Il segretario generale della Cgil in un'intervista a Repubblica parla della morte del giovane sindacalista Adil Belakhdim e della situazione del lavoro in Italia: "Domina lo sfruttamento del lavoro, la precarietà del lavoro, l'insicurezza del lavoro. Una sequenza di leggi ha portato al punto in cui ci troviamo. Il governo ci convochi e faccia ripartire il dialogo sociale"
In Italia “si è passati dalla tutela del lavoro al disprezzo del lavoro” e “così si mette a rischio anche la tenuta della democrazia“. Il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, usa toni duri per denunciare l’attuale situazione lavorativa e sociale, ribadendo al governo la necessità di cambiare “leggi balorde” e di ascoltare le richieste dei sindacati, a partire dalla piazza del 26 giugno che chiederà la proroga del blocco dei licenziamenti. Landini, intervistato da Repubblica, parte ovviamente dalla morte del giovane sindacalista Adil Belakhdim e dalla “guerra della logistica”. Di picchetti, “anche molto duri, ne ho fatti tanti nella mia vita sindacale”, racconta il leader Cgil, ma “mai e poi mai ho visto un camionista forzare un picchetto, travolgere i lavoratori fino ad ucciderne uno. Mai ho assistito a qualcosa di simile“.
È raro vedere a fine giugno una mobilitazione sindacale: evidentemente la situazione è davvero grave, e non solo per il braccio di ferro sul blocco dei licenziamenti
Il tono trionfalistico con cui il segretario del Pd ha commentato l’esito delle primarie non fa presagire nulla di buono, semmai indica la distanza che lo separa dalla realtà del paese. Come dimostra il fatto che i tre sindacati, Cgil, Cisl e Uil, siano costretti adesso a scendere in piazza per manifestare contro un governo nel quale il primo azionista (politico) è il Pd.
Sembra un paradosso, in realtà non lo è, perché se nasce una coalizione formata da Pd, 5S, Art.1, Italia Viva, Lega e Forza Italia, si fatica persino a sperare che lo sguardo sia rivolto verso chi vive solo del proprio lavoro. Gli interessi preminenti e dominanti sono invece altri.
Molti considerano Mario Draghi una specie di taumaturgo capace di traghettarci fuori dal disastro economico-sociale aggravato dalla tragedia della pandemia. Di sicuro si tratta di una persona preparata, capace di scelte economiche espansive e drastiche (come ha dimostrato nel corso degli ultimi anni in cui ha guidato la Bce). Tuttavia la sua è una storia tutta interna al capitalismo e certamente il lavoro non è la sua barra perché a indicargli la rotta sono gli investimenti, gli interessi, il Pil, il rating nazionale, le aziende (che infatti gli esprimono un alto gradimento, inversamente proporzionale all’opposizione riservata al governo Conte).
Non si può chiedere a chi ha nel suo Dna una formazione, un’esperienza, una credibilità apprezzata dalle banche e nel concerto internazionale, di stravolgere la propria immagine, indossando la tuta da lavoro. Semmai questa ipotetica tuta dovrebbe indossarla il Partito democratico, che, viceversa, appare sempre più coinvolto nelle logiche di potere che stravolgono chi è abituato a stare da troppo tempo nelle stanze dei bottoni, dove conta soltanto la capacità di decidere, influenzare. E di vincere (sempre meno) la battaglia del potere.
Il lavoro è, dovrebbe essere, comunque la chiave di volta politica, sociale, economica, perfino culturale di un partito che dice di difendere questo mondo. Però così non è.
Altrimenti Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, non direbbe che “ora domina lo sfruttamento, la precarietà l’insicurezza del lavoro…il tempo di vita e di lavoro viene piegato al mercato e al profitto. Questa assenza di vincoli sociali mette a rischio la tenuta democratica di un Paese”. Perciò la Cgil, insieme a Cisl e Uil, manifesterà sabato prossimo in tre città, Torino, Firenze e Bari, per un appuntamento che, seppure non richiamerà grandi numeri, può diventare un segnale importante.
È raro vedere a fine giugno una mobilitazione sindacale: evidentemente la situazione è davvero grave, e non solo per il braccio di ferro sul blocco dei licenziamenti. Per quanto il presidente del consiglio, nel corso dei suoi incontri europei di questi giorni, insista sul tasto della coesione sociale, nulla sembra rendere concreta questa ripetuta evocazione.
