Silenzio di bomba Il frastuono incessante dei raid a poca distanza, aiuti bloccati, fame e burocrazia come arma di guerra. Reportage dal valico di Rafah. Il progetto di Israele resta la privatizzazione e la militarizzazione dell’assistenza
I confini non sono tutti uguali, alcuni sono fortezze invisibili. Definiscono la linea immateriale che c’è tra vivere e morire. Il valico di Rafah è un guscio vuoto da un anno esatto: era il 6 maggio 2024 quando i tank israeliani presero possesso dell’unica porta sul mondo che Gaza conosce da decenni. Si posizionarono sulle macerie una manciata di ore dopo il lancio dell’offensiva finale contro la città di Rafah. Quel giorno i palestinesi hanno perso un valico fisico e un’idea: quella di una libertà in potenza, come lo può essere il cancello di una prigione.
La presa del confine ha significato anche la riduzione graduale e mortifera all’ingresso degli aiuti. Prima entravano a Gaza da due punti, Karem Abu Salem a est e Rafah a sud. È rimasto solo il primo. Non lo sapevamo ma era il primo passo verso il blocco totale: Israele lo ha imposto il 2 marzo scorso, in pieno cessate il fuoco. Le bombe sarebbero tornate dopo, il 18 marzo.
IL LATO EGIZIANO del valico di Rafah è cambiato. Non ci sono palestinesi in uscita e non ci sono più i minibus dell’agenzia Hala, la società egiziana che ha fatto profitto dal genocidio: 5mila dollari a testa e famiglie dissanguate per passare dall’inferno a un esilio disperato, senza diritti.
C’è un pezzo di muro in più, proprio davanti all’ingresso pedonale, embrione – chissà – di una barriera senza brecce possibili.
Soprattutto non ci sono camion di aiuti. Non li si vede più attraversare i checkpoint del Sinai militarizzato da un buon decennio di “lotta al terrorismo”. Sono spariti anche dai parcheggi intorno Rafah, tramutati quasi in cittadine: i ritardi imposti da Israele, i rifiuti, la burocrazia come arma di guerra hanno costretto centinaia di autisti egiziani ad attendere settimane, mesi, per consegnare aiuti salvavita alla popolazione palestinese. Nel parcheggio a poca distanza dal valico, una spianata di terra gialla rovente, erano comparsi persino una moschea e un minimarket.
Di camion ne restano un migliaio. Gli altri 9-10mila accumulati nei mesi di blocco sono stati svuotati dalla Mezzaluna rossa egiziana, i carichi riposti nel magazzini. Costava troppo: «Cento dollari per camion al giorno. Alcuni aspettavano da due mesi: il costo del camion era più alto del valore del prodotti che conteneva». Lofty Gheit è il capo delle operazioni della Mezzaluna, si dice orgoglioso del sistema che l’associazione si è inventata: qrcode, catene del freddo mobili per i vaccini, freezer per le medicine, nuovi compound dove stoccare decine di migliaia di tonnellate di aiuti.
QUANDO PARLA, davanti al valico fantasma, lo interrompono le bombe. Cadono ogni pochi minuti. Una, due, tre, dieci. È la mattina del 18 maggio 2025, una delle più feroci: dal sorgere del sole l’aviazione israeliana ha ucciso 120 palestinesi. «A ottobre 2023 potevamo mandare 20 camion al giorno, all’apice abbiamo raggiunto i 300. Ma di là ci sono due milioni di persone, è una goccia nell’oceano». Snocciola la procedura – come arrivano gli aiuti, via aerea, via terra, via mare, come sono tracciati – e sembra quasi che racconti una quotidianità scontata. Parla al presente, ma a Gaza non entra niente dal 2 marzo. «Siamo pronti in qualsiasi momento a ripartire, il problema è il blocco dall’altra parte», dice alla fine.
