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Degenerati. La Lega prova a riscrivere la legge cancellando l’identità di genere Il Pd giudica la proposta « irricevibile». Ma i renziani apprezzano

 Il ddl Zan sarà discusso dal Senato il 13 luglio come chiesto da Pd, M5S, LeU e Autonomie. A deciderlo è stata ieri l’aula dopo che due riunioni dei capigruppo della maggioranza in commissione Giustizia sono servite solo a sancire l’impossibilità di raggiungere un’intesa. D’accordo a discutere la legge contro l’omotransfobia la prossima settimana anche Italia viva, nonostante il partito di Renzi abbia cercato fino all’ultimo una mediazione con la Lega. «Calendarizzato il ddl Zan. Quindi vuol dire che i voti ci sono. Allora, in trasparenza e assumendosi ognuno le sue responsabilità, andiamo avanti e approviamolo», ha scritto su Twitter Enrico Letta.

La sfida tra il segretario del Pd e Matteo Renzi e Matteo Salvini passa adesso all’aula del Senato ma è escluso che nella settimana che divide i contendenti dall’esito finale di uno scontro che va avanti ormai da mesi i toni saranno meno accesi. Anche perché, dopo aver invitato tutti i gruppi alla ricerca di una mediazione che salvasse, a suo dire, il ddl Zan, il leghista Andrea Ostellari, presidente della commissione Giustizia dove il ddl è impantanato, ieri mattina si è presentato alla riunione dei capigruppo con una sintesi delle proposte avanzate da centrodestra e da Italia viva che in realtà era più una riscrittura della legge che altro. Previste modifiche agli articoli 1, 2, 3, 4 e 7 ma soprattutto dal testo scompariva

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Progetti di Riforma. Il testo uscito dalle commissioni di Camera e Senato dà solo vantaggi alle imprese - abolizione Irap - e ai ricchi - riduzione aliquote e controlli anti evasione

L'aula di Montecitorio

 

