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SAGGI. Intorno al libro «Disuguaglianze Conflitto Sviluppo». Fabrizio Barca in dialogo con Fulvio Orefice nel volume edito da Donzelli

 

Matt Calderwood, Untitled, 2016

Dalla sua proclamazione, lo sciopero generale ha riportato nel dibattito pubblico vocaboli desueti. La critica, esplicita o silente, nei confronti della decisione di Cgil e Uil di sollevarsi contro la politica economica del governo Draghi ha, involontariamente, gettato un po’ di luce sulle questioni proprie della protesta: i salari stagnanti da più di un trentennio, l’adozione di aliquote fiscali che non favoriscono i ceti più svantaggiati, il Pnrr privo di una visione di sviluppo più equo.

Lo sciopero si è rivelato quindi necessario per alzare il velo sulle diseguaglianze, sulla distribuzione della ricchezza e sui conflitti socio-economici che attraversano la nostra società. Di riflesso, sul ruolo che la politica ha o dovrebbe avere nel governare il cambiamento. Tutti temi, questi, che Fabrizio Barca discute nel libro-intervista Disuguaglianze Conflitto Sviluppo. La pandemia, la sinistra e il partito che non c’è (Donzelli, pp. 200, euro 15), a confronto con Fulvio Orefice. Anche grazie a questa forma dialogica l’effetto complessivo è, nel contempo, straniante e tonificante. Costringe a interrompere il filo dei pensieri per trovare nuovi nodi e intrecci; apre uno spiraglio di speranza in un panorama altrimenti desolante; restituisce un orizzonte di possibilità al futuro.

IL LIBRO PRENDE LE MOSSE da una precisa diagnosi di fase: le diseguaglianze – economiche, sociali e di riconoscimento – sono cresciute in virtù di scelte politiche intenzionali che hanno (ri)disegnato quadri regolativi e rapporti di potere. Non c’è niente di «naturale» o inevitabile in esse. Le scelte fatte negli ultimi decenni hanno reso opaca la distinzione tra profitto e rendita, favorito i profitti delle grandi imprese rispetto alla concorrenza, trasformato il lavoro in un dono, abbinato la povertà alla colpa e relegato la diversità territoriale a un residuo del passato. La sinistra ha perso, e lo ha fatto male. È stata sconfitta o si è travestita da destra, o tutte e due le cose assieme, vergognandosi del proprio vocabolario.

Per questo bisogna ritrovare il senso delle parole, ma a questo scopo non bastano le strategie discorsive. Sono gli interessi e la loro rappresentanza che definiscono i quadri di senso, non viceversa. Occorre ricostruire il circuito della rappresentanza politica, tornare agli interessi oggettivi e ai rapporti di forza: di classe, etnia, genere e (oggi) alla giustizia climatica. Insieme, non come alternative. Occorre re-intermediare la domanda politica, sottraendola al circuito perverso della comunicazione disintermediata tra popolo e leader.

MA COME FARLO, in Italia? In modo spiazzante e forse complice la sua biografia (fin dalla dedica, in questo libro c’è molto di personale), Barca parte dall’economia e non dalla politica, affermando che è prima di tutto necessario riconoscere i limiti della borghesia imprenditoriale nostrana, ammalata di «capitalismo clientelare», per sostenere invece la parte più innovativa della struttura produttiva, sia privata sia pubblica, attraverso missioni strategiche, trasferimento tecnologico e rinnovamento del management. Qui una cruciale implicazione politica. È ovvio che, a fronte di tale analisi, nessun partito di sinistra potrà presentarsi come il partito che parla solo in nome e per conto della borghesia imprenditoriale: se lo facesse sarebbe solo il partito della conservazione e della rendita. Quello che, in fondo, è successo in questi decenni.

