Il posto sicuro L’Italia e l’Europa hanno fatto in Libia un scelta comprensibile nel breve periodo - soprattutto a scopi propagandistici presso l’opinione pubblica - ma miope
Regolamenti di conti mortali e scontri tra le fazioni in Tripolitania, avanzata delle truppe del generale Khalifa Haftar da Bengasi alla Sirte: la Libia sfugge a ogni controllo e soprattutto a quello del governo di Giorgia Meloni, che ieri a un certo punto stava valutando persino l’evacuazione degli italiani.
Questa confusione e l’essere sempre in balìa delle fazioni e dei clan libici è dovuta essenzialmente alla scelta italiana ed europea di rinunciare a ogni strategia politica, tanto è vero che l’influenza militare maggiore è quella della Turchia e Ovest e della Russia di Putin, padrino del generale Haftar, a Est, in Cirenaica. Ma mentre Erdogan e Putin si parlano, anche a distanza, noi riceviamo informazioni di seconda mano, e accuratamente “masticate” dal sultano turco, e nessuna ovviamente da Mosca che ha appena ricevuto Haftar in pompa magna: oggi il generale riceve sostegno militare non solo da Mosca ma anche dalla Turchia che un tempo lo osteggiava apertamente e nel 2019 era intervenuta a difesa del governo Sarraj di Tripoli. Come cambia il mondo… e qui ce ne accorgiamo sempre con un leggero ma fatale ritardo.
L’Italia e l’Europa hanno fatto in Libia un scelta comprensibile nel breve periodo – soprattutto a scopi propagandistici presso l’opinione pubblica – ma miope. Ammantato e imbellettato da accordi internazionali che dovrebbero fornire una copertura di legalità, l’Italia ha impiantato il “sistema libico”, ovvero un meccanismo di corruzione che prevede il versamento ai libici di somme di denaro da parte dell’Italia e dell’Europa in cambio della repressione violenta dei flussi migratori. Così ci siamo trovati in mano non a uno stato, sia pure in ricostruzione e dotato di ingenti risorse energetiche che da sempre interessano l’Eni, ma siamo precipitati nelle cronache della malavita libica. Per contenere i flussi migratori ci siamo affidati a dei criminali.
Esemplare il caso del generale Almasry che fa parte a pieno titolo di questo sistema. L’uomo, noto come il torturatore dei migranti e il capo del carcere di Mitiga, un criminale che aveva costruito la sua fama con un regime del terrore fatto di abusi, stupri e omicidi, è un ricercato dalla corte penale internazionale dell’Aja che avevamo arrestato a Torino e poi abbiamo rilasciato con un cavillo e il silenzio farisaico del ministro della Giustizia.
In Libia siamo talmente in buone mani che lunedì a Tripoli hanno fatto fuori, in circostanze poco chiare, un altro nostro “amico” del sistema di repressione libico. Si tratta di Abdulghani al Kikli, noto come “Ghnewa”, capo della potente Ssa, l’Apparato di Supporto alla Stabilizzazione. Anche Al Kikli, come Almasry, è stato più volte avvistato in Italia dove andava e veniva indisturbato ospite. Alle sue milizie era affidata in parte la gestione delle carceri dove vengono rinchiusi i migranti. E infatti il suo nome è apparso in diversi dossier dell’Onu in cui si parla di abusi e torture nelle carceri di quello che veniva chiamato il “signore di Abu Salim”, la vecchia e famigerata prigione di Gheddafi che non ha mai smesso di inghiottire le sue vittime anche dopo la caduta del raìs.
A cosa si deve questo caos in Tripolitania? Siamo di fronte a lotte di potere e di soldi in cui il governo del premier Dbeibah è intervenuto appoggiandosi ad altre milizie, in particolare la Brigata 444, formata da combattenti provenienti da Misurata e ritenuta vicina al primo ministro, ovvero colui che firma gli accordi con l’Italia e l’Europa. Chi oltrepassa certe “linee rosse” viene eliminato. E’ stato il caso di Bija, il noto trafficante di Zawiya, ucciso vicino a Tripoli nell’estate scorsa. E come l’eliminazione, tentata ma non riuscita, del ministro dell’Interno Adel Juma il 12 febbraio scorso. Ricoverato per diversi mesi a Roma fu visitato in marzo proprio da Al Kikli. Nella girandola di alleanze e rivalità tripoline chi comanda ha la pistola in tasca e noi come Paese ci siamo in mezzo.
L’assenza di un vera strategia politica libica ha portato all’ascesa del generale Haftar, ex ufficiale di Gheddafi che nei suoi vent’ani di esilio in Usa è anche diventato cittadino americano. Il feldmaresciallo, che tiene in pugno la Cirenaica e l’Esercito Nazionale Libico (Lna), è sbarcato a Mosca, invitato il 9 alla parata della vittoria. Lui gioca una partita geopolitica che può disegnare nuovi equilibri nel caos libico. La Russia, dopo il parziale ritiro dalla Siria, ha scelto la Libia come nuovo avamposto africano e mediterraneo. Ma la vera sorpresa è un’altra. Haftar ha mandato il figlio Saddam ad Ankara lo scorso aprile, ricucendo con la Turchia che nel 2020 lo aveva bloccato alle porte di Tripoli. Haftar ha ottenuto forniture di droni turchi, addestramento per 1.500 uomini dell’Lna ed esercitazioni navali congiunte. In sintesi la Turchia, che mantiene basi in Tripolitania, si propone come mediatore per unificare le forze armate libiche. Il sultano di Ankara ha delle strategie, a noi, a quanto pare, resta soltanto la Gomorra libica.