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15 dicembre 1969. C’è stato un tempo in cui un ex partigiano come Giuseppe Pinelli poteva piombare giù dal quarto piano di una questura della Repubblica e vedersi calunniato anche da morto, accusato di essersi suicidato perché colpevole «il gesto -dichiarò Guida ai giornalisti- potrebbe equivalere ad un confessione»

 

C’è stato un tempo in cui Marcello Guida, ex direttore fascista della colonia di confino di Ventotene, dirigeva la questura di Milano. In quegli uffici Guida trattenne illegalmente quello che nel 1944-45 era stato un giovane partigiano, Giuseppe Pinelli.

La guerra era finita da quasi 25 anni, ma l’ultima azione di resistenza fu compiuta da Pinelli proprio nella questura di Guida la notte del 15 dicembre 1969 quando morì precipitando dalla finestra della stanza del commissario Luigi Calabresi che lo interrogava illegalmente, con i suoi uomini, nonostante i termini del fermo di polizia fossero largamente scaduti e fosse suo diritto tornare libero a casa.

Al ferroviere anarchico i poliziotti volevano imporre un cedimento ovvero strappargli l’ammissione di una colpa inesistente: quella di essere responsabile, lui ed i suoi compagni, della strage di Piazza Fontana realizzata tre giorni prima dai neofascisti di Ordine Nuovo coadiuvati da uomini degli apparati di sicurezza e dei servizi segreti dello Stato.

I poliziotti compirono un reato contro Pinelli (il fermo illegale) e gli mentirono durante l’interrogatorio con l’espediente del «saltafosso» (dicendogli che un altro anarchico da lui conosciuto, Pietro Valpreda, aveva confessato l’esecuzione del massacro).

Pinelli si oppose e con la sua resistenza rese vani gli intenti di chi si era proposto non solo di incastrare lui ed i suoi compagni ma di scrivere una storia diversa del Paese con la strage del 12 dicembre 1969 attraverso un’operazione paramilitare contro civili inermi in tempo di pace; non rivendicata dagli esecutori materiali; realizzata con l’obiettivo di attribuire la responsabilità all’avversario politico (la sinistra politica e sindacale, parlamentare ed extraparlamentare) e finalizzata a provocare una reazione psicologica presso l’opinione pubblica per favorire un’involuzione autoritaria del nostro sistema costituzionale.

Erano gli anni, ha scritto Silvio Lanaro, in cui «il lealismo istituzionale» delle forze armate, delle classi proprietarie e delle forze politiche conservatrici «non riesce a reggere i socialisti al governo e i comunisti al 25% dei voti», anni in cui, affermerà il generale Mario Arpino in commissione stragi «per noi militari un terzo del Parlamento era il nemico». Per questo fu possibile che uomini dello Stato sostenessero e coprissero gli autori e depistassero le indagini rendendosi «doppiamente colpevoli», come ha affermato il Presidente della Repubblica Stato Sergio Mattarella nel 50° anniversario, poiché «Non si serve lo Stato se non si serve la Repubblica e, con essa, la democrazia».

C’è stato un tempo in cui un ex partigiano come Giuseppe Pinelli poteva piombare giù dal quarto piano di una questura della Repubblica e vedersi calunniato anche da morto, accusato di essersi suicidato perché colpevole «il gesto -dichiarò Guida ai giornalisti- potrebbe equivalere ad un confessione».

La magistratura derubricherà come «malore attivo» la causa del volo nel vuoto del ferroviere e tale versione sarà incisa come verità ufficiale anche sulla targa collocata dal Comune di Milano in piazza Fontana che ricorda, con pudore omissivo, che Pinelli è «morto tragicamente». Accanto ad essa una stele rappresenta, invece, una memoria storica «altra» e reale della Milano democratica e antifascista. Lì si ricorda che Pinelli è stato «ucciso innocente».