ALLA DOMANDA su quale debba essere il punto d’appoggio di una politica di sinistra, Barca risponde guardando alle organizzazioni della cittadinanza attiva, a quelle del lavoro, alle esperienze di innovazione sociale radicale e alle azioni collettive nei territori. Soggetti e realtà che vanno connesse. In questa prospettiva, va l’esperienza del Forum Diseguaglianze e diversità, la cui azione punta ad aprire conflitti pubblici e trasparenti tra interessi contrapposti. «Essere di sinistra» significa anzitutto riconoscere che il conflitto tra interessi è «l’ipotesi nulla» della politica, quella che viene assunta come vera finché non si trova la prova che la confuti. La sinistra post 89 ha percorso, invece, la strada opposta: ha assunto come vera la convergenza tra interessi, attribuendo al corso degli eventi l’onere della smentita. La madre di tutti gli errori, il padre di tutte le sconfitte.

DA QUI, da questo piccolo ma determinante punto occorre ripartire, traendone le implicazioni culturali, politiche e organizzative del caso. L’avviso è rivolto soprattutto agli eredi del Pci, citati con quell’amarezza che si riserva all’amico di cui non si ha nostalgia. L’occasione per farlo è rappresentata da due sfide, affrontate nella seconda parte del libro: l’attuazione del Pnrr e la riforma dell’Unione europea.
Su queste due sfide, lungo le linee politiche prima discusse, è possibile sperimentare un terreno per costruire quell’alleanza a sinistra discussa anche su questo giornale. La leva necessaria è l’accettazione del conflitto sociale come terreno di analisi e confronto, la cui negazione porta solo acqua al mulino delle destre.

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L'Ortofrutticola Mugello srl chiude lo stabilimento di Marradi per trasferire la produzione a Bergamo.

"È come se ti cadesse la terra da sotto i piedi - dice Filomena, una delle decine di operaie stagionali che adesso rischiano il posto di lavoro - chi mi prende a 63 anni dopo 32 anni di lavoro qui?".

"Non è accettabile arrivare e impoverire un territorio" commenta il sindaco di Marradi Tommaso Triberti.

servizio di Giulio Schoen

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L'atomo fuggente. Il presidente degli imprenditori italiani rilancia l’energia nucleare, Salvini si accoda e il ministro considera «concluso il suo lavoro»

Flash-mob di Legambiente

 

Flash-mob di Legambiente  © Ansa

I nuclearisti gonfiano il petto per un fine anno «atomico», nel senso della propaganda. Da Bonomi a Salvini è tutto un gran parlare di «nucleare da rilanciare». A spianare loro la strada è stato, in queste settimane, il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, che si è espresso favorevolmente all’inserimento dell’energia atomica nella tassonomia europea verde e, più recentemente, ha dichiarato al Financial Times di non essere «un fan del nucleare ma dell’innovazione», precisando, però, che l’Italia dovrebbe considerare di ripristinarlo.

HA APERTO IL CAMPO e ora riterrebbe il suo lavoro finito. Una frase sibillina riportata dalla Staffetta quotidiana, storico quotidiano delle fonti di energia, che l’ha incoronato uomo dell’anno. «Abbiamo centrato gli obiettivi posti da Draghi prima del compimento dell’anno. Ora – ha sottolineato Cingolani – c’è un problema di implementazione. E questa fase non ha bisogno di uno con il mio profilo». Gli obiettivi, a cui si riferisce, sono la scrittura del Pnrr, la costruzione di una nuova struttura ministeriale e il capitolo semplificazioni. Risultati che, se si parla di transizione ecologica, hanno fortemente deluso le associazioni ambientaliste da Legambiente a Greenpeace al Wwf. Basti pensare alle ultime dichiarazioni di Cingolani sul «tornare a estrarre gas» per «tagliare la bolletta», a testimonianza di un indissolubile legame con i combustibili fossili.

