il presidente del Senato ha confermato di essere personalmente orientato ad andare al voto.
«LA MIGLIORE RISPOSTA a questo punto è invadere le urne» ha ribattuto da Terni la segreteria Pd Elly Schlein, bollando come un «tradimento a un principio costituzionale» le affermazioni di La Russa. «Dalle dichiarazioni della seconda carica dello Stato che invita a disertare il voto si capisce bene che a destra hanno paura dei referendum e vogliono evitare che se ne parli» ribadisce il segretario di Sinistra italiana Fratoianni.
«NON FATE COME LA RUSSA, andiamo a votare in massa» è l’esortazione del leader Cinque Stelle Giuseppe Conte, che ribadisce la linea del proprio partito: quattro sì ai quesiti sul lavoro della Cgil, libertà di voto sulla cittadinanza su cui i 5S insistono con la proposta dello ius scholae. Ma, dopo il clamore suscitato dalle uscite a destra, decide di sbilanciarsi e ammette che lui personalmente voterà sì. Lo stesso fa anche Riccardo Ricciardi, capogruppo M5S alla Camera, in un video sui social: «Quattro sì per ridare dignità al mondo del lavoro. Poi ci sarà un altro quesito sul tema della cittadinanza a cui io personalmente voterò sì». Affermazioni che vengono subito riprese da Riccardo Magi, segretario di PiùEuropa e presidente del comitato promotore del referendum cittadinanza, che si rivolge anche a Forza Italia: «Rivolgo un appello a coloro che da liberali avevano assicurato sulla cittadinanza di fare sul serio: gettate il cuore oltre l’ostacolo e annunciate il vostro sì». E, in merito alle posizioni astensioniste, sentenzia: «Peggio per loro, un’onda democratica li sommergerà».
LA MAGGIORANZA rivendica la liceità del non voto e attacca i referendum della Cgil presentandoli come un regolamento di conti interno al Pd, che cerca di superare la fase renziana del Jobs Act. Ma è un’accusa che non può essere indirizzata al quesito sulla cittadinanza. E i sostenitori attaccano la destra. «Se siete contrari, se pensate che l’Italia non abbia bisogno di questo, ditelo e andate a votare no. Perché so sulla mia pelle cosa significa non avere diritto al voto» dice al manifesto Navneet Kaur, coordinatrice del comitato padovano. «Ho ottenuto la cittadinanza a 23 anni. Se gli anni di residenza fossero stati 5, come sarebbe con una vittoria del sì, già da minorenne sarei stata riconosciuta» spiega. «Ci sono tanti ostacoli, oltre a quello temporale relativo alla residenza, come dimostrare di avere un reddito di almeno 8mila euro. O non avere procedimenti penali. Il referendum non è il punto finale ma il momento in cui fare il primo passo» dice. «Senza ragazzi stranieri le nostre classi sarebbero chiuse da anni – commenta Fabio Signoretta, sindaco dei radicali del comune calabrese di Jonadi – come tante realtà subiamo lo spopolamento, per questo abbiamo lavorato su una campagna di informazione per i fuorisede, ovviamente senza dare indicazioni di voto. Da sindaco le parole di La Russa mi preoccupano da un punto di vista istituzionale prima ancora che politico».
Commenta (0 Commenti)I volenterosi volano a Kiev e telefonano a Trump. L’Alleanza atlantica rispunta per un giorno attorno a un Piano per l’Ucraina: un mese di tregua, armi a Zelensky, sanzioni a Mosca se non accetta. I leader europei festeggiano ma decide il tycoon. Meloni resta a guardare
ri-nato Telefonata di gruppo da Kiev a Washington: ultimatum comune a Mosca. Gli europei festeggiano ma a decidere è solo il tycoon
Il leader ucraino Zelensky tra Macron, Merz, Tusk e Starmer a Palazzo Mariinskyi – EPA
Dopo le celebrazioni di Mosca, per Putin è il giorno dell’aut aut. I leader della «coalizione dei volenterosi» riuniti a Kiev hanno sentenziato, di comune accordo con gli Usa, che da lunedì dovrà iniziare una tregua totale di un mese, funzionale ad avviare negoziati di pace diretti tra Ucraina e Russia. Se Mosca non dovesse accettare la minaccia è quella di «nuove e massicce» sanzioni immediate. Francia, Gran Bretagna, Germania e Polonia si sono mostrate inflessibili, è il momento di decidere.