C’è stato un tempo, infine, in cui il Parlamento, con voto quasi unanime, scelse di bocciare la mozione che proponeva il 12 dicembre come giornata in ricordo delle vittime del terrorismo e di votare al suo posto il 9 maggio (giorno del ritrovamento del corpo di Aldo Moro in via Caetani a Roma). Una preferenza tanto politicamente «logica» per lo Stato quanto storicamente discutibile.

La Repubblica ha scelto di rappresentare quegli anni attraverso una narrazione autoassolutoria che racconta l’azione di un agente esterno alle istituzioni, le Brigate Rosse, che porta l’attacco al cuore dello Stato, omettendo al Paese il fatto che il fenomeno del terrorismo in Italia sia nato, molti anni prima, proprio da quel cuore. Questo Pinelli aveva capito, quella notte in quella questura. E dopo mezzo secolo, anche grazie a lui, lo sappiamo anche noi.

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Ambiente. La protesta di fronte alla Regione Emilia Romagna contro il progetto Eni a Ravenna

I cartelli davanti alla sede della Regione Emilia Romagna

 

«L’anidride carbonica non si mette sotto al tappeto, semplicemente bisogna smettere di produrla». Lo hanno detto forte e chiaro sotto all’ufficio di Stefano Bonaccini a Bologna gli attivisti della neonata Rete per l’emergenza climatica e ambientale dell’Emilia Romagna.

Di fronte ai palazzi della Regione si sono ritrovati ambientalisti, militanti di centri sociali, di ong e di associazioni come Greenpeace e Legambiente. La richiesta è semplice: l’Emilia-Romagna del presidente Bonaccini e della vicepresidente Elly Schlein deve dire chiaramente di non considerare compatibile con la svolta ecologica – promessa e sbandierata durante la campagna elettorale contro la Lega di Salvini – il progetto di Eni per creare a Ravenna il più grande centro al mondo di stoccaggio di anidride carbonica.

La tecnologia è la cosiddetta Ccs, la carbon capture and storage. Un sistema che punta a catturare il gas inquinante prima che esca dai camini degli impianti inquinanti di Enel, a incanalarlo in tubi, a portarlo fino a piattaforme destinate altrimenti ad una futura dismissione al largo della costa di Ravenna, e infine spararlo a 3 mila metri sotto il livello del suolo, in ex giacimenti di gas ormai esausti. Un «trucco», «un’operazione di greenwashing che evita ad Eni di passare alle energie rinnovabili come eolico o fotovoltaico», dicono gli attivisti che pongono un problema un più, quello delle risorse pubbliche.

Eni vorrebbe finanziare il Ccs di Ravenna accedendo tra l’altro ai fondi di quel Next Generation Eu che invece dovrebbero dare il via ad una vera transizione green. In linea quindi con gli obiettivi europei fissati giusto poche ore prima della manifestazione di ieri, e che prevedono una riduzione del 55% delle emissioni entro il 2030.

Per ora il progetto di Ravenna è stato però abbracciato pubblicamente dal presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, che ne ha festeggiato l’annuncio definendolo un esempio di «economia circolare, sviluppo e innovazione». I manifestanti hanno anche lanciato un appello pubblico contro il Ccs (qui il link), a firmare tra gli altri Friday For Future, la Campagna per il clima fuori dal fossile, i No Tap, il Forum Italiano Movimenti per l’acqua, i Medici per l’ambiente, i centri sociali bolognesi Tpo e Làbas e la rete Re:Common.

«Il progetto di Eni non ha niente di sostenibile – ha spiegato la consigliera regionale dei Verdi Silvia Zamboni – Finanziarlo con i fondi europei sarebbe una beffa per chi chiede sostenibilità vera e investimenti nelle energie rinnovabili e pulite». A esprimere «preoccupazione per un progetto che non ci piace» anche Igor Taruffi, capogruppo in Regione per Emilia-Romagna Coraggiosa, l’ala sinistra della coalizione di governo che ora prova a chiedere al Pd e a Bonaccini di «ridiscutere in modo radicale le politiche energetiche e ambientali».