UN OBIETTIVO RAGGIUNTO è stato quello di aver riaperto la questione nucleare, come ai tempi del quarto governo Berlusconi. Tutto ciò nonostante le sonore bocciature ai referendum abrogativi del 1987 e del 2011 e il fatto di non aver ancora compiuto i conti con le scorie radioattive della breve stagione nucleare italiana.
Ieri, alla gran cassa nuclearista si è aggiunta la posizione del presidente di Confindustria Carlo Bonomi secondo cui «sul tema energia paghiamo tutta una serie di stop di stampo ideologico che hanno solo rimandato nel tempo i problemi» e per questo motivo «bisogna ripensare al nucleare pulito, come proposto dal ministro Cingolani visto, tra l’altro, che la Francia e altri 13 Paesi della Ue hanno centrali atomiche», ha detto al Messaggero. «Ci sono – ha aggiunto Bonomi – progetti internazionali già avviati per tecnologie nucleari più sicure e penso che anche l’Italia dovrebbe parteciparvi». Coglie la palla al balzo Matteo Salvini, che annuncia la proposta della Lega al governo per prevedere nel Piano nazionale per la sicurezza energetica, oltre alle rinnovabili, anche «maggiore produzione di gas e, soprattutto, il ritorno alla ricerca sul nucleare pulito e sicuro di ultima generazione», perché «l’Italia deve sfruttare ogni mezzo per abbassare, oggi e in futuro, i costi delle bollette».

NON LA PENSA COSÌ Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia che, proprio ieri, ha fornito le previsioni dei rincari delle bollette di gas ed elettricità, con un aumento tra 770 e 1.200 euro a famiglia nel 2022: «Ci sono stati due referendum – dice, a proposito dell’idea del nucleare come soluzione – e soprattutto c’è un problema di fondo che è sempre stata l’incapacità dell’Italia di gestire sistemi complessi, come invece ad esempio sa fare la Francia, dovremmo essere onesti e riconoscere che non ce la faremmo».
La propaganda nuclearista non ama soffermarsi sulla questione scorie. Un problema ancora senza soluzione e sui cui ritardi hanno pesato anche i reiterati tentativi di ritornare al nucleare. Il 15 dicembre la Sogin, la società che si occupa dello smantellamento degli impianti, ha pubblicato gli atti del seminario nazionale sul progetto di Deposito Nazionale e Parco Tecnologico e sulla Cnapi, la carta nazionale delle 67 aree potenzialmente idonee, sparse tra 7 regioni italiane: Basilicata, Lazio, Piemonte, Puglia, Sardegna, Sicilia e Toscana.

Svoltosi dal 7 settembre al 24 novembre, ha rappresentato il primo momento di confronto pubblico sul tema. Vi hanno partecipato istituzioni, enti locali, associazioni, comitati, organizzazioni datoriali e sindacali e singoli cittadini. Difficile dai documenti trovare una sintesi o intravvedere una disponibilità dei territori. Con la pubblicazione, ha preso avvio la seconda fase della consultazione. Nel corso di questo periodo, che si concluderà il prossimo 14 gennaio, possono essere inviate eventuali altre osservazioni e proposte tecniche finalizzate alla predisposizione della Carta nazionale aree idonee (Cnai). Dopo la pubblicazione della Cnai, le Regioni e gli enti locali potranno esprimere le proprie manifestazioni d’interesse, non vincolanti.

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Il caso. Secondo l’ufficio parlamentare di bilancio le famiglie dei dirigenti risparmieranno 368 euro in media all'anno grazie alla riforma del governo e della maggioranza. Agli operai solo 162 euro. 765 euro: sarà il risparmio medio annuo per i redditi tra 42 e i 54 mila euro. Al 3,3% dei contribuenti più ricchi andrà il 14,1 per cento dei 7 miliardi del taglio. Escluso il 20% delle famiglie in difficoltà e incapienti. Uil: "Governo sbugiardato". Legge di bilancio alla Camera: la commissione Finanze non vota il parere per la compressione dei tempi del dibattito parlamentare.

