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Sulla prima pagina del #Sole24Ore di oggi, mercoledì #8marzo: boom di #armi e del #gas liquido: le due facce della guerra per gli Usa. #Superbonus, ipotesi rinvio per le villette. #Meloni: «La parità? Nominare un ceo #donna in una delle partecipate». #buonalettura #primapagina
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PRIORITÀ DI GOVERNO. Con i risparmi su Mia e Bonus 110% Giorgetti e Leo varano la cancellazione dell’Irap e l’accorpamento delle aliquote centrali

Ecco la riforma fiscale della destra: meno tasse a ceto medio e imprese Una sede dell'Agenzia delle Entrate

Domenica il Mia che taglia il Reddito di cittadinanza e la spesa sociale di tre miliardi. Ieri l’annuncio del primo passo della riforma fiscale che taglia le aliquote, specie per i redditi medio alti e cancella tasse alle imprese.

La consecutio è chiara ed è tutta politica. E tiene assieme tutta la destra.

LA DELEGA MESSA A PUNTO dal ministro leghista Giancarlo Giorgetti e dal suo vice (responsabile economico) di Fratelli d’Italia Maurizio Leo dovrebbe approdare in Consiglio dei ministri la prossima settimana o al più tardi quella successiva. E spazia dalle imposte per passare a strizzare l’occhio agli evasori con una grande riduzione degli accertamenti e dei contenziosi nella riscossione del fisco.

La delega indicherà le misure poi toccherà ai decreti attuativi disporre nel dettaglio le norme esecutive.

Il governo annuncia di voler passare da quattro a tre gli scaglioni Irpef, con relativo ritocco delle aliquote. La novità più rilevante sarebbe quella di accorpare gli scaglioni centrali e prevedere uno schema con aliquota al 23% per i redditi fino a 15mila euro, al 27% per i redditi da 15mila euro a 50mila euro e 43% per redditi oltre i 50mila euro.

SULLA CARTA A GUADAGNARCI ci sarebbero soprattutto i ceti medio alti, che ora fra i 28 e i 55 mila euro annui pagano un aliquota del 38%. In realtà, come per ogni modifica fiscale, per tirare le somme bisognerà guardare con attenzione alle modifiche a detrazioni e deduzioni, tuttora indefinite.

La riforma, lo ammette lo stesso governo, ha comunque necessità di copertura. E, sebbene sia chiaro che le risorse verranno dal taglio della spesa sociale – il già citato passaggio dal Reddito di cittadinanza alla Misura di inclusione attiva – e di quella ambientale – la fine dei crediti di imposta per il Superbonus 110% – il governo si vende come fonte di entrate l’annunciato taglio degli incentivi fiscali alle imprese, già strombazzato senza alcun piano reale dal ministro Adolfo Urso, che prevederebbe una potatura delle oltre 600 tax expeditures, cioè le detrazioni e le deduzioni fiscali che oggi costano allo Stato circa 156 miliardi.

Se questa «potatura» è scritta nel cielo, per le imprese in cambio arriva la certa abolizione dell’odiata Irap e la revisione dell’Ires.

NEL PRIMO CASO, L’IMPOSTA regionale sulle attività produttive con cui l’allora ministro Pierluigi Bersani accorpò varie tassazioni viene completamente cancellata, con grande giubilo per la Confindustria di Carlo Bonomi e tutte le organizzazioni di piccole imprese, artigiani e commercianti.

Nel secondo, invece, per l’imposta sui redditi delle società l’aliquota base resterà al 24%, ma potrà scendere fino al 15% se l’impresa investirà nei due anni successivi i propri utili in investimenti innovativi o se li utilizzerà per assumere e aumentare l’occupazione.