Quella di ieri sotto il palazzo della giunta Bonaccini è stata però anche un chiaro segno di distanza tra movimenti e istituzioni regionali. «Ci saremo aspettati che ai grandi annunci seguissero i fatti, ma non è così», ha detto ad esempio Detjon Begaj, uno degli attivisti della rete. All’orizzonte c’è l’imminente presentazione del «Patto per il Lavoro e per il Clima», un documento che segnerà gli obiettivi della Regione per i prossimi anni. «Avremo la possibilità inedita di poter decidere assieme dove e come invenstire», ha detto ad agosto Bonaccini. Il rischio ora è che Bonaccini perda l’appoggio della maggior parte del fronte ambientalista. «Di quel che abbiamo chiesto, nulla di concreto è stato ad oggi recepito», hanno spiegato i manifestanti.

 
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Transizione energetica sì, ma sempre ancorati alla realtà del lavoro - 

Sindacato/Ambiente. Non accettiamo l’idea di una discussione sulla pelle dei lavoratori a colpi di ammortizzatori sociali: il Paese non è pronto né tecnologicamente né industrialmente. Alla “decrescita felice” fine a sé stessa, noi preferiamo la realtà dell’azione sindacale e contrattuale che punta allo sviluppo e alla redistribuzione equa dei profitti.

Un’opera di Friedensreich Hundertwasser

Siamo molto dispiaciuti di aver generato sconcerto alle autrici della Lettera aperta ai compagni della Cgil - Luciana Castellina *, Rossella Muroni ** pubblicata dal manifesto il giorno 4 dicembre. Tuttavia, se generare sconcerto si dimostrasse utile ad aprire una discussione sui temi della transizione energetica abbandonando le emotività e le ideologie e partendo dalla realtà delle condizioni del nostro Paese, siamo pronti a confrontarci. Le accuse che vengono fatte alla nostra categoria sono ingiuste, sbagliate, ingenerose e dimostrano una scarsa conoscenza della storia del sindacato dei chimici e dell’energia, che sono categorie della Cgil, è bene sottolinearlo, visto il malizioso tentativo di etichettarci come qualcosa d’altro.

Raccontare la storia del sindacato dei chimici della Cgil degli ultimi cinquanta anni significherebbe raccontare una storia di successi per la tutela della salute e dell’ambiente, dagli scioperi del 1976 dopo Seveso, alle commissioni ambiente riconosciute nel Ccnl, alla transizione dal nucleare, alle lotte quotidiane nelle aziende e contro le aziende per rivendicare gli investimenti per una maggiore sostenibilità ambientale delle produzioni.

Abbiamo scritto nel documento che condividiamo tutti gli obiettivi del Green New Deal perché noi siamo interessati a lasciare alle future generazioni un pianeta migliore di quello che abbiamo ricevuto in eredità. Ci battiamo ogni giorno per questo e contemporaneamente non ci dimentichiamo mai di essere un sindacato che difende il lavoro: il poco che c’è e quello che ci sarà. Per questo abbiamo insistito sul significato di “giusta transizione”, Just Transition, che deve essere sostenibile sul versante industriale e socialmente accettabile. Non siamo contro “il cambiamento” ma siamo per governare e accelerare “il cambiamento”.

La transizione energetica deve essere parte importante di un disegno complessivo di politica industriale che il paese in questo momento non ha. Non accettiamo l’idea che questa discussione possa essere fatta sulla pelle dei lavoratori a colpi di ammortizzatori sociali perché il Paese non è pronto né tecnologicamente né industrialmente. Questo non è il luogo, ma siamo pronti a fornire riferimenti scientifici solidi riguardo alle proposte che avanziamo, abbiamo migliaia di ingegneri e tecnici, iscritti alla Cgil, pronti a confrontarsi con chiunque lo desideri.