Il presidente del Consiglio Mario Draghi

Il presidente del Consiglio Mario Draghi  © LaPresse

La riforma fiscale che scatterà nel 2022 porterà a una riduzione media di prelievo per 27,8 milioni di contribuenti di 264 euro ma il vantaggio sarà maggiore per i redditi medio alti, quelli tra i 42mila e i 54mila, che dovranno versare all’erario 765 euro in meno in media. I dirigenti avranno una riduzione delle imposte di 368 euro, oltre il doppio, in termini assoluti, di quella media degli operai, pari a 162 euro, mentre gli impiegati avranno un taglio delle imposte di 266 euro.

LO SOSTIENE l’Ufficio parlamentare di Bilancio (Upb) in uno studio che analizza l’impatto della riforma dell’Irpef voluta dal governoDraghi, e dalla sua maggioranza, guardando non ai singoli contribuenti ma al nucleo familiare e chiarisce che il 20% delle famiglie più povere è «sostanzialmente escluso» dai benefici per effetto dell’incapienza fiscale. In pratica il 50% dei nuclei in condizione economica meno favorevole «beneficia di circa un quarto delle risorse complessive (circa 1,9 miliardi), mentre il 10% più ricco beneficia di più di un quinto delle risorse (1,6 miliardi)». Il 20% delle famiglie in condizione economica meno favorevole è di fatto escluso dall’ambito di applicazione dell’Irpef a causa dell’elevato livello dei redditi minimi imponibili e quindi non è coinvolto dalla revisione dell’Irpef. «Ciò implica – ha spiegato l’Upb – che se le future politiche sociali vorranno ulteriormente sostenere i redditi delle famiglie più povere dovranno affidarsi a strumenti diversi dall’Irpef, quali trasferimenti monetari diretti o meccanismi di imposta negativa». Per la Uil le stime dell’Upb «sbugiardano» la riforma fiscale varata dal governo e confermano l’analisi del sindacato «sulla iniquità ed inefficacia dell’intervento». «L’85% dei lavoratori e pensionati, afferma il segretario confederale Domenico Proietti – riceve solo qualche briciola».

LA COMMISSIONE Finanze della Camera ieri non ha espresso il suo parere sulla legge di bilancio e ieri ha protestato contro la compressione dei tempi del dibattito che dovrebbe portare all’approvazione a scatola chiusa, e senza modifiche, del provvedimento approvato già dal Senato il 30 o il 31 dicembre.

«IL RISPETTO delle istituzioni – ha detto il presidente della Commissione Luigi Marattin (Italia Viva) che ha specificato di avere il sostegno «di tutti i gruppi di maggioranza» – e il rispetto verso il lavoro di sei mesi che questa stessa commissione ha svolto nel 2021 per preparare il terreno alla riforma fiscale, ci impone di rispondere semplicemente “no, grazie” quando ci si chiede di esprimerci in poche ore su un provvedimento del genere».

LA PROTESTA delle forze politiche che sostengono il governo contro il modo in cui loro stesse, e il governo, ha denunciato «un monocameralismo di fatto che non ha fondamento nella Costituzione» ha detto Ubaldo Pagano del Pd. La decisione ha comunque fatto risparmiare tempo nella corsa per evitare l’esercizio provvisorio di bilancio. Protesta anche la commissione Lavoro. La presidente Romina Mura (Pd) ha scritto una lettera a quello della Camera Roberto Fico in cui tra l’altro ha chiesto la «revisione delle regole procedurali per l’esame del disegno di legge di bilancio».

NELLA CONFERENZA stampa di fine anno il presidente del consiglio Draghi ha riconosciuto che «indubbiamente c’è stato molto affanno nella fase terminale della discussione sulla manovra, non è che è senza precedenti, è successo tantissime volte negli anni passati». E poi una stoccata ai partiti proprio sulla riforma del fisco: «Fin dall’inizio la manovra è stata accompagnata da un lunghissimo confronto politico, i ministri competenti, in particolare il ministro Franco, hanno discusso per settimane con i rappresentanti politici la destinazione degli 8 miliardi, con l’obiettivo di raggiungere subito un consenso o un accordo». L’accordo è stato trovato su una riforma regressiva e iniqua che è stata contestata dallo sciopero generale indetto il 16 dicembre scorso dalla Cgil e dalla Uil . I dati, e l’unità di misura scelta dall’Upb, hanno inoltre smentito i contenuti delle veline diffuse su molti giornali nei giorni scorsi.