Luigi Marattin, Italia Viva

I diritti d’autore non glieli chiediamo, tranquilli. In cambio facciano davvero queste cose e noi non mancheremo di agire nell’interesse della nazione

AD ANNUNCIARE TRIONFANTE il voto alla delega oltre alla destra compatta c’è l’ineffabile Luigi Marattin di Italia Viva. L’economista renziano ieri era scatenato: «I diritti d’autore non glieli chiediamo, stiano tranquilli. Ma in cambio facciano davvero queste cose, senza aggiungere populismi fiscali o scelte sbagliate. E noi non mancheremo di agire nell’interesse esclusivo di una nazione che da 50 anni non riforma il proprio sistema fiscale», ha dichiarato con sprezzo del ridicolo

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Studenti e lavoratori, la protesta dei giovani contro la riforma delle pensioni. Eliane, facoltà di lingue: «Siamo tutti d’accordo che questa riforma distrugge il nostro futuro, distrugge i nostri genitori, e siamo riusciti a fare questo spezzone, ma possiamo fare molto di più nelle prossime settimane»,

In città e in provincia, i figli a difesa dei genitori. Voci dal corteo di Parigi Manifestazione a Parigi contro la riforma delle pensioni - Lapresse

Lo sciopero generale «lo si prepara», hanno martellato i sindacati francesi in questi giorni, sollecitando lavoratori e studenti ad attivarsi nei luoghi di lavoro, nelle scuole e nelle università. E già prima dell’alba, nella notte tra lunedì e martedì, son cominciati i primi blocchi nei depositi dei trasporti che puntellano la circonferenza esterna della capitale. Al deposito dei bus a Lagny, nel 20esimo arrondissement, così come a St. Denis, banlieue nord, o ancora nei corridoi deserti della stazione St. Lazare, lavoratori e attivisti hanno srotolato striscioni incuranti del freddo e dell’arrivo della polizia, decisa a lasciar passare almeno qualche mezzo di trasporto.

Ma non c’era niente da fare: i sindacati volevano una mobilitazione storica, e l’hanno ottenuta. Poche ore dopo, alle prime luci del mattino, gli studenti dei licei parigini hanno bloccato gli ingressi delle loro strutture, accatastando piccole montagne di cassonetti alle porte. Giravano così intorno ai mucchi della spazzatura, in attesa del corteo nel pomeriggio, tutti intabarrati – un po’ contro il freddo, un po’ contro i poliziotti in borghese che li sorvegliavano da lontano.

Per raggiungere la manifestazione dei sindacati, in piena rive gauche, bisogna attraversare una città bloccata; qua e là, per strada, s’incrociano bande di manifestanti, bandiere al vento, intenti a marciare verso sud. Una volta giunti a destinazione, si resta intasati sul boulevard Raspail, con il grattacielo di Montparnasse sullo sfondo, talmente il corteo è imponente.

A un angolo di strada, Olivier Besancenot distribuisce dei volantini. È uno dei portavoce del Nouveau Parti Anticapitaliste, di ispirazione trotzkista. Grazie all’abilità nel destreggiarsi nei talk-show televisivi, è diventato una specie di figura mediatica. «Un ciclo di mobilitazione così non lo vedevamo, non so, dal ’68?», dice, mentre chiede a un collaboratore di fare un video col telefono al corteo che si snoda sul boulevard. «Ci sono tanti elementi nuovi rispetto al passato recente, per esempio il fatto che ci siano grandi mobilitazioni anche in provincia, si sente che i Gilets jaunes sono passati di là. Però oggi quello che mi colpisce sono i giovani», dice, proprio mentre sta passando lo spezzone delle università.

Non è scontato che gli studenti si attivino per una riforma delle pensioni, eppure già da qualche settimana si sono moltiplicate assemblee e iniziative un po’ ovunque nelle università e nei licei. «È come il dentifricio, una volta che esce è complicato rimetterlo dentro il tubetto», scherza Raphaël, professore di matematica in un liceo di Aubervilliers, nella banlieue parigina. «I miei studenti stanno a metà del tubetto: non sono tra quelli che tradizionalmente si mobilitano di più, e se vengono in piazza vuol dire che c’è movimento», afferma, mentre passeggia coi colleghi dietro allo striscione della sua scuola. Quello che lo ha colpito, ascoltando i suoi alunni, è che «sono preoccupati per il loro avvenire, ma soprattutto sono infuriati per quello che il governo vuole imporre ai loro genitori».