Come si fa a scrivere che uno dei problemi più grandi del nostro Paese è quello della “dipendenza energetica” e tacere

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Politica. In questo folle giro di giostra, c’è una forza politica più fuori controllo e preoccupante, ed è il M5Stelle attraversato da una fronda interna implacabile

Il premier Conte e il ministro degli Esteri Di Maio

 

Stiamo affrontando una pandemia terribile, ogni giorno contiamo centinaia di morti, milioni di persone sono in gravi difficoltà economiche, stanno per arrivare i miliardi del piano europeo, e, in questa situazione, si parla di crisi di governo. Se ci mettiamo nei panni di un comune cittadino, l’impazzimento della giostra politica rasenta la follia.

Ma il buon senso, lo dicono l’esperienza e la storia del nostro Paese, non sempre cammina di pari passo con la politica. Soprattutto di quella che ha in mano le sorti nazionali e quindi maggiori responsabilità per quello che potrebbe accadere. Perché il paradosso è che le spinte più forti anti-governative non vengono dalle opposizioni – che legittimamente, ma anche stancamente, chiedono a Conte di dimettersi.

L’attacco viene dalle forze interne alla maggioranza. In primo luogo a causa delle fortissime fibrillazioni grilline, e a seguire, delle smanie di visibilità della pattuglia renziana. Con un Pd incapace di essere davvero elemento trainante ed equilibrato, con esponenti (a cominciare dai capigruppo di deputati e senatori), che invece di calmare le acque tirano la corda per arrivare allo scontro finale. Senza che Liberi e Uguali possa esercitare una funzione di equilibrio non avendo la forza dei numeri dalla sua parte.

Equilibrio e saggezza del resto non sono parole che albergano a Palazzo Chigi e dintorni dove, anziché lavorare e impegnarsi per il bene comune – visto che l’Italia, e non solo a causa della pandemia, rischia di affondare – sembrano prevalere i personalismi, i pregiudizi, gli ideologismi.

Tuttavia in questo folle giro di giostra, c’è una forza politica più fuori controllo e preoccupante, ed è il M5Stelle attraversato da una fronda interna implacabile. E a dirlo sono proprio i ministri pentastellati che in queste ore tentano di far rientrare nei ranghi i dissidenti, insistendo sul tasto del «voto di fiducia» di mercoledì a Conte – sarà un referendum sulla persona visto che non si vota per dare via libera al Mes ma sul ruolo dell’Italia in Europa.

La soglia di frattura, fino alla scissione, resta una mina vagante di difficile aggiramento. Perché tra i dissidenti ci sono parlamentari che neppure lontanamente si sentono di appartenere al fronte democratico. Sono vicini alla Lega, hanno inghiottito amaramente l’accordo con il Pd, tifano per Trump che sbraita contro i presunti brogli smentiti perfino dai suoi amici repubblicani, pensano che l’Italia sia a rischio di invasione degli immigrati. Come puoi riportare questi elementi dentro un alveo di solidarietà internazionale, di condivisione europeista, di lotta contro le ingiustizie sociali? Sono una mina vagante.

Dall’altra parte, Renzi smania, si sente imprigionato in un’alleanza che gli offre poco spazio, pensa che il suo partitino non ha futuro dentro quel «recinto» politico. E allora spara ad alzo zero, sapendo di avere tanti suoi ex sodali pronti a far da sponda all’interno del Pd. Con Zingaretti incapace, oppure non così forte da poter mettere la mordacchia agli agit-prop del suo partito. Più che la ricostruzione di un partito della sinistra via zoom, o di un campo largo progressista, dietro l’angolo ci sarebbe un bel Nazareno-bis.

Conte, in questa situazione, rischia molto. E la sua maggiore responsabilità è proprio quella che gli rimprovera Landini, cioè di scarsa condivisione, in questo caso delle parti sociali, e, aggiungiamo, parlamentari, e dei suoi stessi ministri, sul piano di ricostruzione e sulla struttura ordinata allo sviluppo del Recovery fund.

