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Dal sito de il manifesto      

https://ilmanifesto.it/

 

È scomparso oggi Gino Strada, medico e fondatore di Emergency. Al momento del decesso, avvenuto per un problema cardiaco, si trovava in Normandia. Aveva 73 anni.

 

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L'analisi. Le ipotesi di restyling della misura chiamata "reddito di cittadinanza" non risolveranno i problemi di una misura creati dai limiti fiscali e patrimoniali che impediscono di rispondere alla gravissima crisi sociale in corso. I ritocchi più significativi, ma tutti da verificare arriveranno dall'ennesima riforma delle "politiche attive del lavoro". Con i soldi del «Recovery» il governo vuole rafforzare la trasformazione del Welfare in Workfare, formalizzando il cambiamento della natura della cittadinanza sociale

In fila per il "reddito di cittadinanza"  © Ansa

Tra settembre e ottobre il comitato di valutazione del reddito di cittadinanza presieduto da Chiara Saraceno potrebbe consegnare al ministro del lavoro Andrea Orlando alcune proposte di riforma del cosiddetto «reddito di cittadinanza». Vediamo le ipotesi in campo. Quella più certa sembra la modifica della scala di equivalenza che penalizza le famiglie numerose con i figli minorenni nella distribuzione del “reddito” (sostegno medio di 581,39 euro al mese per due milioni e 860 mila individui, in totale oltre 7 miliardi di euro all’anno). Si parla anche di dimezzare i dieci anni di residenza imposti ai cittadini stranieri extracomunitari (ma non ai comunitari) per accedere alla misura, queste famiglie va ricordato sono più povere di quelle già povere italiane. Ma sono state prese a bersaglio da una norma razzista dei cinque stelle e della Lega. Invece di cinque, ne basterebbero due.

Il problema che rende il «reddito di cittadinanza» tutt’altro che una diga contro l’impoverimento generalizzato – per l’Istat solo negli ultimi 12 mesi i «poveri assoluti» sono aumentati di un milione (5,6 in totale) – sono i limiti fiscali, patrimoniali e reddituali pensati per escludere e non per includere. Secondo la Caritas il 56% dei potenziali beneficiari già oggi non possono accedere alla misura a causa delle norme fiscali, reddituali e patrimoniali pensate per escluderli. Oltre a loro ci sono i «nuovi poveri», quelli che lavorano e che hanno perso il lavoro durante la crisi sociale innescata dalla pandemia. Anche per loro, si dice, andrebbe previsto una modifica delle norme che estenderebbe il «reddito» perché oggi la norma impedisce di dimostrare che nei due anni precedenti alla domanda c’è stata una perdita di reddito o fatturato. Si dice anche che il «reddito di emergenza», pensato a metà 2020 per evitare di estendere il «reddito di cittadinanza» sarà riassorbito dalla misura di cui rappresenta un doppione. Ma è anche possibile che sarà lasciato decadere.

Si ripete inoltre da mesi l’ipotesi tutta da dimostrare, ma sostenuta da più parti, di uno sdoppiamento del reddito come misura di ultima istanza per il sostegno dei poveri dal reddito come sussidio di disoccupazione e di inserimento al lavoro, magari trattandolo come un voucher o un assegno di ricollocazione che il beneficiario può «spendere» presso un centro per l’impiego o un’agenzia interinale. Questo è il cuore di tutte le polemiche tra chi ha presentato in maniera truffaldina una misura che non è un «reddito di cittadinanza» come tale e chi invece ritiene in maniera infondata che tale misura avrebbe da sola prodotta «posti di lavoro», per di più in un paese colpito da una pandemia mondiale. Questo gioco degli equivoci, e della malafede, alimenta le polemiche tra i partiti e colpisce con un stigma sociale i poveri e chi lavora nella loro gestione come i tartassati «navigator».

