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CLIMA E AMBIENTE . L’Italia è il Paese europeo con le più gravi violazioni della direttiva europea sulla qualità dell’aria

 

Da qualche giorno il caos regna sovrano sul Piemonte, dove la Regione, governata dal centrodestra, ha deciso di anticipare di due anni il blocco dei veicoli diesel Euro 5 rispetto alle altre regioni del bacino padano, facendolo partire dal 15 settembre.

Sebbene la giunta regionale guidata da Alberto Cirio abbia preso questa decisione a febbraio del 2021, i dettagli della sua messa in pratica sono stati decisi solo a fine giugno 2023, e la comunicazione è partita ancora dopo, facendo ovviamente infuriare gli oltre 140mila possessori di veicoli bloccati nonché le associazioni di artigiani e commercianti. In un interessante cortocircuito, il più infuriato per la decisione è stato il ministro dei trasporti, che ha chiesto un intervento del governo per rimandare o addirittura annullare il blocco, intervento promesso prima per martedì, poi per ieri, ma che per ora non si è ancora tradotto in decisioni ufficiali. Ci sono alcune questioni di fondo che vanno messe in evidenza di questa faccenda.

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La speranza esige pensieri pessimisti

La prima è che l’Italia è il Paese europeo con le più gravi violazioni della direttiva europea sulla qualità dell’aria, con ben tre condanne ed una indagine in corso e rischia di pagare centinaia di milioni di euro di multe. Oltre a questo, è anche il Paese con più morti per smog, oltre 60mila all’anno. La seconda è che, a differenza di quanto dice Salvini, il blocco degli Euro5 non è stato «imposto da Bruxelles» ma deciso a Torino in piena autonomia. E qui viene da chiedersi se la Regione Piemonte abbia confrontato questa soluzione con altre meno discriminatorie di una categoria di cittadini.

Una delle soluzioni che potrebbero dare un contributo forse anche maggiore alla riduzione delle emissioni del traffico potrebbe ad esempio essere la riduzione della velocità su tutte le strade ed autostrade se non d’Italia almeno del bacino padano, una misura che colpirebbe i possessori di Porsche e di Panda in modo egualitario. La terza e più generale questione riguarda però la vera genesi del problema, ovvero l’opposizione ideologica alla transizione ecologica di chi oggi governa sia la Regione Piemonte che la Repubblica Italiana.

Il furore con il quale viene attaccata l’Europa sul Green Deal, l’acrimonia con la quale si bollano come “gretini” tutti gli ambientalisti, il disprezzo per gli appelli della scienza sul clima, il ricorso alle soluzioni più fantasiose pur di non affrontare i problemi ambientali con gli strumenti noti e utilizzati da tutti i Paesi avanzati sono tutti figli di questo atteggiamento ideologico. Non è un caso quindi che il Piemonte si trovi oggi ad affrontare questa tempesta; si tratta del risultato ovvio di quattro anni di un governo regionale che ha fatto di tutto per nascondere le vere cause dello smog, che sono soprattutto le emissioni del traffico e dell’agricoltura, e ha quindi perso tempo prezioso dirottando risorse economiche su iniziative con effetti marginali. Il combinato disposto delle procedure di infrazione e delle inchieste della magistratura torinese hanno però finalmente ridotto spazio alle finzioni e messo tutti di fronte alle proprie responsabilità e mancanze

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ARTICOLO 18. Landini lancia il sasso, Schlein non chiude. Renzi e Calenda furiosi. Cecilia Guerra: «Con la Cgil battaglie comuni su precarietà e salari, valuteremo se e quando ci sarà una proposta»

 Elly Schlein con Maurizio Landini - LaPresse

Ci sarà un’altra raccolta firme per un referendum per abolire il Jobs Act e reintrodurre l’articolo 18? Per ora il punto interrogativo è necessario. Il segretario della Cgil Maurizio Landini ne ha parlato alcuni giorni fa in un’intervista al Qn. «Le leggi che hanno favorito la precarietà vanno cambiate. Se governo e Parlamento non intervengono siamo pronti nei prossimi mesi a prendere in considerazione anche il referendum per abrogare leggi folli, compreso il Jobs Act», ha spiegato Landini.

