Scritto da Gianfranco Pagliarulo * su il manifesto
È escalation di guerra. La Nato, che s’allarga a spese dei curdi, indica il nuovo nemico: la Cina. L’Onu, che è azzerata, va richiamata a ruolo con una Conferenza di pace Helsinki 2
foto di Aleandro Biagianti
Al summit della Nato il prezzo dell’ingresso nell’Alleanza militare di Svezia e Finlandia è stato la testa dell’opposizione curda. D’altra parte Stoltenberg ha affermato che «nessun alleato ha sofferto più della Turchia a causa del terrorismo». Nulla di nuovo: nell’ottobre 2019, quando, approfittando del disimpegno americano, la Turchia invase il Kurdistan siriano, il segretario della Nato definì Erdogan come il portatore di «legittime preoccupazioni di sicurezza» alla faccia del sacrificio della milizia curda Ypg contro i tagliagole dell’Isis. Il punto è che Erdogan – a parere di Mario Draghi (8 aprile 2021) – è un dittatore.
D’altra parte l’Ungheria della «democrazia illiberale» e l’oscurantista Polonia sono membri della Nato. Per il nuovo documento-guida della Nato, il problema sono i regimi autoritari (esclusi quelli di Paesi della stessa Nato, evidentemente), la Russia è una «minaccia» – affermazione spiegabile a causa dell’aggressione all’Ucraina, ma foriera di ulteriori tensioni -, la Cina una «sfida ai nostri interessi, valori e sicurezza» (tesi che allarga la tensione su scala mondiale). Ne consegue una funzione «globale» dell’Alleanza atlantica, una interpretazione «estensiva» dell’articolo 5 e un gigantesco rafforzamento del suo apparato militare. Ovvia la reazione della Cina: è la Nato che è «una sfida sistemica alla pace e alla stabilità mondiale».
Non sfugge l’impressione che la vera sostanza della questione sia la difesa del primato dell’Occidente sul resto del mondo. Tutto ciò è in diretta relazione col conflitto ucraino, dove è in corso una continua escalation: dai bombardamenti russi alle dichiarazioni incendiarie di Medvedev, all’intervista alla ministra degli Esteri britannica Liz Truss che sostiene che l’Ucraina attraverso il potenziamento dell’invio di armi «potrà riconquistare il Donbass, anzi tutto il Paese occupato dalla Russia» (e dunque anche la Crimea) e aggiunge persino che la Gran Bretagna è pronta a difendere l’integrità territoriale di Taiwan. Il tutto nella sostanziale assenza dell’Onu.
Grazie anche al riposizionamento della Nato la pentola a pressione si surriscalda e può esplodere da un momento all’altro. Cadono nel vuoto persino le parole del vecchio Henry Kissinger che invita alla moderazione. In tutti i casi l’Europa sarà coinvolta in una ennesima e pesantissima crisi economica (peraltro già in corso) e l’Italia corre il rischio di esserne travolta: continua diminuzione delle previsioni di incremento del Pil, generalizzato aumento dei prezzi a cominciare dalle fonti di energia, diffusissima povertà (5 milioni e 600mila poveri nel 2021), tasso di inflazione giunto all’8%. L’aumento dei prezzi dell’energia, collegato alla diminuzione della produzione idroelettrica a causa della siccità, causerà uno shock a parte importante dell’industria. Il crescente malessere sociale si manifesta anche con l’irrefrenabile diserzione al voto e può esplodere nei prossimi mesi in forme e modi imprevedibili.
E se la guerra si espandesse, con il concreto pericolo nucleare? C’è una sola alternativa a questi foschi scenari: il negoziato. Essa richiede un nuovo protagonista: la diplomazia. Sono questi i motivi per cui l’Anpi, l’Arci, il Movimento europeo, il direttore dell’Avvenire Marco Tarquinio (primi firmatari), hanno presentato un appello all’Unione Europea per il cessate il fuoco, l’avvio di una trattativa, l’invio di una forza di interposizione delle Nazioni Unite, l’istituzione di una Conferenza internazionale di pace (Helsinki 2), una nuova normativa per i profughi al fine di garantirne l’accoglienza indipendentemente dall’etnia, dal credo religioso, dal territorio di provenienza.
