Accedi Registrati

Login to your account

Username *
Password *
Remember Me

Create an account

Fields marked with an asterisk (*) are required.
Name *
Username *
Password *
Verify password *
Email *
Verify email *

Medio Oriente Tante le sfide, a partire dal sicuro veto Usa all’Onu. Un ostacolo che non è insuperabile: paesi e gruppi della società civile possono e devono agire in autonomia. L’alternativa è continuare a lasciare le vite dei palestinesi senza protezione, alla mercé di un processo di sterminio coloniale sempre più intenso

Membri dell’Onu al valico di Karem Abu Salem Ap/Abed Rahim Khatib Membri dell’Onu al valico di Karem Abu Salem – Ap/Abed Rahim Khatib

Nelle ultime settimane sono ricomparse le richieste di dispiegamento di una forza di protezione a Gaza e in Cisgiordania. Sono giunte da operatori sanitari e organizzazioni mediche, da ong palestinesi e da civili arabi. L’anno scorso, anche la Lega araba e le organizzazioni per i diritti umani hanno chiesto l’invio di una forza di pace a Gaza.

Alla luce della normalizzazione globale del genocidio in diretta e della riluttanza politica ad applicare il diritto internazionale, questa richiesta rappresenta una misura minima per salvaguardare i palestinesi da orrori inimmaginabili.

La richiesta è saldamente fondata sul diritto internazionale. A Gaza, una forza di pace potrebbe portare avanti il dovere degli Stati e delle Nazioni unite di proteggere un popolo che sta affrontando un genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità sotto inchiesta presso la Corte internazionale di giustizia e la Corte penale internazionale. Sia a Gaza che in Cisgiordania, tali forze potrebbero sostenere il processo di cessazione dell’occupazione, come richiesto dall’Assemblea generale delle Nazioni unite e dalla Corte Internazionale di Giustizia.
Tuttavia, la richiesta di una forza di protezione deve affrontare sfide importanti. La domanda cruciale è: possono essere superate?

La giustificazione di una forza di protezione

La situazione a Gaza e in Cisgiordania ha raggiunto un’urgenza e un’estremizzazione senza precedenti. La pressione militare esercitata dai gruppi armati in Libano e nello Yemen nel tentativo di proteggere il popolo palestinese non è riuscita a fermare le atrocità e i popoli libanese e yemenita ha pagato un prezzo pesante.

Ecco perché è urgente una forza di protezione internazionale. Il suo dispiegamento realizzerebbe ciò che la popolazione palestinese chiede alla comunità internazionale: proteggerla. Questa forza servirebbe come «scudo umano» – non nel senso dispregiativo utilizzato dall’esercito israeliano per giustificare il suo genocidio etichettando l’intera popolazione palestinese come scudo umano, ma nel senso di una barriera letteralmente pacifica tra i palestinesi e il loro annientamento.

La sua presenza potrebbe fare la differenza tra la vita e la morte di massa per i civili che hanno affrontato un anno e mezzo di bombardamenti, assedio e fame.

Inoltre, questa forza offre un’alternativa critica a «soluzioni» più sinistre. Mentre Israele intensifica la sua campagna genocida, imponendo condizioni volte a distruggere la vita dei palestinesi, gli Stati uniti hanno ventilato l’idea di dispiegare le proprie truppe a Gaza per «prenderne il controllo». Questa mossa costituirebbe un’invasione illegale degli Stati uniti in Palestina, rafforzando ulteriormente la violenza coloniale con il pretesto di mantenere la «stabilità». Al contrario, forze incaricate di proteggere i palestinesi – e non gli interessi imperiali e coloniali – potrebbero fornire una contromisura legittima e fondata a livello internazionale.

Le sfide della formazione di una forza di protezione

Il dispiegamento di forze di protezione su mandato delle Nazioni unite richiede una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Gli Stati uniti porranno sicuramente il veto a qualsiasi tentativo di creare una forza di questo tipo, così come hanno bocciato diverse risoluzioni di cessate il fuoco, consentendo di fatto un genocidio e bloccando qualsiasi sforzo per sostenere anche i più elementari principi di umanità previsti dalla Carta delle Nazioni unite.

La situazione sta indubbiamente diventando sempre più disperata sotto un’amministrazione statunitense che sostiene attivamente le espulsioni e le deportazioni di massa della popolazione palestinese da Gaza. Lo stesso presidente degli Stati uniti Donald Trump ha descritto la Striscia di Gaza come un «sito di demolizione» e ha espresso il desiderio che gli Stati uniti la trasformino nella «Riviera del Medio Oriente».

Poiché una risoluzione che richiede una forza di protezione sarebbe bloccata dal Consiglio di Sicurezza, l’alternativa è una chiamata all’azione multilaterale attraverso l’Assemblea generale. Anche in questo caso, il potere coercitivo degli Stati uniti influenza pesantemente i voti – compresi quelli dell’Autorità Palestinese – ma si tratta comunque di un’opzione praticabile. Una mossa del genere potrebbe avvenire non prima della prossima sessione dell’Assemblea generale di maggio e richiederebbe un’immensa pressione diplomatica.