Nel 2017 la Cgil provò una prima volta la strada referendaria per reintrodurre l’articolo 18 (con reintegro del lavoratore in caso di licenziamento senza giusta causa). Ma la Corte costituzionale guidata da Paolo Grossi accolse la tesi dell’inammissibilità difesa da Giuliano Amato. Mentre la relatrice Silvana Sciarra, attuale presidente della Consulta, si era schierata per ammettere il referendum.

Ad oggi, la Cgil non ha ancora fatto partire la macchina organizzativa: non c’è un quesito su cui raccogliere le firme, e del resto la legge prevede che la raccolta possa iniziare, eventualmente, solo a gennaio. Per ora quello referendario è solo uno strumento di pressione politica di Landini, un’ipotesi. Sull’articolo 18 infatti il quesito dovrebbe essere modificato. Inoltre il Jobs Act è una legge delega, molto complessa, e non è ancora chiaro su quali altri punti si potrebbe intervenire. In ogni caso, gli italiani non sarebbero chiamati al voto prima della primavera 2025.

Nonostante tutto, la polemica politica è già scoppiata. È bastato che Schlein, intervistata martedì alla Versiliana, non bocciasse l’ipotesi, per scatenare l’offensiva di Renzi e Calenda. «Condividiamo la forte preoccupazione sulla precarietà del lavoro in Italia, che ha toccato livelli assurdi. Seguiremo con grande attenzione le iniziative del sindacato in questa direzione», le parole della leader Pd sulla battaglia annunciata da Landini. Un atteggiamento prudente, che non impegna il partito direttamente nella battaglia referendaria, se mai ci sarà.

E tuttavia questo è bastato, ad alcuni protagonisti di quella stagione di cosiddette riforme, per salire sulle barricate. «Appoggiare il referendum contro il Jobs act è un grave errore del Pd», tuona Calenda. «Non bisogna ingessare il mercato del lavoro». Renzi, che fu l’autore di quella riforma, chiama in causa i suoi ex ministri che sono rimasti nel Pd. «Cari Paolo Gentiloni, Roberta Pinotti, Beatrice Lorenzin, Marianna Madia, Dario Franceschini, Graziano Delrio: vi ricordate che voi eravate in consiglio dei ministri in quei giorni? Cari Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani, vi ricordate che voi eravate i vicesegretari di quella squadra? Quale faccia indosserete per recarvi al seggio? Io un referendum l’ho perso, ma meglio quello che perdere la dignità». «Così Schlein corbynizza il Pd», il gridfo di dolore di Enrico Borghi, che pochi mei fa ha lasciato i dem per Iv.

Tra i dem c’è grande prudenza. Non solo nell’ala destra che sostenne le riforme di Renzi. Cecilia Guerra, responsabile lavoro della segreteria, spiega che i dem potranno pronunciarsi solo se e quando ci sarà un quesito depositato. «Sui temi della precarietà, dei salari e della rappresentanza ci sono molti punti di contatto tra noi e la Cgil e siamo molto interessati ad una battaglia comune», mette a verbale. «Le firme che stiamo raccogliendo sono per il salario minimo, siamo concentrati su questo». Sulla stessa linea il responsabile economico Antonio Misiani. Tra i sostenitori della segretaria c’è chi ammette , a microfoni spenti, che se la Cgil dovesse davvero lanciare una battaglia referendaria «per noi sarebbe complicato dire di no». Anche a costo di una spaccatura

 

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Abolito il Reddito di cittadinanza, la ministra Calderone presenta la complicata piattaforma, attiva da domani, su cui gli «occupabili» dovrebbero trovare lavoro. Ma sarà un’impresa. E i corsi di formazione che permettono di ottenere 350 euro per 12 mesi non ci sono. Specie al Sud