L'aula di Montecitorio  © Foto LaPresse

Il gruppo di lavoro delle commissioni Finanze di Camera e Senato parte da una premessa condivisibile: un buon sistema fiscale è quello adatto alla realtà su cui interviene.
Resta allora da capire perché arrivi a conclusioni tanto sbagliate, andando a premiare la parte più ricca della società, proprio nel mezzo di una crisi epocale che ha generato milioni di nuovi poveri, compresso ulteriormente il ceto medio, travolto il tenore di vita di tanti lavoratori, costretti a mesi di cassa integrazione.
Non si può infatti considerare in altro modo un’ipotesi di riforma che comprima di 40 miliardi le entrate fiscali, con interventi a esclusivo vantaggio delle imprese, delle rendite finanziarie e di chi percepisca un reddito superiore a quello di impiegati e operai, per non parlare di precari e piccole partite Iva.
La destra incassa l’abolizione dell’Irap, che da sola vale 20 miliardi, e che rischia di aprire una voragine nel finanziamento del sistema sanitario, se non diventi immediatamente chiaro quali siano eventuali fonti alternative di entrate.
L’unica ipotesi in campo, ovvero la sostituzione con un’addizionale regionale sull’Ires non è infatti praticabile, vista la maggiore incidenza del ciclo economico e la più forte disparità territoriale che caratterizza questa imposta. Si interviene inoltre sulla tassazione delle rendite finanziarie, escludendo esplicitamente e senza spiegazioni la possibilità di ricondurle nel perimetro dell’Irpef, assoggettandole così a un regime di progressività, e al contrario riducendo l’aliquota dal 26% al 23%.
Anche in questo caso siamo davanti a un intervento che favorisce nettamente la parte più ricca della società, dato che esiste un rapporto di proporzionalità diretta fra livello della ricchezza investita in asset finanziari e monte complessivo del proprio patrimonio. Significa che il taglio dell’imposta rappresenterà un vantaggio inesistente per i nullatenenti, irrisorio per i comuni risparmiatori, estremamente vantaggioso per chi disponga di rendite milionarie.
Sul lato Irpef, si rafforza ulteriormente il regime di flat tax per i lavoratori autonomi, spingendo così ancora di più nella direzione della destrutturazione del mercato del lavoro.
È infatti innegabile che la scelta leghista di introdurre un regime duale sotto i 65.000 euro di reddito annuo, tale per cui la divaricazione può arrivare fra il 41% di un dipendente e il 15% di un autonomo, rappresenti una spinta formidabile a restringere il perimetro del lavoro subordinato.
Ecco quindi che rimane del tutto inascoltata la lezione della pandemia, che ha dimostrato quanto un sistema fondato sul precariato e sul dilagare delle false partite Iva produca nella crisi una voragine sociale per l’assenza di ammortizzatori sociali. D’altra parte anche il dibattito sulla progressività dell’Irpef segna una battuta d’arresto, se è vero che esce di scena la possibilità di introdurre un’aliquota mobile sul modello tedesco, e si sceglie invece di intervenire esclusivamente sulla fascia 28-55 mila in termini di riduzione. Vince anche in questo caso l’approccio della destra, con il risultato di un appiattimento della curva, se si consideri anche l’assorbimento dei bonus e l’eventuale allargamento della no tax area.
Ciò che manca è invece la riforma del catasto, ancora una volta a esclusivo vantaggio dei ceti più abbienti, nonostante sia pronta e rinchiusa in un cassetto del Mef da ormai un decennio.
Dovrebbe inoltre destare scandalo la totale assenza di interventi sul fronte della lotta all’evasione fiscale, considerando quanto questa sia elevata e dannosa per la coesione sociale e l’equità. Le poche parole spese sono tutte volte a rassicurare che gli strumenti attualmente previsti per l’accertamento saranno resi meno efficaci, e che ci si asterrà da qualsiasi intervento radicale nel recupero del mancato gettito.
Un atteggiamento curioso, in un paese in cui la possibilità di incappare in un controllo è del 2% , nonostante un tax gap vicino ai 110 miliardi di euro annui.
Soprattutto manca la volontà politica di accennare anche solo come ipotesi alla possibilità di un’imposta patrimoniale, nonostante tutti i dati parlino di un paese in cui la diseguaglianza abbia raggiunto livelli inaccettabili, così come l’accumulazione di ricchezza nelle mani di pochissimi.
Basti pensare che nel 1995 il 10% più abbiente possedeva una quota del 42% della ricchezza nazionale, lasciando il 58% al restante 90%. Oggi siamo al 54% contro il 46%, con un impressionante rovesciamento di proporzioni.
In questo quadro un intervento come quello proposto da Sinistra Italiana con la campagna Next Generation Tax rappresenterebbe soltanto una modesta quanto doverosa operazione di restituzione.

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La crisi 5Stelle. Ma il governo Draghi non è dinamitato. Potrà rafforzare il proprio segno già conservatore, la sua rappresentanza diretta dell’universo imprenditoriale

Illustrazione di Ludovica Valori

Qui la politologia si arrende. E anche la politica, intesa come arte conoscitiva del possibile. Forse solo la psicanalisi riesce in qualche modo a dar conto delle convulsioni che stanno squassando i Cinquestelle. Il “buffet delirante” che si è impadronito dell’unico fondatore sopravvissuto, spingendolo a destabilizzare il “suo movimento” nel momento più delicato di una già di per sé arrischiata transizione, si spiega solo con profonde patologie dell’Io. Anzi, dell’Io “patriarcale”: il più arcaico, il più selvaggio, quello del patriarca che non sopporta che la propria tribù possa vivere in qualche misura di vita propria. Quello del creatore che odia persino l’idea che la sua creatura si distacchi da lui. O del padre che odia i figli per la sola ragione, biologica, che gli sopravvivranno. Insomma, la “sindrome di Crono”, che come ci insegna la mitologia se non superata da un qualche Giove olimpico produce un mortale arresto del corso storico.