Tuttavia la mobilitazione sindacale di sabato può funzionare da spartiacque per il futuro dello stesso governo, dal momento che Pd e Art.1 sanno bene che è in gioco non solo la loro credibilità, bensì il significato stesso della loro presenza dentro questo anomalo governo. Bloccare i licenziamenti non è dunque solo un atto dovuto, dopo un anno e mezzo di paralisi da Pandemia, ma un messaggio a quell’Italia che si riconosce nel principio fondativo della Costituzione, a quella parte del paese che crede nella centralità e nella tutela del lavoro, un principio-cardine messo in discussione dal ventennio berlusconiano (che considerava la Costituzione una cartaccia comunista), in poi.
Un’appartenenza e una identità che, è bene ricordarlo, non ha nulla di ideologico. Anzi. Perché riguarda la sopravvivenza di milioni di persone (ridotte in povertà pur lavorando), perché coinvolge la vita sociale, protegge i diritti della maggioranza dei cittadini, alimenta l’economia di un Paese. Difficile capire come possano, le forze democratiche, progressiste, di sinistra, non rendersi conto che difendendo il lavoro, difendono anche la loro incerta sopravvivenza.à
Le giaculatorie della Lega con le ricorrenti richieste di pene più severe e di trattamenti penali più afflittivi e di riduzione delle garanzie giudiziarie sono rivolte esclusivamente nei confronti dei soggetti deboli (immigrati, rom, clochard). Ad esse fa da contrappeso una accanita resistenza quando l’azione giudiziaria lambisce i colletti bianchi o il ceto politico.
Con il deposito dei quesiti in Cassazione è iniziato il percorso dei sei referendum sulla giustizia promossi dal partito radicale e dalla Lega. Ci si potrebbe stupire di una iniziativa congiunta da parte di forze politiche che esprimono opzioni politico-culturali profondamente differenti sui temi della giustizia e dei diritti dei cittadini; opzioni che secondo un linguaggio corrente, vengono qualificate con le espressioni contrapposte di giustizialismo/garantismo. Si tratta di qualificazioni tanto imprecise quanto scorrette.
In realtà il c.d. “giustizialismo” della Lega (e di Fratelli d’Italia) e il c.d. “garantismo” coltivato dai radicali (e da Forza Italia) sono due facce della stessa medaglia. Le giaculatorie della Lega con le ricorrenti richieste di pene più severe e di trattamenti penali più afflittivi e di riduzione delle garanzie giudiziarie, sono rivolte esclusivamente nei confronti dei soggetti deboli (immigrati, rom, clochard), ad esse fa da contrappeso una accanita resistenza quando l’azione giudiziaria lambisce i colletti bianchi o il ceto politico. Per converso l’esasperazione dei radicali per le garanzie procedurali lascia trasparire una forte diffidenza per l’esercizio della giurisdizione.
Queste due culture politiche sono convergenti nell’esigenza di “addomesticare” l’esercizio della giurisdizione per superare lo scandalo del “potere diviso”, cioè quello snodo insuperabile di pluralismo istituzionale rappresentato dal sistema di indipendenza del potere giudiziario che, secondo il disegno costituzionale, non può essere assoggettato né condizionato dall’esercizio dei poteri politici di governo, né da nessun altro potere. A ben vedere si tratta di un’esigenza diffusamente condivisa. Nel suo libro “Magistrati” pubblicato nel 2009, Luciano Violante richiama la concezione della magistratura formulata quattro secoli prima dal filosofo inglese Francis Bacon, secondo il quale: «I giudici devono essere leoni, ma leoni sotto il trono». In altre parole l’esercizio della funzione giudiziaria deve essere compatibilizzato con l’esercizio del potere politico sovrano.
Non v’è dubbio che il modello di giudice, leone sotto il trono, è quello preferito dal sistema politico. I leoni sotto il trono sono feroci verso chi è sgradito al Sovrano: l’esempio è quello di un PM siciliano che sequestrò una nave di una ONG, contestando al capitano la fantastica accusa di violenza privata nei confronti del Governo italiano per averlo “costretto” ad accettare lo sbarco dei migranti salvati nel Mediterraneo. All’occorrenza questi leoni si trasformano in cagnolini quando si trovano di fronte agli abusi del Sovrano: l’esempio è quello di un altro magistrato siciliano che, a fronte della condotta di un politico che – secondo il Tribunale dei Ministri – integrava astrattamente gli estremi del reato di sequestro di persona, ha disposto l’archiviazione, invocando – a contrario – la separazione dei poteri. Certamente al leone sotto il trono non verrà mai in mente di mordere la mano del padrone. Come si fa a far rientrare i leoni sotto il trono? La risposta ce la danno i sei quesiti per i quali è stato richiesto il referendum.