Abbiamo presentato l’appello nella sede romana del Parlamento Europeo, ci siamo incontrati con un rappresentante del governo italiano e ci incontreremo con il Cardinale Zuppi, Presidente della Cei, e con gli ambasciatori di Francia e Germania. Daremo vita, su tutto il territorio nazionale, a iniziative a sostegno dell’appello, incluso il tradizionale appuntamento della «Pastasciutta antifascista» del 25 luglio. Dall’ultimatum alla proposta: vanno messe a valore le risorse del nostro Paese, in particolare il mondo dell’associazionismo laico e religioso, del movimento sindacale, del volontariato, della Rete della Pace e Disarmo che già sta virtuosamente operando.
Ogni giorno perso si conta in numero di morti. Conosciamo bene i media (e anche alcuni politici) che cercano di annichilire qualsiasi opinione diversa perseguendo la militarizzazione del dibattito pubblico negando la natura stessa di quegli ideali liberaldemocratici a cui dicono di ispirarsi: la libertà di opinione, la tolleranza e il rispetto (povero Bobbio!). Va contrastata questa deriva che indebolisce la natura stessa della democrazia costituzionale nel nostro Paese.
Sia pure in modo (molto) contraddittorio, Scholtz, Macron e lo stesso Draghi si sono fatti portatori di proposte di negoziato. A loro in primo luogo chiediamo di farsi portavoce nel concerto dell’Unione europea delle proposte che abbiamo avanzato nell’appello. In questo drammatico scenario le resistenze di Putin e poi quelle di Biden e Johnson vanno vinte con un’azione combinata delle diplomazie e di un’opinione pubblica che, silente ed inascoltata, nel nostro Paese continua nella sua maggioranza ad essere contraria all’escalation a cui stiamo assistendo. È’ ora di rovesciare il tavolo.
Tornano conflitti tra potenze, nostalgie imperiali, rilancio d’un impero in decadenza: tutto questo costringe molti Paesi a schierarsi. Eppure sono esistiti i Non-Allineati. Neutrale non significa non prendere parte, ma avere un ruolo attivo: il «neutro» come terza possibilità, come superamento del conflitto per dirla con Roland Barthes
Nehru, Nkrumah, Nasser, Sukarno and Tito in New York, Settembre 1960
Il ritorno della contrapposizione-scontro tra grandi blocchi, il riemergere di nostalgie imperiali, il rilancio di un impero in decadenza, sta costringendo diverse nazioni in tutto il mondo a schierarsi o con la Nato o con l’asse Russia-Cina e sue appendici. Paesi come Finlandia e Svezia che erano rimasti neutrali durante il periodo della cosiddetta «guerra fredda», hanno saltato il fosso e son finiti nella gabbia della Nato, rinunciando ad un loro, encomiabile e storico punto di riferimento: essere Paesi che accolgono i rifugiati politici e coloro che fuggono dalle guerre.
Come dimenticare il ruolo politico giocato dalla Svezia del premier Olof Palme, grande figura di costruttore di ponti di pace, leader prestigioso del partito socialdemocratico, fatto fuori in circostanze misteriose in cui non è escluso il ruolo di servizi segreti stranieri. Chi si ricorda della Jugoslavia di Tito, leader del Movimento dei Paesi non Allineati, che nasce a Belgrado nel settembre del 1961, e vede tra i fondatori l’India di Nehru, l’Egitto di Nasser, l’Indonesia di Sukarno.
Un Movimento che nasceva dichiarando la sua opposizione al colonialismo, imperialismo e neocolonialismo, rivendicando il diritto a non doversi schierare con un uno dei due blocchi. Certo, esiste ancora il Non-Aligned Movement (Nam), conta sulla carta circa 120 Stati, ma chi lo sa? Chi se n’è accorto durante tutte le guerre che si sono succedute dopo la caduta del muro di Berlino? Che ruolo ha oggi in questa maledetta guerra in Ucraina? D’altra parte se il presidente del Nam è l’attuale premier dell’Azerbaigian, coinvolto in un conflitto estremamente rischioso come quello del Nagorno-Karabakh, che è ripreso proprio in questi mesi, come sperare che possa avere un ruolo di super partes, di leadership dei Non Allineati? La scomparsa nei fatti del Movimento dei Paesi non Allineati è una grave perdita per il futuro dell’umanità. Purtroppo, ne dobbiamo prendere atto.