IN SETTIMANA Il governo potrebbe prendere ulteriori decisioni sul costi dell’energia. Secondo l’Arera le bollette di gas e luce subiranno un aumento dell’ordine del 50 per cento per l’elettricità e del 40 per il gas a causa dell’impennata del costo delle materie prime.

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Il presidenzialismo "di fatto"

Zagrebelsky, il giurista militante che ha dilaniato i salotti rossi -  ilGiornale.it

L'anno si chiude con la ripresa dei discorsi sulla Costituzione, in parallelo con le preoccupazioni circa lo stato di disgregazione della politica. Sono discorsi e preoccupazioni che rinviano gli uni alle altre e viceversa. Alla Costituzione si arriva a partire dalla politica per offrire rimedi a essa; e alla politica si arriva a partire dalla Costituzione alla quale si chiede di dare un ordine a questa. La politica è debole - si dice - e allora si crede di ovviare con una Costituzione forte. Viceversa la Costituzione è debole e allora si crede di rinforzarla con una politica forte. Tutto ciò, dovrebbe avvenire "di fatto".

Punto primo, riguardante la tradizione dello "Stato di diritto". Ai discorsi al riguardo non si dovrebbe partecipare con leggerezza. Toccano il presente e possono pregiudicare il futuro. "Di fatto" vuol dire "non di diritto"; ciò significa fuori o contro il diritto. Chi parla di mutamenti costituzionali di fatto dichiara implicitamente di avere in mente forzature incostituzionali. Le forzature, come dice la parola, sono prodotti di azioni che sottomettono il diritto ai disegni di chi dispone della forza. Nello "Stato di diritto" il diritto dovrebbe stare sopra la forza, non il contrario.
Punto secondo, riguardante la formula Costituzione "di fatto". La si indica con parole come presidenzialismo o semi-presidenzialismo. Le realizzazioni pratiche di questi sistemi di governo sono varie e dipendono non solo dalle formule costituzionali, ma anche da molti fattori, politici, sociali e culturali. C'è il presidenzialismo nord-americano e sud-americano. C'è il semi-presidenzialismo francese e africano, degli Stati postcoloniali. Non bastano le formule astratte. Bisogna procedere dalla realtà, considerare le trasformazioni costituzionali rispetto alle tradizioni di ogni popolo, che sono spesso un dato duro da scalfire, e prendere in considerazione le conseguenze. Se c'è una cosa che non dovrebbe essere dimenticata da politici e costituzionalisti è che le costituzioni sono come abiti posti su corpi viventi. Se l'abito non è confezionato con le giuste misure, il corpo prevarrà sull'abito e lo deformerà; oppure, l'abito pretenderà di cambiare il corpo cercando di ridurlo alle sue dimensioni.

Fuor di metafora, nel primo caso le trasformazioni saranno solo apparenti, cioè inutili; nel secondo, saranno innaturali e dovranno essere imposte con la forza. Le vere e non pericolose trasformazioni costituzionali sono quelle in cui sostanza e forma si accordano senza farsi la guerra. Punto terzo, riguardante il contenuto della "Costituzione di fatto". Già ora, e ciò in parte è vero, il Presidente della Repubblica si è appropriato impropriamente di compiti e poteri di governo. Si è usata l'immagine del mantice della fisarmonica: può estendersi a volontà e secondo necessità se gli altri poteri non lo trattengono. I poteri del Presidente, sulla carta, sono in effetti numerosi. Per molto tempo, però, sono stati esercitati nel rispetto dell'autonomia politica del governo sostenuto dalla maggioranza parlamentare. Infatti, nel sistema parlamentare, il Presidente è un garante della Costituzione e l'interprete dell'unità nazionale, non un soggetto governante. La funzione di governo lo trasformerebbe inevitabilmente in organo di parte, alterando l'equilibrio voluto dalla Costituzione. Ciò che più conta, nel contesto attuale, determinerebbe un concentrato di potere piuttosto mostruoso. Il Parlamento eleggerebbe il Presidente della Repubblica; il Presidente della Repubblica nominerebbe un Presidente del Consiglio a lui gradito, una sua protesi; se il Parlamento non seguisse e non votasse la fiducia, il Presidente della Repubblica potrebbe minacciare o mettere in azione il potere di scioglimento delle Camere. Il timore dei membri del Parlamento di fronte a questa prospettiva, metterebbe non solo il governo, ma anche il Parlamento nelle mani del Presidente.