Ci sarà tempo per esaminare nello specifico ciascun quesito e per valutarne l’ammissibilità sotto il profilo costituzionale. Quello che vogliamo rilevare in questa sede è che tutti e sei i quesiti sono convergenti verso lo stesso risultato attraverso gli obiettivi:
di indebolire l’indipendenza di ciascun magistrato (quesito sulla responsabilità civile diretta);
di manipolare l’esercizio dell’azione penale, creando le condizioni per sottoporre il PM al potere politico (quesito sulla separazione delle carriere);
di restringere la possibilità di coercizione penale nei confronti dei colletti bianchi (quesito sulla custodia cautelare);
di garantire “l’agibilità politica” delle istituzioni da parte del ceto politico-amministrativo che incorra in condanne penali (quesito sull’abrogazione della legge Severino);
di complicare la vita al Consiglio Superiore della Magistratura (quesito sulla abolizione della raccolta firme per la presentazione delle candidature);
di manipolare le carriere dei magistrati (quesito sui Consigli Giudiziari).
In una situazione in cui si registra una forte crisi di credibilità della magistratura, dovuta a scandali vari, ampiamente valorizzati dai media, questo potrebbe essere il momento giusto per assestare un colpo mortale al progetto costituzionale, che ha voluto un giudice indipendente a garanzia dei diritti fondamentali dei cittadini, operando una virata verso un sistema autoritario in cui le autorità di governo controllino l’esercizio della giurisdizione, secondo il modello Lukashenko. Quando questo progetto sarà compiuto, forse ci sarà ancora un giudice a Berlino (come invocato dal mugnaio di Potsdam) ma certamente non ci sarà più un giudice a Roma o a Milano capace di difendere i nostri diritti contro gli abusi dei potenti.
Probabilmente ha ragione chi le ritiene un rito stanco, ripetitivo, senza passione. E forse ha ragione anche chi cerca di trasformarle in un momento di confronto e di incontro, magari attraverso la musica in piazza.
Ma il rischio di un fiasco delle primarie è concreto, reale, come ha dimostrato la scarsa partecipazione a quelle del Pd a Torino. E a Roma, dove vengono presentati più nomi di “area Pd”, quindi non strettamente di partito, hanno così paura del fallimento, da fissare una soglia minima di votanti (almeno 50 mila).
Il timore di non centrare l’obiettivo è alto e spiega la mossa dell’apertura delle urne telematiche, molto complicate per chi ha scarsa dimestichezza con il web.
In ogni caso sembrano davvero lontani i tempi in cui le primarie marcavano una vasta presenza di popolo, quando chi andava a votare aveva almeno la sensazione di contribuire alla scelta del candidato sindaco.
Ma appunto era una sensazione: i nomi venivano comunque calati dall’alto della segreteria del partito. Tuttavia il decisionismo centralizzato, era compensato da un’ampia partecipazione, ancora a sei cifre, che avvalorava il significato dell’iniziativa.
Riforme. Le modifiche sulla tutela ambientale agli articoli 9 e 41 approvate in senato sono troppo generiche e possono perfino imbrigliare la forza propulsiva della Carta
Toscana
Si vuole introdurre in Costituzione un’esplicita previsione di tutela ambientale. Ci si interroga però sulla reale forza innovatrice di una simile revisione. Sarebbe, infatti, un errore cambiare la Costituzione perché nulla cambi.
La sfida riguarda allora il «modello di sviluppo»: detto in sintesi, passare da un’idea di sviluppo basato sul primato economico-finanziario, a quella di uno sviluppo ecosostenibile come priorità. Un vero e proprio cambiamento di paradigma.
Per conseguire quest’obbiettivo non basta inscrivere in Costituzione un generico «diritto all’ambiente», è anche necessario affermare uno specifico dovere di rispettare l’ecosistema da parte di tutti i soggetti dell’ordinamento giuridico, siano essi pubblici ovvero privati. Chiediamoci allora se il disegno di legge approvato dal Senato risponde – in tutto o in parte – a questa prospettiva di radicale rovesciamento.
Le modifiche proposte coinvolgono due articoli. Si aggiunge la tutela ambientale a quella del paesaggio (art. 9); si pongono l’ambiente e la salute tra i limiti espressi all’attività economica dei privati, assegnando inoltre alle leggi il compito di indirizzare e coordinare l’attività economica pubblica e privata a fini ambientali, oltre che sociali (art. 41).
La prima modifica (l’aggiunta della tutela ambientale a quella del paesaggio) non cambia granché, si limita infatti a recepire un principio di fatto già presente nel nostro ordinamento giuridico. La normativa in materia ambientale, ma anche un’ampia giurisprudenza ordinaria, costituzionale e sovranazionale, hanno da tempo affermato l’esistenza di un diritto soggettivo all’ambiente.