Un voto a favore di una forza di protezione da parte dell’Assemblea non sarebbe vincolante e richiederebbe l’approvazione del Consiglio di Sicurezza. Tuttavia, potrebbe contribuire a creare una coalizione di paesi che segnalino la loro volontà di intervenire con misure di protezione concrete in difesa della vita dei palestinesi dopo 19 mesi di parole vuote senza azioni tangibili.

Un’altra sfida è rappresentata dal fatto che il meccanismo di dispiegamento delle forze di pace è stato a lungo considerato con sospetto dagli Stati del Sud globale – e per una buona ragione. Le truppe di mantenimento della pace delle Nazioni unite sono spesso servite come strumenti di polizia nel Sud globale e come estensione del controllo imperiale, a volte commettendo esse stesse atrocità.

Storicamente, il mantenimento della pace si è in gran parte allineato con gli interessi imperiali, raramente opponendosi ad essi. I paesi che contribuiscono con le truppe hanno spesso alleanze militari discutibili e le operazioni di mantenimento della pace dipendono dai finanziamenti di grandi donatori, come gli Stati uniti. Un buon esempio è la missione di pace Unifil in Libano, che ha una presenza europea insolitamente alta e che non è riuscita a proteggere il sud del paese dall’aggressione di Israele.

Alla luce di tutte queste sfide, dobbiamo rinunciare alla richiesta di una forza di protezione nei territori palestinesi occupati? Assolutamente no.

Una riprogettazione radicale delle forze di protezione

Gli ostacoli sono reali, ma la richiesta di una forza di protezione è legittima. Proviene da diversi settori della stessa società palestinese ed è sostenuta a livello globale da individui e gruppi antigenocidio.

In una recente petizione, operatori sanitari palestinesi e internazionali hanno proposto un modello: una missione protettiva neutrale e multinazionale – non per mediare, ma per proteggere. Le loro richieste includono l’esclusione delle nazioni complici dell’aggressione dall’apporto di truppe e il mandato alla forza di protezione di proteggere fisicamente i civili palestinesi e gli operatori sanitari, per ristabilire corridoi umanitari e medici sicuri e sostenere la ricostruzione a guida palestinese delle infrastrutture annientate di Gaza. Allo stesso modo, la Rete delle ong palestinesi ha chiesto la protezione internazionale, l’apertura dei valichi verso Gaza e la garanzia di corridoi sicuri per gli aiuti.

Nel frattempo, i civili egiziani hanno ripetutamente dichiarato di essere pronti a entrare a Gaza come forza di protezione civile in caso di apertura delle frontiere. Ciò sottolinea il potenziale di protezione alimentato dalle persone, accanto ai meccanismi formali.

Per tradurre in azione questi molteplici appelli, è necessario ripensare radicalmente l’aspetto e il funzionamento di una forza di protezione.

In primo luogo, è necessario che gli Stati non coinvolti nel genocidio e i gruppi della società civile spingano per aggirare il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite. Devono concentrare tutti gli sforzi e l’influenza sulla sessione speciale di emergenza dell’Assemblea generale dell’Onu che si terrà a maggio, per resistere alle pressioni degli Stati uniti e spingere per un voto su un mandato di mantenimento della pace.

In secondo luogo, abbiamo bisogno di nuove alleanze Sud-Sud. Significa partenariati strategici tra le nazioni del Sud globale non coinvolte nel genocidio per finanziare e fornire personale a una missione libera da influenze imperiali, che possa procedere anche senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza.

In terzo luogo, abbiamo bisogno di una mobilitazione senza precedenti della società civile in un’unica direzione: fare pressione sui governi affinché sostengano e partecipino a una forza di protezione veramente neutrale.

Gli Stati uniti si opporrebbero alla creazione di nuove coalizioni che mettano al centro la vita dei palestinesi e si presentino come i campioni meridionali della dottrina della responsabilità di proteggere. Vedrebbero in ciò una sfida alla loro egemonia e al monopolio occidentale del discorso sull’antigenocidio e userebbero il loro veto in seno al Consiglio. Tuttavia, i paesi e i gruppi della società civile coinvolti nella creazione della forza di protezione dovrebbero ignorare il veto, formare la missione in modo autonomo e sfidare l’ordine internazionale genocida in cui viviamo.

Le sfide che questo sforzo di re-immaginazione radicale deve affrontare sono formidabili. Ma l’alternativa è continuare a lasciare le vite dei palestinesi senza protezione, alla mercé di un processo di sterminio coloniale sempre più intenso. Dobbiamo agire ora e spingere per una forza di protezione per la Palestina occupata.