Ora, proprio per l’insostenibile pesantezza del ruolo dell’Ombra e dell’Inconscio in questa brutta faccenda, è difficile prevedere cosa ci aspetti nei giorni prossimi, come evolverà o involverà la crisi. Se l’Uno si spezzerà in due (non metà, ma quarti, ottavi, sedicesimi). Se si assisterà a una classica scissione, o a una scalata dall’interno. O alla stipula di una tregua, che illuda di congelare uno status quo ormai comunque perduto. Non è dato neppure capire se la “mediazione” che porterebbe a superare l’elezione del “Comitato direttivo” con la nomina di “7 saggi” (sette come “i re di Roma”, come “i nani di Biancaneve”, come “I sette a Tebe” di Eschilo…), andrà in porto oppure no. Se Conte allargherà le maglie della propria finora abbondante pazienza o esprimerà il suo Vaffa…

Ma quel che è certo è che il sistema politico italiano ne esce ulteriormente dinamitato. Il sistema politico, si badi, non

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Il Retroscena. L’idea dell’avviso comune era stata lanciata sabato nel comizio di Torino da Landini. Poi è toccato al premier convincere un Bonomi recalcitrante a usare «metodi alternativi» ai licenziamenti

Questa volta sono stati i sindacati a far cambiare idea a Draghi. Convocati alle 15 per la sola comunicazione di come sarebbe stato il decreto concordato il giorno prima con la maggioranza – allungamento del blocco dei licenziamenti per il solo settore tessile più le aziende in crisi e altre 13 setti mane di cassa integrazione gratuita per le stesse imprese – Cgil, Cisl e Uil erano arrivate già battagliere: «Non andremo solo ad ascoltare», aveva promesso Maurizio Landini.

E proprio il suo intervento spalleggiato da quelli di Luigi Sbarra e Pierpaolo Bombardieri hanno aperto una crepa nella monolitica compattezza di Draghi. Una crepa in cui si era già inserito il ministro del Lavoro Andrea Orlando che da giorni lavorava ad una proposta più ampia: allargare il blocco non per settori ma per quantità d’uso della cassa integrazione negli ultimi mesi. In pratica le aziende che ne avevano usata molta non avrebbero potuto licenziare ma in cambio avrebbero avuto altre settimane di cig gratuite. Una proposta che non aveva ottenuto l’appoggio politico dell’intera maggioranza e che Draghi aveva stoppato, esattamente come fece una settimana dopo il consiglio dei ministri del Sostegni bis cancellando il prolungamento al 28 agosto proposto dallo stesso Orlando.
A Cgil, Cisl e Uil questa proposta non sarebbe bastata. E allora hanno avanzato una proposta già anticipata da Maurizio Landini nel suo comizio di sabato mattina a piazza Castello a Torino, sebbene in pochi se fossero accorti – «Lancio una sfida alle imprese: come abbiamo fatto noi all’inizio del Covid, si prendano la responsabilità di usare la cassa integrazione, per loro gratuita, e non i licenziamenti. Nel caso del protocollo sulla sicurezza abbiamo impiegato 18 ore a sottoscriverlo». Un patto – «avviso comune» è diventato – con cui Confindustria si impegna a non usare i licenziamenti ma a usare tutti gli strumenti alternativi, oltre alla cig, contratti di solidarietà, riduzioni di orario.
Una proposta che il governo ha accettato ma le lunghe ore di attesa sono servite allo stesso Draghi per convincere il recalcitrante Carlo Bonomi a firmare un impegno simile. Sebbene non abbia valore legale coercitivo – se un’azienda non lo rispetterà e licenzierà i suoi lavoratori invece di usare strumenti alternativi non potrà essere sanzionata – questo «avviso comune» è assai impegnativo per Bonomi: si era rivenduto il via libera ai licenziamenti deciso da Draghi come una sua vittoria, portando lo scalpo di Landini in dono ai suoi amici falchi . Così deve fare marcia indietro, molto più di Draghi.
Le lunghe ore di attesa dopo il primo stop al confronto governo-sindacati sono servite per cercare da un lato di allargare il perimetro del blocco e dall’altro di concordare il testo dell’«avviso comune» governo, imprese, sindacati in cui le imprese si impegnano ad utilizzare tutti gli strumenti prima di far ricorso ai licenziamenti.
Serviva soprattutto chiarire la natura delle 13 settimane aggiuntive. Per Cgil, Cisl e Uil andava confermato il modello utilizzato per la cassa Covid: le aziende non devono poter licenziare prima di aver esaurito tutte le 13 settimane. Andava poi esteso l’utilizzo del periodo aggiuntivo ai lavoratori di tutte le realtà coinvolte ai tavoli di crisi regionali e provinciali, e non solo a quelli al Mise, come inizialmente previsto dal governo.
Infine l’«avviso comune» andava allargato alle altre rappresentanze datoriali – Confapi e Cooperative – per vincolare le aziende associate escluse dal novero delle eccezioni ad utilizzare, prima di licenziare, tutti gli strumenti istituzionali e contrattuali a disposizione.
Ma superato l’ostacolo Bonomi – e c’è voluta la diplomazia di Draghi per riuscirci – il cammino è stato in discesa.
I sindacati non festeggiano – la loro proposta era di estendere il blocco per tutti i lavoratori a fine ottobre – ma «il passo avanti è notevole». E Bonomi è stato piegato.