DESTRA ASOCIALE. Presentata la piattaforma per gli «occupabili»: due patti da firmare solo per registrarsi. La Siisl parte domani ma per avere i 350 euro (per un solo anno) servirà partecipare a corsi che non ci sono

 La ministra del Lavoro Marina Calderone - Foto LaPresse

Tre quarti d’ora di ringraziamenti – a partire da Giorgia Meloni, s’intende – e tre quarti d’ora per provare a spiegare come funziona – senza minimamente riuscirci. La presentazione della nuova piattaforma «Sistema informativo di inclusione sociale e lavorativa» – felicissima locuzione che ha come acronimo il simpatico Siisl – si è tramutata in un patetico tentativo della ministra Marina Calderone di sostenere che la cancellazione del Reddito di cittadinanza porterà solo benefici ai poveri e ai disoccupati del Belpaese che domani primo settembre dovranno avere a che fare con uno strumento informatico assai complesso e con un numero senza precedenti di nuovi acronimi impronuciabili.

Marina Calderone:

«Abolito il Reddito di cittadinanza ci sarà una bomba sociale? Assolutamente no, i numeri sono totalmente gestibili. Ma di numeri oggi non ne do nessuno»

PER RISPONDERE ALLE PIAZZE del sud che ribollono di proteste, Calderone ha dedicato il momento più pregnante del suo lungo sproloquio: «A chi parla di bomba sociale io rispondo: no, assolutamente no. I numeri ci dicono che la situazione è assolutamente gestibile».

Quali numeri? «Oggi non daremo nessun numero», si corregge

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LIBERISTI DI GOVERNO. Il Mef non esclude nulla. ’ultimo a vendere azioni di stato fu Renzi. Difficile però arrivare a proventi significativi

Le privatizzazioni dei sovranisti: Giorgetti pensa a quote Eni, Poste e Enel La sede di Eni - Foto LaPresse

Per un governo che si autoproclama sovranista e in buona parte statalista, la risposta con cui il ministro Giancarlo Giorgetti ha annunciato di nuove «privatizzazioni» «disinvestendo nelle partecipazioni dello stato» è un bel controsenso. Reso ancor più paradossale dal fatto che l’annuncio è arrivato mentre lo stesso Giorgetti faceva passare per «interventismo» lo stanziamento solo «fino al 20%» del Mef nella rete Tim, svenduta agli americani di Kkr.

La coerenza non è certo la caratteristica precipua del ministro dell’Economia: uno a cui tocca parlare di cancellazione della riforma delle pensioni Fornero dopo che ha deciso di tagliare le rivalutazioni a 4,3 milioni di persone con assegni da 1.200 euro netti (anche per l’anno prossimo) o che poche ore dopo aver disertato la conferenza stampa sulla tassazione degli extraprofitti deve partecipare ad una riunione della sua Lega per far vedere di essere d’accordo.

Detto questo, Giorgetti sta diventando un vero equilibrista e allora per trovare le risorse necessarie almeno a rendere strutturale il taglio del cuneo fiscale (10 miliardi) ha trovato una nuova strada: svendere le poche partecipazioni ancora detenute dal Mef.

I rarissimi gioielli di famiglia rimasti sono: Enel (23,59%), Eni (4,34%, oltre al 25,76% attraverso Cdp), Leonardo (30,20%), Poste italiane (29,26% oltre al 35% attraverso Cassa depositi e prestiti) e St Microelectronics.

Da via XX settembre non si esclude niente: «Non possiamo entrare in qualsiasi dettaglio al momento».
Ma le alternative non sono molte e così pure i possibili proventi. Le ultime privatizzazioni sono state effettuate da quel convinto liberista di Matteo Renzi (e Padoan): nel 2015 quando il Tesoro cedette al mercato il 34,7% di Poste Italiane, incassando più di 3 miliardi di euro; nel 2016 toccò all’Enav (società che gestisce il controllo del traffico aereo) con un’offerta pubblica (Ipo) che fece incassare al Mef 834 milioni.