La realtà, basta volerla vedere, è questa: due terzi degli attuali beneficiari non possono essere ritenuti «occupabili». È tutto da dimostrare che lo sarebbe una parte maggioritaria dei circa 1,1 milioni che invece sono stati definiti «occupabili» prima e durante la pandemia che ha bloccato molte delle attività di collocamento. È il mistero di pulcinella sul quale nessuno intende fare luce. Ed è la base di partenza che di solito trasforma queste politiche in una «trappola della povertà». Qui non si vuole emancipare milioni di persone dalla povertà, ma governare i poveri. La difficile occupazione degli occupabili darà la stura a norme, già previste dalla legge sul «reddito di cittadinanza», come l’ipotesi di mettere in concorrenza i centri per l’impiego e, soprattutto quella di commissariare i centri per l’impiego che non rispondono ai criteri di produttività nel collocamento – in pratica moltissimi tranne qualche eccezione in alcune regioni, in particolare del Centro-Nord del paese.

La vera partita sul «reddito di cittadinanza» si gioca dunque al di fuori di esso e riguarda le politiche attive del lavoro alle quali è stato agganciando secondo la formula misconosciuta in Italia, ma da tutti realmente auspicata, del Workfare, il rovesciamento dello schema del Welfare. Se in quest’ultimo la cittadinanza sociale è la prerogativa per il riconoscimento sia dei sussidi che del reinserimento al lavoro, nel Workfare è l’effetto della volontà di un soggetto che si rende disponibile al lavoro (ad essere cioè «occupabile» che non significa avere un’occupazione, perlomeno «fissa»), alla formazione obbligatoria e a svolgere la corvée dei «progetti utilità alla collettività» (Puc). In alcuni casi potrebbero risultare un’illusoria reinserimento sociale di persone dimenticate dalla società. In realtà, alla lunga, saranno la doppia pena dei poveri: esclusi e poi costretti ai lavori gratuiti pena la perdita del sussidio. Sull’incapacità di riconoscere e criticare modelli già noti in altri paesi si misura la forza dell’egemonia neoliberale sulla sinistra e sui sindacati, fautori in Italia di questo Workfare.

Il «Recovery» a nome della Commissione Europea ha scommesso più di 4 miliardi di euro su questo capitolo. Il sistema non funziona e agiterà lo scontro tra lo Stato e le regioni concorrenti sulla stessa politica.

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Afghanistan. Un altro bel colpo nella strategia del caos perseguita dagli Stati uniti negli ultimi vent’anni grazie alle amministrazioni repubblicane ma anche a quelle democratiche, dove spicca con Obama il ritiro dall’Iraq che lasciò il Paese nelle braccia dell’Isis

 

Il ritiro americano dall’Afghanistan è una vergogna ma anche una mossa calcolata. Il ritorno all’ordine talebano era prevedibile, forse persino auspicato. Fare gli stupiti è ipocrita.

Di mezzo come al solito ci vanno gli afghani che, come scriveva ieri sul manifesto Giuliano Battiston, sono stati scaricati dagli europei che premono per il rimpatrio dei profughi aggrappandosi ad accordi firmati dal governo di Kabul con un ricatto esplicito: dovete riprendervi i rifugiati altrimenti non vi diamo i soldi.
E poi ci facciamo chiamare Paesi «donatori». Insomma la stessa usuale solfa di Bruxelles che spera con i quattrini di fermare gli arrivi alle frontiere, una volta pagando Erdogan, un’altra i libici o i tunisini. I prossimi a libro paga magari saranno proprio i talebani e non ci sarebbe troppo da scandalizzarsi: da anni versiamo soldi ai criminali libici e ai loro complici.

L’Afghanistan è lontano e vogliamo dimenticare alla svelta Kabul, anche se sono passati vent’anni da quando gli Stati uniti hanno invaso l’Afghanistan con l’obiettivo di eliminare Al Qaeda dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 e rovesciare il regime del Mullah Omar. Questa sembra essere l’unica preoccupazione dell’Unione europea: che l’Afghanistan stia sprofondando nel caos e in una nuova guerra civile, con il risorgere dei signori della guerra cooptati in questi anni nella «democrazia» afghana, appare secondario. Dopo avere proclamato, per anni, con gli americani che stare in Afghanistan era cosa giusta e doverosa per «proteggere» la democrazia e i diritti delle donne, adesso gli europei voltano la faccia dall’altra parte e rifiutano asilo a chi teme giustamente di essere ricacciato in un nuovo medioevo.