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È stato il sabato della partecipazione. Tre piazze per i diritti dei lavoratori: Torino, Firenze, Bari. Sei città per i diritti della comunità Lgbtq: il Gay Pride ha riempito Ancona, L'Aquila, Faenza, Martina Franca, Milano e Roma.

Questo giugno è caldo non solo per l'ondata di calore che sta investendo il Paese, ma anche per chi ha rivendicazioni sul piano sociale.

Sul fronte del lavoro la fine il 30 giugno dello stop ai licenziamenti decisi in pandemia - prorogato solo il settore tessile - e per le sempre troppe morti sul lavoro - l'ultima, il bracciante morto di fatica in Puglia.

Sul fronte Lgbtq, l'affondo del Vaticano contro il ddl Zan che giace al Senato e di cui ora il cui futuro è incerto.

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Cinque Stelle. Uscirne con un passo indietro di Grillo non sarà facile e se la decisione sarà orientata alla separazione, i 5Stelle si troverebbero a replicare una postura da partito tradizionale. Se avvenisse una scissione, cosa ci sarebbe di diverso dagli altri partiti?

 

Nell’opaca cornice di un governo di unità nazionale, che in un modo o nell’altro tocca collocazioni e identità delle forze politiche che ne fanno parte, non dovrebbe stupire nessuno se a patirne le maggiori conseguenze è proprio la forza più giovane e dall’identità più fragile come il Movimento 5Stelle.

Una forza politica che in pochi anni conquista il vertiginoso 32 per cento dei consensi, che sale sul podio del partito di maggioranza relativa, che passa dall’opposizione al governo, che è stata determinante per tre governi consecutivi, non è poi così strano che si ritrovi sull’orlo di una scissione.

In fin dei conti voler tenere insieme Giuseppe Conte e Beppe Grillo è come cercare di unire il diavolo e l’acqua santa. Uno è istituzionale, parlamentarista, garantista per formazione, tanto quanto l’altro è anarchico, populista, giustizialista. Nella fase di crescita tumultuosa dei consensi ha prevalso l’anima movimentista, mentre con l’ingresso nella stanza dei bottoni ha ovviamente guadagnato terreno, tra gli eletti e gli iscritti la scelta di non voler recitare una parte secondaria nel futuro che verrà.

E ieri pomeriggio Conte, in una conferenza stampa, si è incaricato, di confermare il momento di grande difficoltà spiegando che “il Movimento ha criticità, carenze, ambiguità che spiegano gli elettori persi”, e che dunque “non esiste una leadership dimezzata e non serve imbiancare la casa che invece ha bisogno di profonde ristrutturazioni”.