QUALCHE ORA DOPO, domenica sera, arriva il comunicato stampa di Benjamin Netanyahu anticipato dalla stampa israeliana: il governo ha approvato la ripresa immediata dell’assistenza umanitaria a Gaza. I dettagli scarseggiano. Il premier israeliano ieri ha tenuto a precisare che si tratterà di aiuti «minimi» e che lo sblocco è stato frutto delle «pressioni degli alleati» stanchi «di vedere la fame».
Ha detto anche che la decisione servirà a garantire il successo dell’operazione Carri di Gedeone. A metà tra la rassicurazione all’ultradestra e a un’opinione pubblica anestetizzata e una considerazione reale: «Per ottenere la vittoria dobbiamo in qualche modo risolvere il problema», ha detto Netanyahu citando governi occidentali non identificati che avrebbero “minacciato” il ritiro del supporto.
RESTA LA QUESTIONE di chi e come consegnerà gli aiuti e il processo ormai in corso di privatizzazione e militarizzazione dell’assistenza. Ieri pomeriggio l’ufficio Onu per gli affari umanitari, Ocha, ha fatto sapere di essere stata «contattata dalle autorità israeliane per riprendere una consegna limitata». Il piano israelo-statunitense seguirà a breve, forse già dal 24 maggio: sei, forse otto centri di distribuzione concentrati a sud, dice l’Onu, «a sostituire i 400 punti gestiti dal World Food Programme e distribuiti in tutta la Striscia». Chi vuole mangiare deve spostarsi.
I centri saranno affidati alla neonata Gaza Humanitarian Foundation, che – secondo fonti diplomatiche – ha nel suo board ex funzionari delle Nazioni unite e del Dipartimento di Stato. Saranno circondati dall’esercito israeliano, la sicurezza interna gestita da contractor privati. I beneficiari – uno solo per nucleo familiare – dovranno ricevere un’autorizzazione e sottoporsi a controlli biometrici per accedere e ricevere pacchi per la famiglia. Solo alimenti e solo le calorie utili a sopravvivere; esclusi medicinali, tende, kit igienici e tutto quel che serve a una vita dignitosa. Lo strumento migliore per la pulizia etnica di tre quarti di Gaza: saranno i palestinesi ad andarsene seguendo il cibo.
L’ONU SARÀ tagliata fuori, insieme al piano in cinque fasi che Ocha ha presentato venerdì: ingresso da corridoi umanitari in Giordania, Egitto e Israele; ispezione; trasporto monitorato per evitare saccheggi; arrivo nei grandi hub di Gaza; e distribuzione nei centri presenti su tutto il territorio. «Il meccanismo si fonda sulla risoluzione 2720 del Consiglio di Sicurezza, ci spiegano fonti Onu in Egitto: «Con il piano israeliano cambia il paradigma: il passaggio dal principio umanitario al profitto privato e l’uso dell’assistenza umanitaria come strumento politico, o addirittura di guerra».
INTANTO IN NORD SINAI, i due grandi magazzini della Mezzaluna strabordano. Nel primo un gruppo di operai è al lavoro per costruire altri compound. «Occupa un’area di 50mila metri quadrati – dice Mostafa Ibrahim, capo missione della Mezzaluna rossa egiziana – Ne abbiamo un altro, più piccolo, di 30mila».
QUI UNO DEI TENDONI custodisce le merci rifiutate. Rispetto a un anno fa, quando lo visitammo, i prodotti rigettati dall’esercito israeliano sono di meno: donatori e Mezzaluna hanno ormai capito su cosa viene scritta la lettera X, rejected, e non li inviamo più. È comunque un tour dell’orrore. Lofty indica ciò che a Gaza è proibito: «Pannelli solari, stampelle, sedie a rotelle, giocattoli rifiutati per il tipo di contenitore, tende se c’è del metallo, sacchi a pelo per il colore militare, generatori, torce solari, bombole di ossigeno, kit da cucina perché contengono coltelli e cucchiai, kit di pronto soccorso a causa delle forbicine, frigoriferi per i vaccini». Il confine tra la vita e la morte.