A stento sono stati salvati un po’ di afghani che lavoravano per le truppe occidentali, giusto per le pressioni sui media che hanno dato spazio alle suppliche di quelli che i talebani considerano «collaborazionisti». Tralasciando di scrivere che questo censimento dei collaborazionisti i talebani nelle provincie lo fanno da sempre e in maniera accurata, con in mano i dati anagrafici di una popolazione che hanno tenuto sotto torchio per anni. I talebani non hanno mai smesso di governare «a distanza» il Paese e tutti lo sapevano benissimo, altrimenti non sarebbero avanzati così velocemente.

L’ipocrisia è tale da nascondere un pensiero neppure troppo remoto, vista la situazione. Un ritorno all’«ordine talebano» potrebbe anche non dispiacere troppo ad americani ed europei.

Per questo ce ne siamo andati via alla chetichella ammainando velocemente la bandiera, come se qui non fossero morti dozzine di soldati italiani dando la caccia ai talebani nel Gulestan, la valle delle rose. Con il ritiro gli americani e la Nato hanno rifilato una pesante eredità all’Armata Rossa, ai cinesi e agli iraniani.

Un altro bel colpo nella strategia del caos perseguita dagli Stati uniti negli ultimi vent’anni grazie alle amministrazioni repubblicane ma anche a quelle democratiche, dove spicca con Obama il ritiro dall’Iraq che lasciò il Paese nelle braccia dell’Isis. Anche lì doveva un esercito nazionale come in Afghanistan a mantenere l’ordine: in tutti e due i casi le forze armate locali si sono sfaldate alla prima offensiva.

E ora l’Armata Rossa organizza manovre militari con Uzbekistan e Tagikistan: i russi dovrebbero tenere quelle frontiere che abbandonarono nell’89 quando si ritirarono dopo l’invasione del dicembre ’79 e una guerra persa contro i mujaheddin, sostenuti dagli Usa e dai loro alleati. Anche la Cina si sta muovendo per proteggere i confini dello Xinjiang musulmano e le concessioni minerarie afghane. L’obiettivo a quanto pare sembra sia stato raggiunto: i talebani hanno assicurato che non interferiranno nelle questioni interne cinesi tra gli uighuri e Pechino, allo stesso tempo la Cina ha definito gli insorti afghani “una forza militare e politica cruciale”. Così come stanno negoziando gli iraniani, che si trovano i talebani a stretto contatto nella provincia di Herat, storicamente legata alla Persia.

Tutti sono seduti al tavolo con i talebani, dagli americani agli altri, si tratta di preparare il terreno a loro riconoscimento internazionale. E vedrete che ci piacerà pure Muhammad Yaqoob, il figlio del Mullah Omar che lancia appelli _ non si sa quanto affidabili e realistici _ alla moderazione dei combattenti. Di democrazia, protezione dei diritti delle donne, sviluppo sociale ed economico di un Paese che l’Occidente diceva di volere cambiare già non parla più nessuno. Siamo tornati a casa, i profughi afghani li cacciamo indietro e abbiamo salvato una manciata di collaborazionisti: che volete di più? Il «ritorno all’ordine» tra un pò di tempo, anche nel caos, sarà completo.

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Scenari. Se la gravità della situazione viene nuovamente certificata sul piano scientifico con nuova analisi e dati, su diverse testate il nuovo negazionismo continua a seminare dubbi sulla gravità della situazione e a suggerire che comunque il cambiamento richiesto è peggio della malattia

Laguna de Suesca, Colombia  © Ap

Il sesto rapporto della Commissione intergovernativa sui cambiamenti climatici dell’Onu (Ipcc) è stato lanciato mentre le ondate di calore e gli incendi devastano il pianeta dall’Amazzonia alla Siberia, dalla Grecia alla California.

Si tratta del primo dei tre volumi del sesto rapporto di valutazione, una sorta di summa delle scienze del clima pubblicata a otto anni dal rapporto precedente e a trentuno dal primo. La temperatura globale media registrata nel periodo 2010-19 risulta 1,07°C superiore a quella del periodo preindustriale mentre le concentrazioni di CO2 del 2020 sono quelle massime raggiunte negli ultimi 2 milioni di anni.