C’è praticamente mezzo governo in quarantena, ma il contagio virale rischia di essere specchio di quello metaforico che colpisce il suo ministero. Anche se cerca di smorzare le tensioni, di rasserenare il clima, sa di camminare su un terreno accidentato e stretto, un passo falso potrebbe essergli fatale. L’unica sua forza è, paradossalmente, proprio la paura della crisi. Che avrebbe conseguenze disastrose in questo momento. La credibilità dell’Italia svanirebbe in un colpo solo, rendendo assai ardua l’impresa di abbreviare i tempi per l’assegnazione dei fondi europei.

Per non parlare poi delle conseguenze politiche di un voto anticipato: le opposizioni vincerebbero a mani basse, e l’Italia verrebbe consegnata nelle mani di Salvini, Meloni, Berlusconi, ovvero la peggiore destra della storia della Repubblica. Alla fine la domanda è d’obbligo: il Movimento5Stelle, Italia Viva e il Pd, vogliono consegnare il Paese in quelle mani?

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Ci ha lasciati la "compagna Bruna". Aveva 96 anni, è deceduta questa notte all'ospedale 'San Maurizio' di Bolzano dov'era ricoverata da alcuni giorni, a seguito del Covid-19, Da vera insegnante ci ha educato con l'esempio della sua vita alla Resistenza, alla voglia di ricostruire dopo le macerie, all'impegno culturale e sociale. Sottolineato da un'interpretazione al femminile della vita e della militanza.

Giovanissima, Lidia Menapace, "Bruna", prende parte alla Resistenza e nel 1964 è la prima donna eletta nel Consiglio provinciale di Bolzano. All’inizio degli anni Sessanta inizia a insegnare all’Università cattolica del Sacro Cuore con l’incarico di lettrice di lingua italiana e metodologia degli studi letterari, incarico che durante il Sessantotto non le viene rinnovato a seguito della pubblicazione di un documento intitolato Per una scelta marxista. Dopo essere uscita dalla Democrazia cristiana, simpatizza per il Partito comunista e nel 1969 viene chiamata dai fondatori nel primo nucleo de Il Manifesto cui offre per anni il suo fondamentale contributo. Membro di Rifondazione comunista fin dalla fondazione, nelle elezioni politiche del 2006 viene eletta al Senato. 

Da vera insegnante, Lidia Menapace ci ha educato con l’esempio della sua vita: la Resistenza partigiana, la voglia di ricostruire dopo le macerie civili e umane della guerra, l’impegno culturale e sociale. Le sue parole sagge, ironiche, leggere ma pesanti allo stesso tempo, la sua stessa fisicità, il suo profilo inconfondibile ci hanno fatto negli anni innamorare di lei. 

“Buonasera a tutte e a tutti - diceva nel marzo del 2017 a Milano - sempre tutte e tutti, cioè sempre il linguaggio inclusivo. E sempre prima tutte e poi tutti, non solo per cortesia che quando c’è si ringrazia e quando non c’è non si può protestare, ma per diritto, perciò si può protestare: perché noi donne siamo di più. Quindi: contano i numeri, contano i voti. Non so se sapete di quanto siamo di più. All’ultimo censimento, quello del 2011, le donne risultarono essere due milioni e trecentomila circa più degli uomini. Quando lo dico, c’è sempre qualche patriarca gentile che mi dice: adesso vedrai che ci mettiamo subito in riga. Guardate che ci fu un milione di voti di donne più che di uomini al referendum 'monarchia-repubblica'; quindi non metteteci sempre così tanto tempo insomma… cercate di sveltirvi un po’… perché altrimenti nel 3003 siamo ancora qui che contiamo quanti dovremmo essere”. C’è in queste parole tutta Lidia, con la sua ironia, la sua schiettezza, il suo femminismo. Una anticipatrice: questa forse è stata la caratteristica più nitida ed esclusiva del suo lavoro.