La neutralità è diventata una condizione sempre più difficile da mantenere. Neutralità non significa solo non prendere parte, non schierarsi, ma può avere un ruolo attivo nel superamento dei conflitti. Il «Neutro come terza possibilità, come superamento del conflitto, per dirla con Roland Barthes che per un biennio ha tenuto un Corso su questa categoria al Collège de France (1977-78), edito in Francia nel 2002 ed oggi pubblicato in Italia da Mimesis. La neutralità, dunque, non è il Limbo, un non luogo sospeso nello spazio e nel tempo, ma un non accettare questo disordine mondiale, cercare ostinatamente un’altra strada che non passi dalla logica dei nazionalismi che si autoalimentano. Significa non interiorizzare una visione del mondo come lotta tra il Bene e il Male Assoluto, non vedere lo scontro attuale, come denuncia chiaramente papa Francesco, come uno scontro tra il demonio Vladimir Putin e l’arcangelo Joe Biden. Neutralità non vuol dire indifferenza, ma cercare di mantenere una lucidità di analisi e cercare ostinatamente di non farsi ingoiare da questa spirale dettata dallo scontro tra superpotenze.
In questo scontro, che si gioca a più livelli, l’Unione europea è schiacciata e la Sinistra non ha più voce in capitolo se non ritrova una alternativa visibile e credibile, a partire dalla difesa del diritto di asilo per i rifugiati politici. La stessa sinistra socialdemocratica che nei paesi scandinavi ha avuto il suo faro, verrà sotterrata da questa scelta infame che baratta la vita dei rifugiati politici curdi con l’entrata nella Nato. Come si fa ad accettare il ricatto di un dittatore come Erdogan e poi parlare di difesa dei valori democratici contro le dittature. Come si possa abbandonare il popolo curdo che ha combattuto in prima fila contro l’Isis indicato dall’Occidente per un lungo periodo come il Nemico numero Uno? Come si possa permettere che l’esercito turco entri in territorio siriano e massacri impunemente un popolo che vi abita secoli? L’inviolabilità delle frontiere vale solo per l’Ucraina?
Non dimentichiamoci mai che il fascismo nasce in Italia con la rottura della «neutralità» del Partito socialista che Mussolini, da direttore dell’Avanti, ruppe abbracciando il movimento «interventista» nella Prima guerra mondiale. Chi oggi pensa che non ci siano alternative alla continuazione della guerra in Ucraina, e rivendica il ruolo dell’Italia in questa guerra, si pone in continuità con quella cultura.
PACE E GUERRA. Se qualche anno fa Emmanuel Macron constatava la «morte cerebrale» della Nato, ora, come effetto immediato dell'aggressione russa all'Ucraina, l'Alleanza atlantica riprende vita, accetta l'ingresso di nuovi soci un tempo neutrali e, soprattutto, ridefinisce i suoi modelli strategici aumentando il dislocamento di personale militare e di armi
La guerra in Ucraina sta imperversando sempre di più, diventando ancora più feroce. Ci stiamo abituando a questa maledetta situazione di morte che sta costringendo gli Ucraini ad una resistenza estrema nel sud del paese e a convivere con una situazione di pericolo e precarietà che sta destabilizzando la vita, dividendo le famiglie, facendo crescere i nostri figli in un mondo pieno di paure e morte. Putin ha compiuto un passo incredibilmente folle, che noi ritenevamo ormai relegato nella storia remota. I suoi piani si sono infranti sull’orgoglio del popolo ucraino ma anche sulla compattezza dell’Europa e della Nato che ha ritrovato un senso (un nemico) e rinnovati finanziamenti per esercitare quella pressione difensiva che Putin voleva allontanare dai confini. Se qualche anno fa Emmanuel Macron constatava la «morte cerebrale» della Nato, ora, come effetto immediato dell’aggressione russa all’Ucraina, l’Alleanza atlantica riprende vita, accetta l’ingresso di nuovi soci un tempo neutrali e, soprattutto, ridefinisce i suoi modelli strategici aumentando il dislocamento di personale militare e di armi.