Non sempre però questo diritto riesce ad affermarsi e a prevalere su altri diritti, quelli d’ordine economico e sociale in particolare.
Ecco perché sarebbe necessario – se si vuole realmente cambiare modello di sviluppo – aggiungere un comma di chiusura del seguente tenore: «È compito della Repubblica promuovere lo sviluppo ecologico e ambientale anche in ambito sociale ed economico e realizzare le condizioni necessarie a rendere effettivo tale diritto».
Nulla di più, perché in Costituzione si scrivono principi e non regole; ma anche nulla di meno, perché i principi costituzionali devono avere una propria forza prescrittiva che si impone alla legislazione ordinaria e alle decisioni dei giudici.
Qualora tra i principi fondamentali della Costituzione si dovesse affermare una esplicita «superiorità in grado» dell’ambiente rispetto alle libere dinamiche sociali ed economiche diventerebbe poi difficile adottare una normativa a scapito dell’equilibrio eco- ambientale.
Si verrebbe, infatti, a modificare il bilanciamento tra diritti, sicché le norme che non dovessero rispettare l’ambiente sarebbero, nella gran parte dei casi, suscettibili di essere dichiarate illegittime.
È noto in effetti che il sacrificio del bene ambientale non avviene normalmente in sé (non si inquina tanto per inquinare) ma per favorire altri interessi. È quando il diritto all’ambiente si scontra con altri diritti anch’essi costituzionalmente protetti – come quello d’iniziativa economica ovvero quello al lavoro – che la tutela ambientale ha spesso la peggio, soccombendo nell’opera di bilanciamento che viene effettuata prima dal legislatore in sede politica, poi dalla Corte costituzionale in sede di sindacato di legittimità.
Il caso più noto è quello dell’Ilva, ma in molti altri casi si sono giustificare produzioni altamente inquinati, si è ammessa la prosecuzione di incentivi per attività nocive alla salute e all’ambiente, non si è ostacolato l’inizio di attività prive di verifiche preventive di compatibilità o contrarie ai principi di precauzione, in nome di diritti e interessi che si ritiene di dover tutelare anche se questi si pongono in conflitto con l’ambiente.
L’Ilva di Taranto nel 2012, foto Ap
Lo scopo della riforma dovrebbe essere quello di impedire tutto ciò, stabilire un diverso equilibrio rafforzando nel bilanciamento il valore della tutela ambientale, cambiare le priorità e indicare – in questo modo – un diverso «modello di sviluppo» rispetto all’attuale.
Se fosse la Costituzione direttamente a prescrivere una tutela privilegiata dell’ecosistema che debba imporsi anche in ambito economico e sociale, la Corte, e prima ancora il legislatore, non potrebbero più disattendere le istanze ambientali.
Non potrebbe più, ad esempio, il nostro giudice di costituzionalità affermare che «tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile, pertanto, individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri». È stato così che la Consulta ebbe a motivare la propria decisione nel caso dell’Ilva (sent. n. 85 del 2013), legittimando la prosecuzione dell’attività inquinante dello stabilimento di Taranto.
La modifica proposta all’articolo 9 rafforzerebbe e chiarirebbe altresì la portata delle integrazioni che si vogliono introdurre all’articolo 41. In questo caso – s’è detto – si vuole aggiungere l’ambiente e la salute tra i limiti espressi all’attività economica privata, nonché indirizzare tale attività (anche quella pubblica) a perseguire finalità «sociali e ambientali».
Sono modifiche tutt’altro che secondarie. Il vero rischio è che non siano assunte nella loro piena forza normativa, come spesso capita ai principi costituzionali che rimangono inattuati ovvero come accade a prescrizioni pur puntuali che però vengono interpretate minus quam valeat. Un’esplicita indicazione sul primato dello sviluppo eco-ambientale (e non solo – come va invece di moda – genericamente «sostenibile») posta tra i principi fondamentali della Costituzione, fornirebbe una solida «copertura» alla interpretazione magis ut valeat dell’ambiente come limite e come indirizzo all’attività economica privata e pubblica così come indicato nell’ipotesi di modifica dell’articolo 41 della nostra Costituzione.
La «rivoluzione green» di cui tutti parlano comincerebbe allora a passare dalle parole ai fatti, iniziando dalla forza propulsiva della Costituzione. Questo Parlamento è in grado di assumere una così impegnata prospettiva?