Rispetto al quinto rapporto, le evidenze della correlazione tra crisi climatica innescata dalle emissioni di gas serra e i fenomeni climatici estremi sono più forti così come il possibile crollo della corrente del Golfo giudicata solo otto anni fa «poco probabile» ora invece viene valutata con una probabilità media.

Si confermano i risultati presentati nel 2018 quando l’Ipcc aveva analizzato i diversi impatti tra uno scenario con l’aumento globale della temperatura media a 1,5°C e uno a 2°C e dunque dando un senso preciso alla formulazione degli obiettivi dell’Accordo di Parigi, di limitare «ben al di sotto dei 2°C e preferibilmente a 1,5°C» la temperatura media globale.

Per riuscirci, e dunque per evitare le conseguenze peggiori, è necessario un dimezzamento delle emissioni globali entro il 2030 e un loro azzeramento entro il 2050: ed è ancora possibile farlo, questa la buona notizia negli scenari presentati dal rapporto.

La difficoltà – e i conflitti – stanno proprio nei tempi stretti per agire. Che la transizione richieda grandi investimenti e non sia una passeggiata è certo. Ma è solo metà della storia. Non c’è infatti solo il «bagno di sangue» evocato a ogni piè sospinto dal ministro Cingolani: i nuovi settori rinnovabili sono infatti a maggior intensità di lavoro e dunque richiederanno più occupati e, semmai, in qualifiche che richiedono politiche di formazione e di riconversione dei lavoratori dei settori fossili.

Questi sono dominati da un oligopolio globale fatto di poche majors (come per petrolio e gas) e di alcuni (importanti) stati proprietari delle risorse. I nuovi settori vedono invece una pluralità di soggetti anche di dimensioni medie e piccole e una concorrenza globale nelle tecnologie che, per alcune di queste, vede avanti la Cina. La cui linea pro-carbone va bloccata offrendo di cooperare sulle tecnologie pulite: una ripresa della collaborazione europea e americana col colosso asiatico, colpito anch’esso da alluvioni distruttive in queste settimane, rimane una condizione necessaria per combattere sul serio la crisi climatica.

Se la gravità della situazione viene nuovamente certificata sul piano scientifico con nuova analisi e dati, su diverse testate il nuovo negazionismo continua a seminare dubbi sulla gravità della situazione e a suggerire che comunque il cambiamento richiesto è peggio della malattia.

Alcuni sono tra quei promotori del nucleare poi bloccato dal referendum nel 2011: i reattori francesi (e quelli nippo-americani) proposti avrebbero creato solo altrettanti «buchi neri finanziari» senza aver prodotto un solo kilowattora. Oggi corrono solerti nel gruppetto dei nuovi negazionisti in soccorso degli interessi dei «padroni del vapore» per bloccare o ritardare i cambiamenti necessari, mentre aziende come Eni cercano di intimidire la stampa con querele temerarie come è successo al Fatto Quotidiano e di recente al Domani.

Eni che insiste con obiettivi largamente inadeguati sulle rinnovabili e a promuovere «soluzioni» incerte e rischiose come stoccare la CO2 nel sottosuolo o vendere il Gpl presentato come «verde» solo perché Eni ha acquistato gli equivalenti crediti di CO2 forestali in Zambia. Operazioni cartacee di assorbimenti forestali di CO2 a copertura di emissioni certe (quelle emesse dal Gpl «verde») che potrebbero andare in fumo al prossimo incendio, come è avvenuto per i crediti di CO2 acquisiti da altre grandi multinazionali proprio con gli incendi di questi giorni. Sarebbe ora di smetterla con l’aria fritta e iniziare a fare sul serio per combattere la crisi climatica.

* Direttore Greenpeace Italia

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Lavoro. Vanno riviste le vecchie “casse integrazioni”, con la riorganizzazione degli orari di lavoro. E nuovi istituti di integrazione salariale per difendere l’occupazione

 

Una riforma deve essere vista ora come una delle riforme indispensabili e prioritarie connesse al Pnrr. Si dovrebbero allora considerare innanzitutto le questioni nuove e strategiche sulle quali intervenire, per determinare una riunificazione sociale e politica di tutte le parti del lavoro ora distinte e immerse in una selva di condizioni diverse e corporative, come si è drammaticamente visto nell’emergenza.