Scriveva già nel 1993 nella prefazione al volume Parole per giovani donne: “Poiché ho ribattuto che possiamo cominciare a sessuare il linguaggio nei miliardi di volte in cui si può fare senza nemmeno modificare la lingua, e poi ci occuperemo dei casi difficili, ecco subito di nuovo a chiedermi perché mai mi sarei accontentata di così poco. Se è tanto poco, dicevo, perché non si fa? Non si fa perché il nome è potere, esistenza, possibilità di diventare memorabili, degne di memoria, degne di entrare nella storia in quanto donne, non come vivibilità, trasmettitrici della vita ad altri a prezzo della oscurità sulla propria. Questo è infatti il potere simbolico del nome, dell’esercizio della parola. Trasmettere oggi nella nostra società è narrarsi, dirsi, obbligare ad essere dette con il proprio nome di genere”.

Ci ha regalato la definizione più suggestiva del movimento delle donne definendolo ‘carsico’, come un fiume che talvolta sprofonda nelle viscere della terra per riapparire in luoghi e tempi imprevisti con rinnovata potenza. Suo è lo slogan “Fuori la guerra dalla storia”, sua la proposta di una Convenzione permanente di donne contro tutte le guerre. “Cosa rimane oggi della Resistenza? - diceva nell’aprile 2009 - È rimasto un gran buco da colmare. Siamo davanti a un fenomeno che ho iniziato a chiamare di 'alzheimer organizzato' (…) Tutti noi temiamo l’alzheimer, perché è la perdita della memoria di te stesso (…) ma un intero popolo che viene indotto all’alzheimer è un popolo che tu puoi portare dove vuoi. Senza un passato con cui confrontarsi non ha un futuro”. “Cosa ho imparato dalla Resistenza? - diceva - A convivere con la paura e a superarla”.

Oggi siamo noi ad avere paura, Lidia. Senza di te ci sentiamo tutte e tutti (sempre prima tutte e poi tutti, ce lo hai insegnato tu!) un po’ più tristi, un po’ più soli. “Non vedo l’ora di uscire e andare nel piccolo giardino sotto casa - dicevi qualche mese fa - Ma non vorrei che la liberazione dopo il virus, si riducesse solo a uscire di casa. (…) Immagino gruppi di persone che pensino a cambiare le cose dentro un grande movimento di cambiamento. Una vita politica in cui ciascuno vede cose che non funzionano e si impegni per trasformarle, in cui le cose sbagliate siano raddrizzate”. Ci proveremo a raddrizzarle queste cose, Lidia, ma senza di te sarà più difficile. Già ci manchi. Ciao, Lidia, ciao Bruna.

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Il convegno di Italianieuropei. Tre ore di confronto sul «cantiere». Bettini apre a una «rifondazione», ok di Speranza, gelo di Zingaretti

L'incontro di ieri mattina via Zoom con D'Alema, Zingaretti, Bettini, Speranza, Renzi, Amato, Franceschini e Schlein

 

Quattro anni esatti dopo la debacle di Renzi al referendum costituzionale, che fu il massimo punto dello scontro con gli ex Ds, Massimo D’Alema archivia la guerra con l’ex rottamatore. E lo invita al «cantiere della sinistra», evento via Zoom per la presentazione dell’ultimo numero di Italianieuropei dedicato proprio alla ricostruzione del campo progressista dopo due scissioni di fila (2017 Bersani e D’Alema; 2019 Renzi).

Le posizioni da allora non sono molto cambiate, ma la nascita del governo giallorosso e lo stato di salute non buono delle forze di centrosinistra richiedono, dice D’Alema, di voltare pagina. «Ci siamo, c’è vita a sinistra», esordisce nelle sue conclusioni, per poi spiegare che serve una «ristrutturazione di un suolo pieno di edifici cadenti e desueti», perché «l’esperienza del Pd non ha avuto successo, ma sono falliti anche tutti i tentativi di costruire delle realtà significative fuori dal Pd».