Logistica. È un anticipo di come questi padroni intendono la “ripartenza” e interpretano la fine del blocco dei licenziamenti. Draghi, se vuole la luce, farebbe bene ad accenderla in casa propria
La logistica si sta rivelando ogni giorno di più come il vero cuore nero del capitalismo italiano. Il punto di snodo delle linee strategiche del modello produttivo dominato dalle grandi piattaforme, quello dove con maggiore intensità si scaricano i processi di accelerazione in corso e, di conseguenza, si esasperano i livelli dello sfruttamento e le tensioni nel rapporto capitale-lavoro.
La morte atroce di Adil Belakhdim davanti ai cancelli della Lidl di Biandrate ne è una terribile conferma. Riproduce il profilo della più classica conflittualità sindacale in tempi d’imbarbarimento dell’agire padronale, quando si arriva a toccare la nuda vita, e a toglierla, in un contesto nel quale la logica del profitto mostra di non rispettare più nulla, né leggi dello Stato (di uno Stato che ha abdicato alla propria sia pur formale imparzialità) né della decenza.
Adil era il coordinatore novarese del Si Cobas, sindacato radicatissimo nel comparto ma spesso ignorato o marginalizzato ai tavoli negoziali, aveva 37 anni, due figli, e la dignità di chi non abdica ai propri diritti. Ora sappiamo che il presidente del Consiglio Draghi chiede di “fare piena luce”. E ci domandiamo: “su cosa?”. Basterebbe una sia pur fuggevole occhiata ai fatti, di oggi e delle settimane passate, per capire.
Qualche giorno fa a Tavazzano, vicino a Lodi, l’aggressione a un altro picchetto dei lavoratori Si Cobas da parte di energumeni sul modello tardo ottocentesco dei Pinkerton americani, a terra numerosi lavoratori, uno in gravi condizioni. E prima ancora, gli scontri a San Giuliano Milanese, sempre in quel triangolo incandescente della logistica che sta tra lodigiano, cremonese, piacentino – punto d’incrocio dei grandi assi autostradali su cui viaggiano, ininterrotti i flussi di merci – dove il nuovo far west del lavoro mette in scena il proprio mucchio selvaggio.
All’origine di tutto l’iniziativa della FedEx TNT, gigante della trasportistica globale – circa 400.000 collaboratori, 160.000 veicoli, 657 aerei, 22,4 miliardi di dollari di fatturato – grande beneficiata dalla pandemia, che fin da febbraio ha deciso di chiudere il proprio hub piacentino, dove i Cobas erano maggioritari, lasciando a casa centinaia di lavoratori e distribuendo le proprie sedi logistiche nei capannoni lodigiani e milanesi, dove appunto i licenziati hanno inseguito il proprio lavoro disperso e sono stati accolti a sprangate.
È un anticipo di come questi padroni intendono la “ripartenza” e interpretano la fine del blocco dei licenziamenti. Draghi, se vuole la luce, farebbe bene ad accenderla in casa propria. Ma questa storia non parla solo dell’imbarbarimento padronale. Parla anche di un fallimento storico del sindacato confederale. Del buco nero che il suo abbandono dei canoni più propri del sindacalismo classico ha lasciato scoperto.
Della sua incapacità di tutelare le fasce più sfruttate (spesso composte da lavoratori migranti, i più vulnerabili). Della sua pervicace volontà di tagliare fuori le rappresentanze di base dalle trattative. Talvolta della sua, reale o apparente, connivenza con una controparte che non sanno, o non vogliono, contrastare come si dovrebbe.
Non si deve dimenticare che lo sciopero per cui Adil è morto si svolgeva nel quadro della giornata nazionale di mobilitazione della logistica proclamata da tutto il sindacalismo di base contro gli episodi di “squadrismo padronale” ma anche contro il contratto nazionale di lavoro di recente siglato dai Confederali e considerato, appunto, collusivo. Così come fa male, a chi ha conosciuto la Cgil in altri tempi, sapere che l’intervento della polizia contro i picchetti dei lavoratori della FedEx TNT di Piacenza che all’inizio di aprile protestavano contro la chiusura, era stato richiesto da esponenti della Camera del lavoro locale, che infatti nei giorni successivi era stata circondata in segno di protesta da centinaia di lavoratori disgustati.
Spettacolo che dovrebbe far riflettere i tanti che ancora in Cgil credono nella propria storia, e che a me personalmente ha ricordato il luglio del’62 a Torino, quando migliaia di operai Fiat assediarono la sede della Uil, rea di aver firmato un contratto separato con Valletta. E fu, quello, l’inizio del poderose ciclo di riscossa operaia che sarebbe culminato con l’autunno caldo.