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LA «POTENZA MONDIALE». In ogni parte del pianeta. Roma, fu la piazza più grande, con tre milioni di persone. Un movimento globale che era riuscito a comunicare con le persone, oltre le ideologie […]

Venti anni fa la pace in piazza. Da Lula a Lula

In ogni parte del pianeta. Roma, fu la piazza più grande, con tre milioni di persone. Un movimento globale che era riuscito a comunicare con le persone, oltre le ideologie e le strutture organizzate, trasmettendo nelle popolazioni una speranza di cambiamento che aveva visto nelle politiche neoliberiste la minaccia al pianeta ed all’umanità. Un movimento forgiato dalle campagne contro il debito, dalle sollevazioni indigene del Chiapas, dai movimenti delle donne in India, dei sem terra in Brasile, e tanto altro che si mescolava nelle dinamiche e nell’esperienza dei Social Forum verso la costruzione di quello che veniva definito «un altro mondo è possibile».

Un movimento che lottava per i diritti, la giustizia, l’ambiente, il lavoro e che di fronte alla minaccia di una guerra, di una invasione militare seppe subito mobilitarsi e cogliere il nesso tra sistema neoliberista e guerre. Un sistema ed un modello di società che ha il mercato come elemento regolatore delle relazioni economiche e sociali, il profitto ed il PIL come indicatori di successo, a cui serve garantirsi l’accesso alle materie prime ed alla mano d’opera al minor costo possibile, che non vuole barriere ed ostacoli per poter agire, è naturale che abbia nella guerra e nelle armi, la sua testa di ponte, il suo braccio operativo per procedere spedito al controllo delle risorse naturali imponendosi e controllando ogni angolo del pianeta. Da quel giorno ad oggi, non possiamo neppure più ripetere la frase «quanta acqua è passata sotto ponti» perché i fiumi sono in secca ed i ponti crollano. Passiamo da una crisi all’altra, senza soluzione di continuità, avvicinandoci sempre più alla tempesta perfetta, scivolando verso la distruzione del pianeta e con il rischio di un incidente o di una guerra nucleare. La guerra in Iraq si fece, come si sono fatte le guerre in tutto il Medio Oriente, in Afghanistan, in Africa ed ora in Europa. Se ne contano oggi più di 50 e per nessuna di queste è prevista la fine.

La guerra è parte del sistema, ha una sua industria e servizi di supporto che necessitano di investimenti, ricerca, spesa pubblica, produce ricchezza e garantisce sicurezza al sistema. Poco importa se in ogni paese dove la guerra è stata dichiarata come necessaria, come unica opzione possibile, sono rimasti solo cimiteri, macerie e ferite che non si chiudono tra le diverse comunità, con milioni di sfollati e profughi. Poco importa, questi sono considerati effetti collaterali, perdite fisiologiche, previste, non più discutibili in quanto necessarie per la nostra sicurezza ed il nostro futuro.

Il paradosso da cui dobbiamo uscire è che, se le mobilitazioni di vent’anni fa non riuscirono a fermare la guerra in Iraq, la corsa alle guerre ed al riarmo, quei valori e quelle richieste , come democrazia, diritti umani, libertà, sostenibilità ambientale, giustizia sociale, lavoro con diritti, autodeterminazione dei popoli, riforma delle Nazioni unite, disarmo sono oggi più attuali che mai, ma non hanno un movimento popolare internazionale pronto a mobilitarsi come allora.

Perché nonostante la maggioranza delle popolazioni non voglia andare in guerra e nonostante la presenza di tantissime realtà che operano nella cooperazione, nell’accoglienza, nella promozione dei diritti umani e della nonviolenza, nell’educazione alla pace, nella difesa dei diritti, i nostri parlamenti e governi esprimono posizioni contrarie, come stiamo assistendo da un anno a questa parte nel caso della guerra in Ucraina ? Come non vedere che, dopo un anno di guerra, la posta in palio non è solo l’Ucraina ma che in gioco è il sistema ed il futuro dell’umanità e del pianeta?

La posizione di fermare la guerra con un immediato cessate il fuoco, spesso derisa come proposta illusoria (o posizione filo-putiniana), è innanzitutto indispensabile per non far pagare all’Ucraina ed alla sua popolazione il costo del fallimento della politica, ed in secondo luogo è il richiamo al rispetto dei principi fondamentali che sostengono la carta della Nazioni unite e le costituzioni democratiche.
È il ripudio della guerra che significa non considerarla come una opzione per la risoluzione delle crisi internazionali tra Stati e che l’unica vittoria di cui abbiamo bisogno è la pace ed un sistema di sicurezza condivisa.

E ci voleva il ritorno di Lula alla presidenza del Brasile, per ridare speranza allo spirito di Porto Alegre che dall’America, rilanciando i messaggi di un altro capo di stato latinoamericano, Bergoglio, ha dichiarato di non volersi «unire alla guerra» ma di voler porre fine alla guerra e di impegnarsi subito in un «fronte della pace» affinché ci sia una forte azione diplomatica internazionale, perché la guerra si può e si deve fermarla. Un’altra politica è possibile.

* Cgil- Ufficio internazionale,
responsabile Pace
Coordinatore Esecutivo
Rete italiana Pace e Disarmo
Europe for Peace