DA QUESTA «SOMMA di insuccessi», D’Alema propone di ripartire e al suo appello rispondono tutti i protagonisti: da un padre nobile come Giuliano Amato a Nicola Zingaretti, Roberto Speranza, Dario Franceschini, Goffredo Bettini, Elly Schlein e due intellettuali come Ida Dominijanni e Nadia Urbinati.

Tre ore di discussione per capire che fare dopo la pandemia, in una devastante crisi economica che aumenta le diseguaglianze ma che può essere mitigata dal Recovery Fund (visto come «opportunità» soprattutto da Renzi), in un clima che «ha evidenziato il fallimento del neoliberismo» e rimesso al centro alcuni pilastri della sinistra come i beni pubblici e il welfare. Ma con la palese assenza di un’idea del mondo, di una narrazione, di una «ideologia» che consenta alla sinistra di competere con i sovranisti sul piano dell’identità, del bisogno di protezione dei ceti più deboli e ormai anche di larga parte dei ceti medi.

Una ideologia che permetta ai progressisti di vivere «oltre le singole esperienze di governo», dice Urbinati, «di portare lo sguardo più in là verso una proposta di società in grado di riformare il capitalismo», le fa eco Bettini. Perché «senza un senso di appartenenza, senza la capacità di comporre le tante identità di una società liquida», ricorda Amato, «le politiche non penetrano nella società».

SULLO SFONDO I VENTI DI CRISI nel governo e soprattutto il rapporto con il M5S, che Franceschini definisce «alleanza inesorabile se si vuole governare», sostenuto da Speranza «con loro una relazione non episodica».

Ma il punto vero della discussione è la forma, l’abito per quella che Bettini chiama «rifondazione di una forza più ampia». «Per la prima volta da anni siamo a favore di vento», dice Speranza, «ma le forze che ci sono oggi non bastano, dobbiamo metterci tutti in discussione in un processo più largo e aperto».

D’Alema è il più chiaro nel dire che «serve una nuova forza politica con un progetto di riforma del capitalismo che renda possibile il contenimento delle diseguaglianze e la tutela dell’ambiente». «Bisogna dare una forza politica a quel 30% di italiani che avrebbero bisogno di un grande partito di sinistra». E ammette: «In passato per puntare al 50% abbiamo pensato che fosse necessario appannare la nostra identità, e così ci siamo persi anche il 30%…». Un partito non leggero, dice l’ex premier, «non somma di comitati elettorali», perché «solo i partiti hanno saputo connettere elite e popolo».

CON RENZI SCAMBIO GARBATO sul centro, con il primo a esultare per la vittoria del moderato Biden e D’Alema a ricordare che «quel centro lo inseguimmo anche noi, ma oggi la crisi ha radicalizzato la società». E tuttavia, per il leader Massimo, nel nuovo centrosinistra che deve essere «un campo largo» c’è posto per «culture diverse, per posizioni anche distanti». L’importante, sottolinea Bettini, è partire.

Non a caso Zingaretti di tutto questo non parla, e resta concentrato sulla sfida di dare un’anima al Recovery Plan, visto come antidoto espansivo alle sirene populiste, e soprattutto sul concetto che «non dobbiamo tornare alla normalità di prima del Covid che era inaccettabile» in un’Italia «ferma e piena di diseguaglianze e burocrazia». Di qui l’invito a Conte «a non tirare a campare» ma «ad essere efficaci». «La scintilla deve essere la necessità di costruire un nuovo e diverso equilibrio», dice il leader Pd e avverte: «No a ingegnerie organizzative».

ANCHE SCHLEIN VEDE tutte le difficoltà della ricostruzione, in particolare dove c’era la sinistra radicale e gli ecologisti e oggi «ci sono più sigle che elettori». «Dobbiamo cambiare schema», spiega, «ma questo non significa confluire nel Pd che non si è messo in discussione».

Dopo tre ore le domande restano molto più numerose e grandi delle risposte. Tocca a Dominijanni ricordare ai combattivi protagonisti della mattina che, in ogni caso, «non può essere la nostra generazione a fare questa ricostruzione».

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