È proprio questo primato alla dimensione muscolare che non convince: se la risposta alla Russia è fortemente e comprensibilmente condizionata dalla sua brutale politica aggressiva, non si vede l’ombra della diplomazia, anzi. Si parla di aumento delle spese militari, grandi proclami per militari in stato di allerta, investimenti in tecnologie sempre più distruttive, alleanze basate su logistiche di efficientamento bellico. Non si intravede un piano per il cessate il fuoco e per avanzare un dialogo. Chi può farlo se non
L’ultimo rapporto del Sipri (Stockholm International Peace Research Institute) sul commercio internazionale delle armi, datato marzo 2022, indica che il nostro Paese, nel periodo 2017-2021, è stato il sesto esportatore al mondo dopo Usa, Russia, Francia, Cina e Germania, occupando una quota del 3,1% di quel lucroso mercato globale. I due principali clienti dell’Italia sono stati l’Egitto e la Turchia che da soli hanno assorbito quasi la metà del nostro export. Come usino le armi che noi produciamo e vendiamo loro non è un mistero.
Il paese del Maghreb, dopo il fallimento delle primavere arabe, è governato dal regime di Abdel Fattah al-Sisi, dimostratosi ancora più autoritario di quello instaurato da Hosni Mubarak, mentre il sultano turco Erdogan si è distinto, come purtroppo sappiamo, nel massacro dei curdi ed è stato più volte accusato di crimini di guerra e contro l’umanità. In questi anni non è mancato chi si è genuinamente opposto a questo commercio di morte ma tra questi non risulta, ad esempio, l’ineffabile leader della Lega. Matteo Salvini ha invece scoperto ora, grazie al conflitto in Ucraina, il valore della pace.
Considerando i suoi rapporti con Russia Unita, il partito di Vladimir Putin, potremmo essere tentati di dare una spiegazione assai meno nobile della sua recente conversione al pacifismo. Lo stesso pensiamo di chi oggi condanna l’invasione russa dell’Ucraina ma non ha trovato altrettante parole di sdegno per il massacro che in Iraq nel 2003 hanno posto in essere i “volenterosi” sotto la guida degli Usa, giunti persino a costruire false prove sulla presenza di armi di distruzione di massa per ottenere il sostanziale via libera da parte della comunità internazionale.
Lo stesso Consiglio di Sicurezza dell’Onu con la risoluzione 1511 del 16 ottobre 2003 ha riconosciuto e ratificato la situazione di fatto esistente in Iraq dopo l’aggressione anglo-americana, sollecitando gli Stati a contribuire alla formazione di una forza multinazionale per mantenere la sicurezza e la stabilità sino all’insediamento di un legittimo governo iracheno. La risoluzione fu votata all’unanimità. Russia compresa dunque, anche se il governo di Putin, in una dichiarazione congiunta con Francia e Germania, rimarcò l’impegno verso il ripristino della sovranità irachena e la necessità di scongiurare un ulteriore coinvolgimento militare. La stessa Russia dello stesso Putin che oggi pretende di giustificare la sua “operazione speciale” in Ucraina con quella altrettanto speciale dei governi occidentali in Iraq o altrove, come se un crimine potesse trovare giustificazione nei crimini commessi dagli altri. Questa ipocrisia non riguarda solo i governanti e i governi. Anche noi governati non ne siamo immuni.
I sondaggi dicono che gli italiani sono i meno favorevoli tra gli europei all’invio di armi in Ucraina e che nel nostro Paese sono anzi più numerosi i contrari. Sarebbe davvero ingenuo scambiare questa posizione come integralmente pacifista. Molti di coloro i quali si dichiarano contrari non lo fanno per salvare vite umane ma per non essere disturbati nella vita di sempre senza il fastidioso pensiero della guerra. E soprattutto perché deplorano l’aumento del prezzo del gas e le ripercussioni sull’economia italiana.
Non so infatti quanti, fra di noi, si sono misurati fino in fondo con quello che Luigi Ferrajoli ha definito un autentico dilemma morale, fra la necessità di impedire nuove stragi di civili e di militari e quella di consentire agli ucraini di difendersi dagli aggressori. Anche Noam Chomsky, in un’intervista al Corriere della Sera, ha espresso dubbi sull’opportunità di inviare armi in Ucraina, sostenendo che la scelta dovrebbe essere presa “in base al fatto che possa aiutare o danneggiare le vittime ucraine”. Ogni posizione intellettualmente onesta è benvenuta ma le ragioni della pace e del disarmo non possono giovarsi delle ipocrisie da qualunque parte esse provengano.