Anche con il governo Gentiloni – e sempre Padoan all’Economia – si tornò a parlare di privatizzazione: il Tesoro puntava a dare una spinta al dossier per raggiungere a fine anno lo 0,2% del Pil e sul tavolo c’era la cessione a Cassa depositi e prestiti dell’intera quota in Enav e di una parte della partecipazione del 4,3% detenuta in Eni.
Qualcuno sussurra che ora potrebbe toccare a Ferrovie dello Stato, che Renzi non riuscì a privatizzare, ma le più probabili e appetibili dal mercato sono certamente Eni, Enel e una seconda tranche di Poste Italiane. Molto difficile però arrivare a quota 10 miliardi.

Discorso a parte vale per Montepaschi. La banca disastrata dagli scandali è stata nazionalizzata con il benestare della commissione Europea nel 2017. La ri-privatizzazione è richiesta entro l’anno prossimo da Bruxelles, ma i proventi andrebbero a coprire solo in parte i 5,4 miliardi già stanziati

 

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Aumento del reddito di cittadinanza, salario minimo per i lavoratori della sanità e tetto al caro affitti. Pur con le contraddizioni della «coalizione semaforo», il governo tedesco decide che dalla crisi si esce investendo sullo stato sociale. Berlino ci prova, Roma fa il contrario

I CONTI DI BERLINO. Aumento del reddito di cittadinanza, aiuti a medici e infermieri, un tetto per agli affitti: la ricetta sociale per risollevare il Paese

Recessione tedesca, Scholz punta sul welfare Il ministro dell’Economia Robert Habeck, il cancelliere Olaf Scholz e il ministro delle Finanze Christian Lindner al castello di Meseberg - Ap

Per la Locomotiva d’Europa, sotto il profilo economico, è destinato ad andare tutto molto peggio delle previsioni, che infatti gli esperti devono ritoccare continuamente al ribasso per poter stare dietro all’irrefrenabile picco negativo. L’ultima mazzata sul governo Scholz è il calo del Pil del 2023 assai maggiore di quanto immaginato, appena certificato dall’autorevole istituto Ifo: 0,4% anziché 0,1%; è una notizia da brividi che dimostra quanto ancora sia lontana la Germania dall’uscita dalla recessione tecnica.
Lo sanno bene i ministri della Coalizione Semaforo, riuniti al completo in klausur nel castello di Meseberg, a 65 chilometri a Nord di Berlino, per avviare ciò che il cancelliere Olaf Scholz ha battezzato come la nuova «offensiva del governo federale».

UN PIANO DI DIECI PUNTI articolato su più settori che spazia dal fisco alla nuova legge sulle opportunità di crescita destinata ad attirare investimenti a tempi di record, sempre se sarà approvata dal Bundestag. Ma il cuore dell’intervento pubblico questa volta verte quasi interamente sullo stato sociale.

In testa all’offensiva di Scholz, come promesso dal ministro del Lavoro, Hubertus Heil (Spd), l’aumento del 12% dell’assegno mensile del reddito di cittadinanza agli oltre cinque milioni e mezzo di beneficiari, di cui 1,7 milioni disoccupati. A partire dal prossimo 1 gennaio la cifra di base del Bürgergeld per i single passerà dagli attuali 502 a 563 euro, mentre agli adolescenti della fascia 15-18 anni spetteranno come minimo 471 euro al mese anziché 420, ai bambini 6-14 anni 390 invece degli odierni 348, e ai minori di sei 357 invece di 318. «In questo tempo di crisi e sconvolgimenti i cittadini devono poter fare affidamento sullo stato sociale» sottolinea il ministro socialdemocratico, rivendicando la scelta di «ripresa del welfare» non solo del suo partito ma dell’intera coalizione.