Siamo di fronte ad una condizione nella quale conviveranno per lungo tempo crisi e rilancio, con processi di grandi riorganizzazioni, spinti ancor più̀ dalle radicali innovazioni tecnologiche ed ecologiche che caleranno, e in modo accelerato, in tutti i settori. E’ questo lo scenario nel quale si inserisce la stessa proposta europea di “New Generation“: non un albero di cuccagna ma un grande e ben difficile banco di prova anche e soprattutto per l’Italia; per il necessario “salto di produttività”.

Si dovrà affrontare non solo il problema di “non poter mantenere posti di lavoro in aziende obsolete – come recita di nuovo la vulgata padronale – ma soprattutto la necessità di governare processi di ristrutturazione-innovazione, che richiederanno un mix inedito di interventi pubblici, sostegni finanziari per investimenti e per nuova organizzazione del lavoro. Assicurando quindi una eguale tutela e protezione del lavoro nelle micro e piccole imprese e nei settori (commercio, turismo, logistica, intrattenimento, servizi alla persona) che ora possono essere i principali ambiti di un’onda lunga soprattutto di ulteriore precarizzazione del lavoro.

Occorre una Riforma Universalista per unire il lavoro con Nuovi Diritti Comuni. Si dovrebbero non solo estendere ma reimpostare le attuali, attempate “casse integrazioni”, con una visione comprensiva del tema generale della riorganizzazione degli orari di lavoro. E quindi formulare nuovi istituti definibili Contributi di integrazione salariale per la salvaguardia dell’occupazione, ponendoli esplicitamente come alternativi in prima istanza alle riduzioni di organico con licenziamenti collettivi “in tronco”, mettendo a terra così pure “lo spirito” della “raccomandazione” a cui si è giunti per moral suasion del presidente Draghi.

Da un lato un Istituto (per il quale Inps potrebbe erogare direttamente attraverso le imprese eliminando i ritardi di pagamento) di compensazione alle riduzione di salari e stipendi per temporanee riduzioni di orario, definite con accordi sindacali, derivanti da riduzioni parziali di attività per motivi oggettivi di mercato o di ristrutturazione.
E dall’altro lato, un Istituto che sostenga, ove inevitabili e necessari, percorsi di riconversione professionale o di ricollocazione dei lavoratori effettivamente organizzati in collaborazione tra impresa ed Enti pubblici preposti, che dunque assicuri per un tempo congruo, sia il salario/stipendio sia l’impegno formativo, se davvero non si vuole piu lasciare il lavoratore nella solitudine della disoccupazione e nell’affanno della ricerca solo individuale o tra tanti Enti, di altre effettive opportunità.

Non si tratta di chimere: esiste già da tempo l’esempio del “ Kurz Arbeit “ tedesco, il “lavoro breve”, cioè con orario ridotto, con salari e stipendi compensati dall’intervento pubblico, esplicitamente rivolto ad evitare riduzioni di organico, consolidato durante il lockdown; così come sul modello tedesco di intervento nei processi di ristrutturazione d’azienda è stato pensato l’altro Fondo europeo “Sure”, che quindi l’Italia non dovrebbe utilizzare solo per finanziare le attuali casse integrazioni.

Questa del resto è la via dei contratti di solidarietà, sostenuta giustamente da Cgil, Cisl e Uil, che però lasciata solo alla contrattazione, è rimasta e resterebbe, se pure irrobustita con qualche incentivo in più, circoscritta ai casi delle migliori possibilità e di maggior forza. Si tratta peraltro di soluzioni del tutto sostenibili anche in punta di diritto: è stato già argomentato da autorevoli giuslavoristi, che una finalità di “prevenzione delle riduzioni d’organico”, è in effetti presente e fondante nel principio giuridico dell’attuale intervento pubblico con le “Casse Integrazioni”. Dunque potrebbe essere così riargomentata anche una riforma della legge 223/93, che disciplina ancora i licenziamenti collettivi, affermando che “il datore di lavoro deve esperire l’uso degli istituti alternativi ai licenziamenti o dimostrarne l’inattuabilità”.