Punto quarto, riguardante il presente e il futuro. Quando si parla di costituzione, si deve pensare non all'immediato, ma al tempo lungo. Le costituzioni sono fatte per durare. Ora, è ben possibile che, in condizioni d'emergenza politica, economica e sanitaria quali si ritiene che esistano oggi, sia opportuno che le forze politiche, sociali e culturali, constatando le proprie difficoltà o la propria incapacità, consentano provvisoriamente uno spostamento di potere volontario là dove meglio può esercitarsi, in mancanza d'altro. Ma, ciò sempre sotto il controllo di coloro che ne sono i titolari. Ma da qui, a parlare di "Costituzione di fatto" è un salto nell'ignoto. L'opinione pubblica è tratta in inganno quando si parla di presidenzialismo o di semipresidenzialismo e si fa credere che la Costituzione di fatto possa dare ai cittadini il potere di eleggere il proprio Presidente della Repubblica con voto diretto, come accade per l'appunto in quei sistemi di governo. Nulla di tutto ciò secondo la nostra "Costituzione di fatto". Si creerebbe un centro potere di durata addirittura settennale (salva rielezione), autoreferenziale o, meglio referenziale rispetto alle forze che ne hanno promosso l'elezione, senza nemmeno la dialettica che è possibile quando - come nei veri sistemi che si richiamano a qualche forma di presidenzialismo - il Parlamento e il Presidente traggono entrambi un'autonoma legittimazione democratica attraverso il voto popolare e possono quindi bilanciarsi reciprocamente. Il presidenzialismo che si affermi per slittamenti di puro fatto, come se fosse indifferente governare da Palazzo Chigi o dal Quirinale, è piuttosto un mostro che un modello. Chi lo propugna richieda, allora, una ridefinizione del quadro costituzionale con quanto occorre in termini di equilibri istituzionali e garanzie costituzionali.

Punto quinto, circa gli orientamenti dell'opinione pubblica. I sondaggi paiono dire che una larga maggioranza dei cittadini è orientata favorevolmente verso il o, meglio, un presidenzialismo. O più semplicemente, verso l'elezione diretta del Presidente della Repubblica. Non è una novità ed è comprensibile, anche a fronte dello spettacolo al quale prevedibilmente assisteremo nelle prossime settimane. Tuttavia, compito di coloro che operano responsabilmente sul terreno politico-costituzionale dovrebbe essere di distinguere, all'interno della massa dei favorevoli, coloro che invocano l'elezione diretta perché appartengono a quella vena autoritaria e anti-parlamentare che esiste da sempre nel nostro Paese; coloro che la vogliono per punire le degenerazioni e la rissosità del parlamentarismo dei suoi attori; coloro che semplicemente, quando si chiede loro se vogliono un potere in più e uno strumento di azione politica diretta, dicono "perché no?" Non tutti costoro sarebbero d'accordo tra di loro. A quella che si chiama "classe dirigente" spetta la responsabilità di distinguere le pulsioni autoritarie e populiste, le giuste richieste di rigenerazione ai partiti e alle forze politiche in vista della fiducia dei cittadini e la comprensibile domanda di maggiore partecipazione politica. A queste richieste non c'è una risposta unica. Anzi, le risposte sono diverse. La confusione di istanze così lontane tra loro, in nome del generico presidenzialismo, sarebbe qualcosa di cui si rischia di pagare in futuro un conto salato.