Tanto i sindacati quanto i partiti di sinistra desiderano ardentemente vedere i giovani sfilare in piazza, bloccare scuole e università contro la riforma delle pensioni. Louis Boyard, 22 anni, deputato della France Insoumise, ha persino lanciato l’hashtag #bloquetafac, invitando gli studenti a inviare le «più belle foto delle vostre occupazioni», promettendo una visita dell’Assemblée Nationale agli autori del migliore scatto.

«C’è fermento, facciamo assemblee e riempiamo le sale, ma siamo ancora lontani da una vera e propria mobilitazione di massa degli studenti», tempera Eliane, studente di lingue all’università Paris 8 Vincennes-Saint-Denis. «Siamo tutti d’accordo che questa riforma distrugge il nostro futuro, distrugge i nostri genitori, e siamo riusciti a fare questo spezzone, ma possiamo fare molto di più nelle prossime settimane», dice, facendo un gesto verso lo spezzone studentesco, effettivamente imponente. Per Eliane, tuttavia, bisogna fare un passo oltre per riuscire ad accendere gli animi: «Dobbiamo debordare queste manifestazioni, uscire dal quadro del corteo tranquillo organizzato dai sindacati, altrimenti Macron non avrà mai alcun incentivo ad indietreggiare»

 

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RELITTO IN STATO Il ministro dell'Interno va in parlamento per parlare del naufragio di Cutro e conferma che le autorità italiane hanno scelto di trattare il caso del caicco come un evento di polizia. Perché non sarebbe stato a rischio e non aveva chiesto aiuto. Ma l’interpretazione di «pericolo in mare» fornita dal Viminale non ha alcuna base giuridica

Nell’informativa di Piantedosi tutti gli errori dei soccorsi mancati Il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi durante l'informativa al Senato sul naufragio di Steccato di Cutro - Ansa/Angelo Carconi

Primo: alle 00.00 di domenica 26 febbraio l’unità della guardia di finanza (GdF) che cercava il caicco torna in porto. Per «un rabocco di carburante» e perché stima che ai migranti servano sette ore per l’ingresso nelle acque territoriali, il «presupposto per l’esercizio delle funzioni di polizia». Secondo: alle 3.30 due unità della GdF sono costrette a rientrare dalle «pessime condizioni del mare». Diciotto minuti più tardi chiamano la guardia costiera (Gc) di Reggio Calabria ma non aggiungono «eventuali criticità». Terzo: alle 3.55 la GdF di Vibo Valentia contatta i colleghi di Catanzaro e Crotone, carabinieri e polizia e chiede l’invio di pattuglie via terra. Specifica che le navi non hanno trovato il natante, «non può essere raggiunto a causa delle condizioni del mare». Quarto: intorno alle 4.00 al 112 arriva una richiesta di aiuto da un numero internazionale. L’informazione è trasmessa alla Gc di Crotone. «Qui si concretizza per la prima volta l’esigenza del soccorso per le autorità italiane», dice Matteo Piantedosi.