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Finalmente scopriamo che la Cina è vicina

HEIL HA VINTO la battaglia contro i liberali per l’allargamento dei sussidi pubblici in cambio di 7 miliardi girati al made in Germany, ma ha perso quella sugli assegni familiari su cui è stato raggiunto un compromesso: verranno accorpati in un unico assegno di base per i figli nel 2025. Sono comunque 2,4 miliardi a copertura per il primo anno e – promette il governo – il sussidio raggiungerà anche le famiglie che finora non ne hanno fatto richiesta pur avendone diritto. Con i Verdi, invece, lo scambio politico è avvenuto sul versante della svolta ambientale: il ministro dell’Economia Robert Habeck, vice-cancelliere, incassa il premio del 15% agli investimenti per la protezione del clima e l’efficienza.

FA IL PAIO CON L’ALTRO annuncio di ieri sempre sul fronte dell’occupazione, di cui da settimane si attendeva la conferma: il salario minimo del personale sanitario salirà da 13 a oltre 16 euro l’ora, come chiesto dai sindacati usciti vincitori dalla lunga e complessa trattativa per riequilibrare il carico di lavoro e l’inflazione che continua a erodere una parte rilevanti dello stipendio.
In parallelo, con sintomatico tempismo, la dirigenza Spd fa sapere di avere messo finalmente in cantiere l’introduzione del tetto agli affitti valido sull’intero territorio nazionale sul modello del mietendeckel varato due anni fa nella Città-Stato di Berlino e poi bocciato dalla Corte costituzionale perché in conflitto con la normativa federale.

POLITICAMENTE l’aumento del Bürgergeld segna il ritorno del cancelliere Scholz alla linea di sinistra concordata con la segreteria Spd fin dai tempi della sua nomina a candidato-cancelliere (da perdente delle primarie) ma è anche la risposta ai sondaggi che riflettono l’insoddisfazione per il governo da parte dei milioni di tedeschi colpiti dalla crisi.

«Un passo in avanti significativo» sottolinea il ministro Heil che non si è mai spostato dal suo ufficio al ministero del Lavoro occupato fin dall’ultimo governo di Angela Merkel. Uomo-chiave della Spd e ago «Bussola per una politica economica progressista» (come da titolo del suo libro) da sempre è un sostenitore di norme rigide per il libero mercato accompagnate dal totem della piena occupazione regolata dai contratti collettivi. Tra i suoi obiettivi futuri spicca la pensione di base più elevata dell’attuale minima, ma in passato si è distinto per la legge sui corrieri-espresso che ora obbliga il contraente a pagare loro i contributi

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Sabato sera alla Versiliana Michele Santoro, assieme a Raniero La Valle, Luigi De Magistris e Ginevra Bompiani ha lanciato un appello “per rendere visibile il popolo del no alle armi“, spiegando che “Non è la costituzione di un nuovo partito, è un grido di dolore e un sogno che a fine settembre potrebbe trovare forme originali per diventare realtà. Un sogno che non chiude alla collaborazione con gli altri ma cerca la strada migliore per esistere e dare il proprio contributo”. Quello della Versiliana è stato un test, spiega Santoro “per capire se quello mio e di Raniero è un sogno condiviso da molti, un ponte verso la nostra Assemblea del 30 settembre. In quella occasione sarà chiaro se e in quale forma può cominciare ad esistere “il partito che non c’è”, se vale la pena presentare una lista alle elezioni europee”.

“Un appello a tutte le persone di buona volontà per piantare più in alto la bandiera della pace, e perché questa diventi il centro di un progetto politico”. Michele Santoro sintetizza così l’appuntamento di ieri al Caffè de La Versiliana, “E se spuntasse l’arcobaleno?”, al fianco di Raniero La Valle, Luigi De Magistris e Ginevra […]

 
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