DOPO ESSERSI mostrati sprezzati per tutto il giorno, con il falco Medvedev che ha invitato gli autori della proposta a «ficcarsela su per il c…», alla fine il portavoce del Cremlino ha chiarito che «premere sulla Russia in questa questione è inutile. Abbiamo una nostra posizione riguardo al cessate il fuoco, e valuteremo questa nuova proposta». Non una chiusura totale, il che è già di per sé una notizia insolita. Tutte le volte che gli alleati di Kiev, Macron in testa, hanno rilasciato dichiarazioni dure contro Mosca, la risposta è sempre stata altrettanto veemente, quando non derisoria. Ma la presenza di Trump deve aver invitato alla prudenza, anche perché i fallimenti della nuova amministrazione Usa nei primi cento giorni di governo hanno spinto il tycoon a sondare altre vie per imporre un cessate il fuoco in Ucraina.
Tra queste anche l’eventuale abbandono del ruolo di arbitro o, in alternativa, il sostegno a Kiev per dimostrare a Putin che la guerra può durare ancora a lungo. Infatti tra venerdì e sabato Trump ha parlato al telefono prima a tu per tu con Zelensky e poi con il presidente ucraino e gli altri leader presenti (Macron, Starmer, Merz e Tusk) a conclusione del vertice kievita. Grande assente l’Italia, che paga la voglia di tenere aperta la relazione con Washington senza schierarsi definitivamente con i vicini europei.
«SE LA RUSSIA accetterà e verrà garantito un monitoraggio efficace, un cessate il fuoco duraturo e misure volte a rafforzare la fiducia potranno aprire la strada ai negoziati di pace», ha dichiarato il ministro degli esteri ucraino Sybiga. Ma il vero vincitore di questa giornata è il presidente francese Macron. Il più fotografato e il più sorridente dei capi di stato di governo presenti. «È un momento storico per la Difesa europea e per una maggiore indipendenza», ha dichiarato raggiante. Per mesi Parigi e Londra hanno provato una fuga in solitaria verso nuovi equilibri europei, in alternativa (anche se ufficialmente non veniva presentata così) alla Nato e alle decisioni della Casa bianca. Finora nessun risultato, solo proclami altisonanti ma sempre più stanchi e retorici.
LA POSIZIONE di Trump era sempre stata quella di tenere l’Europa in disparte, fuori dai negoziati per il cessate il fuoco e dalle trattative con la Russia. Il cambiamento repentino di ieri ha
Leggi tutto: «Tregua di un mese». Trump e volenterosi insieme, finché dura - di Sabato Angieri
Commenta (0 Commenti)“Tutto questo mi ricorda le università tedesche negli anni trenta”, ha detto il 24 aprile il premier israeliano Benjamin Netanyahu riferendosi alle proteste nei campus statunitensi. Netanyahu ha anche evocato “un’ondata di antisemitismo”.
Gli ha risposto il senatore statunitense Bernie Sanders. E le sue parole sono importanti. Perché Sanders è uno dei principali esponenti della sinistra del Partito democratico e perché è ebreo.
“No, signor Netanyahu, non è antisemita o pro-Hamas sottolineare che in poco più di sei mesi il suo governo estremista ha ucciso 34mila palestinesi e ne ha feriti 77mila, il 70 per cento dei quali donne e bambini.
Non è antisemita sottolineare che i vostri bombardamenti hanno distrutto 221mila abitazioni a Gaza, lasciando senza casa un milione di persone, quasi la metà della popolazione.
Non è antisemita notare che il suo governo ha cancellato le infrastrutture civili di Gaza, comprese elettricità, acqua e fognature.
Non è antisemita rendersi conto che il suo governo ha distrutto il sistema sanitario di Gaza, rendendo inutilizzabili 26 ospedali e uccidendo 400 operatori sanitari.
Non è antisemita condannare la distruzione di tutte le dodici università di Gaza e di 56 scuole, con altre centinaia danneggiate e 625mila studenti senza istruzione.
Non è antisemita essere d’accordo con le organizzazioni umanitarie nell’affermare che il suo governo, in violazione della legge americana, ha irragionevolmente bloccato gli aiuti umanitari destinati a Gaza, creando le condizioni in cui centinaia di migliaia di bambini sono malnutriti e rischiano la carestia.
Signor Netanyahu, l’antisemitismo è una forma vile e disgustosa d’intolleranza che ha causato danni indicibili a molti milioni di persone. Ma, per favore, non insulti l’intelligenza del popolo americano cercando di distrarci dalle politiche di guerra immorali e illegali del suo governo estremista e razzista.
Non usi l’antisemitismo per sviare l’attenzione dalle accuse che sta affrontando nei tribunali israeliani. Non è antisemita ritenerla responsabile delle sue azioni”.
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