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

Naufragio di Cutro. La diretta mercoledì alle 20.30

I quattro punti sono i passaggi chiave dell’informativa sulla strage di Cutro tenuta ieri in parlamento dal ministro dell’Interno. Secondo il quale è tutto chiaro: la colpa è degli scafisti e

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Il governo non intende abolire il "reddito di cittadinanza", gli cambierà il nome: "Misura di inclusione attiva", cioè "Mia". Smentite le indiscrezioni, il testo, promesso a gennaio, «va approfondito». Esecutivo ostaggio dei paradossi delle "politiche attive del lavoro". I bersagli sono i poveri e i precari: alla ricerca degli strumenti per escluderli e ricattarli e finanziare il "business della disoccupazione"
 Napoli, una protesta contro l'abolizione del "reddito di cittadinanza" - Ansa

L’abolizione del «reddito di cittadinanza» e il suo sdoppiamento in una misura di «inclusione attiva» per gli «occupabili» e in una carta acquisti per i «poveri assoluti» doveva arrivare entro fine gennaio, poi a febbraio. Ora non è nemmeno chiaro quando arriverà in consiglio dei ministri che dovrebbe varare un decreto. Alla prova dei fatti, dopo avere annunciato la caccia ai poveri, il governo Meloni stenta a fare quadrare il suo cerchio.

LE INDISCREZIONI giornalistiche sulla bozza alla quale starebbe lavorando il ministero del lavoro e delle politiche sociali guidato da Marina Calderone sono state smentite ieri dal ministero dell’Economia secondo il quale «nessuna bozza sulla riforma del reddito è all’esame degli uffici, né mai è pervenuta la relazione tecnica indispensabile per qualsiasi valutazione». Anche il ministero del lavoro è stato costretto a precisare che la bozza non è da ritenersi «un valido testo di riferimento per la riforma». Servirà il tempo necessario per «un approfondito confronto tecnico con altri ministeri, le regioni, i comuni e gli enti competenti». Insomma, a quanto pare, tempi lunghi. Eppure si era parlato di due settimane per varare il decreto.

NELL’INCERTEZZA che dura da un mese e mezzo, calcolando i tempi dettati da diversi esponenti del governo, quello che si sa è che il nuovo strumento dovrebbe chiamarsi «Misura di inclusione attiva» (Mia). La formula è simile a quella usata per il «Sostegno all’inclusione attiva» (Sia) già in vigore dieci anni fa, un’evoluzione della «Carta acquisti» adottata nel 2008 da un governo Berlusconi.

L’«INCLUSIONE ATTIVA» è funzionale alle «politiche attive del lavoro», il nome usato in Europa per il Workfare. Gli individui sono tenuti ad accettare un lavoro, indipendentemente dalla sua qualità, altrimenti non avranno più diritto a un sussidio. Ciò permetterebbe di ridurre la spesa sociale. Idee, va ricordato, già presenti nel «reddito di cittadinanza» ma mai applicate a causa del Covid e soprattutto dei problemi strutturali che impediranno anche al governo Meloni di ottenere significativi risultati.

L’IPOTETICO «MIA» conferma i vicoli ciechi del Workfare e, salvo una nuova scala di equivalenza per le famiglie numerose, peggiora le condizioni di accesso. Sarebbe tagliato l’Indicatore della situazione economica equivalente (Isee), uno degli attuali criteri di accesso, da 9.360 a 7.200 euro. Ciò implicherebbe un taglio di possibili beneficiari di un terzo, forse un milione di persone su una media di circa 3 milioni. È stato stimato un risparmio che potrebbe arrivare a tre miliardi all’anno (sugli 8 complessivi di oggi). Si dice che saranno reinvestiti nelle politiche attive per il lavoro. Auguri. Per ora l’unico dato certo è che il governo ha tagliato il 20% i fondi contro la povertà dal 2024.