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Dopo il no annunciato dei Verdi alla delibera comunale sul Passante, anche in Regione il piano dei trasporti spacca il centrosinistra: non lo voteranno nè gli ecologisti né la lista di Elly Schlein, Emilia Romagna Coraggiosa

Stefano Bonaccini (ansa)

BOLOGNA - La mobilità spacca le maggioranze di centrosinistra, sia in Comune che in Regione. Dopo il no dei Verdi al Passante green portato a casa con un miliardo in più di mitigazioni ambientali da Matteo Lepore, infatti, i problemi arrivano anche in viale Aldo Moro. Ieri, infatti, la consigliera regionale dei Verdi Silvia Zamboni ha annunciato il suo no al piano regionale integrato di trasporto (Prit). Passano poche ore ed ecco un nuovo strappo, questa volta ancora più pesante: non ci sarà il sì nemmeno da Emilia Romagna Coraggiosa, la lista di sinistra nella quale è stata eletta la vicepresidente della regione Elly Schlein.

"Opere come la Cispadana e la Campogalliano-Sassuolo le abbiamo sempre avversate" dice il consigliere regionale Igor Taruffi, che per ora lascia in sospeso quale sarà il voto della sinistra: se sarà un no o una astensione. Un brutto colpo, comunque, per il governatore Stefano Bonaccini, che ha sempre messo entrambe le opere tra le priorità del suo mandato.

Il nodo del Passante

E dire che ieri mattina l'assessore regionale Andrea Corsini aveva provato a sgombrare il campo del Prit dal contestato Passante. "Il Passante verrà votato a gennaio e non centra nulla col nostro piano integrato dei trasporti" aveva avvertito. Ma il messaggio non è bastato. I primi ad annunciare voto negativo sono i Verdi, che dopo lo strappo in Comune, stigmatizzato duramente da Matteo Lepore ("Quello dei Verdi è il comportamento di una forza politica non adeguata al governo"), annunciano il loro voto contrario anche al Prit.

"Perchè è un piano ancora troppo all'insegna di cemento e asfalto" ha detto ieri la capogruppo e consigliera regionale Silvia Zamboni a margine dei lavori dell'assemblea legislativa. "Penso a grandi opere come la Cispadana, la quarta corsia autostradale da Modena a Piacenza, la bretella Sassuolo-Campogalliano, il Passante di bologna. Sono opere che contestiamo da anni, da sempre si può dire. Oggi non ci vogliono più asfalto e cemento ma abbiamo bisogno di investire sulla mobilità sostenibile". No netto dunque.

Lo strappo di Coraggiosa

Non sa ancora se voterà no o se si asterrà, ma poco dopo lo strappo dei verdi arriva quello, pesantissimo, della Coraggiosa. La lista della sinistra che ha eletto la vice di Bonaccini Elly Schlein. "Opere come la Cispadana e la bretella Campogalliano-Sassuolo le abbiamo sempre avversate. Quindi non potremmo votare a favore di questo piano, così come non abbiamo votato a favore quando il piano è stato adottato due anni fa", annuncia il capogruppo di coraggiosa Taruffi.

Tra l'altro, sottolinea Taruffi, "è stato un errore non rifare la discussione da capo" dopo lo stop al provvedimento sul finire del precedente mandato. Per quanto riguarda il Passante di Bologna, rimane anche lì una "divergenza di vedute", ricorda il consigliere di Coraggiosa. Ma "pur mantenendo alcune criticità non c'è dubbio che il progetto attuale rappresenta un passo avanti, un compromesso migliore da quello da cui eravamo partiti". Uno strappo in maggioranza che Taruffi non nega affatto. Anzi avverte il governatore: "Il 51% alle regionali non l'ha preso un uomo solo, ma una maggioranza, che è utile tenere insieme". Segni di scricchiolii a sinistra, che portano il piano dei trasporti Regionali ad essere votato, per ora, solo da Pd e  lista Bonaccini. A meno che il governatore non riesca tra oggi e domani a ricucire.

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