La Riforma poi deve introdurre veramente Istituti eguali per tutti i lavoratori, quindi assorbendo sia pure progressivamente anche i tanti “Fondi bilaterali”, succedanei ridotti di cassa integrazione e d’altra parte facendo diventare compiutamente Istituto generale l’attuale indennità̀di disoccupazione, invece che introdurre altre diverse previdenze: allargandola in forme congrue alle interruzioni del lavoro parasubordinato o autonomo o a tempo determinato, ed estendendola a disoccupati di più lungo termine e inoccupati in cerca di lavoro, proprio per contrastare il fenomeno, invece in questi mesi cresciuto, dell’abbandono e dell’inabissamento .

Appare anche opportuno, per consolidare, riformandolo, connettere lo stesso Reddito di Cittadinanza a tale Indennità invece che farlo arretrare a causa degli insuccessi per l’ avviamento al lavoro, a Sussidio di povertà, finendo per rinunciare all’intervento, come integrazione a redditi parziali e insufficienti rispetto ad una soglia minima, in tutto il variegato mondo del lavoro semi o del tutto irregolare, che invece il reddito di cittadinanza ha colto. Per tutti i percettori di tale Indennità dovrebbero essere previsti infine opportunità e obblighi condizionali di formazione ben più efficaci di qualsivoglia attività ispettiva.

Infine anche da queste necessità di una Riforma riunificante di tutti gli istituti di protezione sociale dalla disoccupazione, appare opportuna una soluzione legislativa che dia corpo al principio costituzionale del diritto “all’”esistenza dignitosa” dell’Art.36 nella forma di un minimo vitale concretizzato in una soglia di reddito minimo, che possa essere assunto come riferimento unificato delle diverse previdenze sociali oggi ancora incomprensibilmente diversificate.
Si tratta, in definitiva di passare da una forma di protezione su base assicurativa, differenziata per quante sono le situazioni, che lascia scoperto il lavoro più fragile e marginale, ad una forma di protezione su base fiscale, valida per tutte le forme di lavoro, salariato e autonomo. Una forma di protezione uguale per tutti.

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Giappone. La ricorrenza è l'occasione per esercitare la più forte pressione sul governo perché firmi e ratifichi il Trattato di Proibizione delle armi nucleari in vigore dal 22 gennaio 2021

Hiroshima, agosto 2021

Il 6 agosto di 76 anni fa alle 8,15 del mattino la prima bomba atomica sul Giappone inceneriva all’istante la città di Hiroshima e 140 mila dei suoi abitanti, 3 giorni dopo la stessa sorte toccò a Nagasaki (un totale di più di 300 mila vittime, per le conseguenze successive). Poi ebbe inizio la guerra fredda con la folle corsa agli armamenti, che portò gli arsenali nucleari di Usa e Urss verso il 1985 al numero demenziale di 70.000 testate.

Anche se non vi è stata una guerra nucleare (a dispetto di numerosi falsi allarmi sventati solo dal sangue freddo di alcuni ufficiali), ben 2056 test nucleari (dei quali 516 in atmosfera) hanno provocato una scia di malattie tumorali (la compianta scienziata Rosale Bertell valutò più di un miliardo di vittime dirette o indirette dell’Era nucleare) e danni incalcolabili all’ambiente: recentemente si moltiplicano richieste di risarcimenti dalle popolazioni vittime dei test nel Pacifico e nel Sahara. Senza contare i minatori delle miniere di uranio, tutti appartenenti a popolazioni emarginate o povere, i quali hanno contratto un numero enorme tumori ai polmoni (il popolo Navajo ha proclamato il giorno del ricordo e dell’azione il 16 luglio, data del Trinity Test).

Oggi di fronte all’insostenibile aggravamento della crisi climatica, e con l’occasione della pioggia di miliardi per risollevarsi dalle conseguenze della pandemia, si invoca ovunque una 

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