In sostanza Conte dice che i 5Stelle per non morire devono avere “il coraggio di cambiare” non i valori su cui sono nati, ma tutta la struttura, non le fondamenta della casa ma ogni pilastro. Dunque le ragioni della crisi sono spiattellate insieme alla cura per uscirne : “Spetta ora a Grillo e agli iscritti la scelta” se aderire o sabotare.

Del resto, per restare ai travagli dello schieramento di centrosinistra, al quale Conte ha fatto riferimento come “campo largo” in cui ancorare i 5Stelle (mettendo fine all’ambiguità né di destra, né di sinistra), siamo tutti testimoni della recente, drammatica crisi di leadership del Pd.

Della fragile soluzione alle traumatiche dimissioni del segretario Zingaretti, sostituto senza discussione da un neo-segretario intervenuto sulla scena per puntellare il governo Draghi, ma impotente di fronte alle “bande” interne al partito.

D’alta parte, se il vento politico, che ha portato Draghi a palazzo Chigi in piena pandemia, è un vento che a dar retta alla maggior parte dei sondaggi continua a gonfiare le vele delle destre promettendo la primazia alla giovane erede del fascismo, non dovrebbero destare meraviglia le scosse che attraversano i partiti, ma, al contrario, andrebbero lette a conferma della debolezza del fronte democratico progressista.

Non da ultimo per il fatto stesso di vedere la maggiore forza, il Pd, stimata a malapena intorno al venti per cento dell’elettorato, per di più con le forze della sinistra – di governo e di opposizione – che sì e no ottengono il due per cento dei voti (a testa). E difficilmente potremmo aspettarci qualcosa di diverso se queste forze pur camminando nella stessa direzione, viaggiano su strade parallele, divise da muri di incomprensione e da personalismi degni di miglior causa.

Quello che accade ora tra i 5Stelle appare, anzi è, inevitabile. Probabilmente sarà decretata una tregua ma se anche le due componenti verranno in qualche modo incollate, l’amalgama difficilmente riuscirà a tenere. Oltretutto i numeri dei consensi sui quali potevano contare si sono dispersi, andando ad ingrossare in parte le fila della destra e in parte quelle dell’indifferenza, e la controprova è evidente: nessun partito progressista e di sinistra ha trovato giovamento dallo smarrimento grillino.

Adesso la contrapposizione non è tanto sulla scelta governista del movimento, ma sulla filiera di democrazia interna e sul radicamento politico e sociale nei territori. Sulla fine della monarchia assoluta incarnata dall’Elevato, su quei riti della comunicazione che facevano del corpo del re il principale veicolo del messaggio politico, che attraversasse lo Stretto a nuoto, o che navigasse con il canotto sulle folle in piazza. Anche perché ultimamente le sue doti di visionario sono sembrate un po’ usurate (vedi la cantonata di scambiare il ministro Cingolani per un ambientalista e Draghi per il salvatore della patria).

Naturalmente la scelta sarà alla fine determinata dal voto degli iscritti, finalmente liberi dalla catena proprietaria della piattaforma Rousseau.

Uscirne con un passo indietro di Grillo non sarà facile e se la decisione sarà orientata alla separazione, i 5Stelle si troverebbero a replicare una postura da partito tradizionale. Se avvenisse una scissione, cosa ci sarebbe di diverso dagli altri partiti? Ad esempio dal Pd che, dalla caduta del Muro, non trova pace, lacerato da continue divisioni? Oltretutto una dilaniante spaccatura farebbe un favore a chi, da destra a sinistra, passando per Calenda, ne vorrebbe l’estinzione; sarebbe uno schiaffo ai milioni di elettori che li hanno sostenuti; e potrebbe essere devastante per qualsiasi ipotesi alternativa alla preponderante coalizione di destra.

Se non troveranno la strada per una rifondazione, rischiosa ma necessaria, il loro futuro è già visibile tra le stelle cadenti.

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