NELLA BOZZA sarebbe previsto un assegno da massimo 500 euro medi (contro gli attuali 780) per le famiglie composte da persone non integrabili al lavoro. Per quelle che hanno almeno un membro «occupabile», oltre ai single, previsti 375 euro (contro gli attuali 580). Diversamente da quanto annunciato dal governo, a partire dal prossimo agosto-settembre un sussidio sarà comunque erogato agli «occupabili», anche se tagliato in media di almeno il 25%. Chiuso con il «reddito di cittadinanza» potranno fare domanda per il «Mia». I pochi «occupabili» che ci riusciranno dovranno fare attenzione alla durata del beneficio: non più di 18 mesi ma 12. Per il primo rinnovo dovranno aspettare sei mesi; per il secondo un anno; per il terzo, un anno e mezzo. Il rifiuto di un’offerta di lavoro per contratti brevi e precari potrebbe costare la perdita dell’assegno sociale. Ecco, questo è il paradosso dell’espressione «inclusione attiva». Più che gli «inclusi» saranno invece moltissimi ad essere esclusi. E la vita dei beneficiari sarà una corsa ad ostacoli. Proprio quando la povertà aumenta per la policrisi in corso.

LA BOZZA premia il cosiddetto «business della disoccupazione»: coinvolgere le agenzie private di collocamento. Il beneficio potrebbe valere il 10% di quanto riconosciuto al datore di lavoro. A quest’ultimo sarebbe riconosciuto per due anni l’esonero dal versamento del 100% dei contributi previdenziali in caso di assunzioni stabili o l’abbattimento dell’Ires. Si dimentica che due terzi degli «occupabili» ha la terza media ed è lontano dal mercato del lavoro. Cè spazio per i minorenni non impegnati negli studi dai 16 anni. Saranno obbligati a partecipare alla formazione in cambio del sussidio. Un’esigua minoranza. Ciò che conta è la pedagogia autoritaria.

L’UNICO DATO POSITIVO sarebbe l’abbassamento da 10 a 5 degli anni di residenza per i cittadini stranieri per chiedere l’accesso al «Mia». Un passo obbligato per evitare la procedura di infrazione avviata dalla Commissione europea

 
 
 
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IMMIGRAZIONE. Il presidente della Cei, Zuppi: «Emigrare è un diritto». Parolin: «Salvare vite e accogliere. Stop agli scafisti? Tutti d’accordo, ma non basta»

 

Oscillano fra il ridicolo e il patetico le esternazioni dei leader di governo Meloni e Salvini e i commenti dei giornali di destra che si appropriano di sette parole pronunciate da papa Francesco all’Angelus di domenica scorsa («i trafficanti di esseri umani siano fermati») e le trasformano in una benedizione pontificia delle politiche contro i migranti degli attuali inquilini di Palazzo Chigi.

Evidentemente in Vaticano, e alla Cei, i quotidiani li leggono, e ieri si sono succedute dichiarazioni che, senza fare nomi, hanno rispedito al mittente le strumentalizzazioni politiche della destra. Occorre «un rinnovato impegno nel favorire lo spirito dell’accoglienza e della solidarietà» nei confronti dei migranti», ha detto Bergoglio in un messaggio ai partecipanti al seminario «La cattedra dell’accoglienza», in corso alla Fraterna Domus di Sacrofano (Roma). Il papa, si legge nel messaggio a firma del cardinale segretario di Stato vaticano Parolin, «incoraggia a considerare la presenza di tanti fratelli e sorelle migranti un’opportunità di crescita umana, incontro e dialogo». Sulla necessità di fermare gli scafisti, ovviamente «siamo tutti d’accordo, ha aggiunto Parolin, ma «non ci si può ridurre a combattere solo gli scafisti. Prima di tutto bisogna salvare vite umane».

Sull’altra sponda del Tevere, lato italiano, interviene il cardinal Zuppi, presidente della Cei, in un’intervista al Sir, l’agenzia dei vescovi. «L’accoglienza è l’unico messaggio possibile. Chi non ha casa, va accolto», ha detto Zuppi, che poi è sembrato correggere le scomposte e ciniche affermazioni del ministro Piantedosi: «Dobbiamo metterci sempre nei panni degli altri. Chi ha perduto tutto e deve scappare, deve trovare accoglienza. Non ci sono alternative. Quello all’emigrazione era un diritto garantito per tutti gli uomini, prima che

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