Se c’è un tema su cui si misura il coraggio, politicamente parlando, in questa travagliata stagione, quello è l’ambiente.
Non si può tenere il piede in due staffe, non sono ammessi equilibrismi, va rifuggita l’ipocrisia, si deve prendere una posizione netta e ci si deve far valere dentro la maggioranza di cui si fa parte.
Qual è il tragico effetto della mozione approvata da una strana maggioranza “energetica” in Consiglio Comunale che parte da Fratelli d’Italia e arriva fino alla sinistra di Coraggiosa?
L’impegno politico della Giunta a portare avanti la strategia fossile nella versione gassosa, entro lo schema monocratico (o monarchico?) del commissario straordinario addetto allo scavalcamento di valutazioni d’impatto e autorizzazioni paesaggistiche.
Il lato tragicomico è che anche senza Coraggiosa la mozione sarebbe passata lo stesso (certo, in forma meno ipocrita e un po’ più schiettamente dinosaura), quindi il voto di Coraggiosa è all’interno irrilevante (il PD ha messo la sua bella fogliolina di fico ed è a posto) e all’esterno devastante (fa allontanare votanti, militanti e simpatizzanti dell’area più critica e radicale).
Ecco servita la lobby delle energie fossili come se non ci fosse un domani: più estrazioni in Adriatico e persino l’ok al rigassificatore senza chiamarlo col suo nome ma con la supercazzola (“interventi transitori, urgenti, ambientalmente verificati dalle autorità competenti, sostenibili, reversibili e temporanei”).
Forse gli ambientalisti a’ la carte (per via dell’abilità nella scrittura ma non nell’azione) non sanno che il Decreto Legge 17 maggio 2022, n. 50 (“Misure urgenti in materia di politiche energetiche nazionali”) è già una sciagura completa, alla quale non serve aggiungere mozioni plaudenti (inutili e ridondanti).
Il decreto già definisce (art. 5) i rigassificatori come interventi strategici di pubblica utilità, indifferibili e urgenti e in tale contesto extra ordinem giustifica la nomina di commissari appunto straordinari, dotati di poteri speciali che come per magia fanno sparire controlli, valutazioni di impatto ambientale, autorizzazioni paesaggistiche.
Il 9 giugno Draghi ha incoronato Bonaccini, entro il 9 luglio vanno presentate le istanze di autorizzazione da parte degli operatori interessati ed entro 120 giorni il monarca energetico (commissario straordinario) deve rilasciare l’autorizzazione (praticamente un editto).
Sicuramente la procedura, dettata dall’urgenza, è veloce. Difficile però teorizzare che l’esito (il rigassificatore a poche miglia dalla nostra bella costa) sia “transitorio” visto che la parte finanziaria della norma sostiene le imprese di rigassificazione con un fondo che parte dal 2024 (ma allora il rigas non è davvero una risposta alla crisi energetica di adesso!) e arriva al … 2043.
Balle e imprecisioni, imprecisioni e balle, per confezionare un pacchetto e(mozionale) insieme alle destre più conservatrici, fossili e retrograde?
Ho molta stima, personale e politica, dei consiglieri comunali di Coraggiosa e dell’assessore di riferimento e quindi non posso non far notare loro l’errore politico marchiano in cui sono incorsi.
Hanno scritto parole condivisibili ma sulla carta sbagliata, la carta carbone, quella che ricopia il film già visto della perpetuazione del paradigma energetico sbagliato, quello che ci ha portato al collasso climatico e all’attivazione di tutti gli allarmi di bordo.
Ve lo dice uno che vi ha votato e che ha fatto campagna con voi e per voi: avete sbagliato e di grosso.
C’è tempo (ma poco) per rimediare.
Riconquistate autonomia ed autorevolezza, tornate a guardare fuori dal palazzo e ad incrociare gli sguardi di chi vi riconosce e vi sostiene, unitevi alla lotta di chi con tutte le sue forze (e competenze e intelligenze) si batte da tempo e continuerà a battersi per un cambio immediato e radicale di paradigma.
Quel mondo, che oggi avete profondamente deluso, potrà tornare a darvi credito se vi strapperete di dosso il “poco” lasciando quell’aggettivo così forte, impegnativo, femminile, carico di speranza che è Coraggiosa.
IL LIMITE IGNOTO. La Carovana della Pace a Mykolayiv. Di 450mila abitanti ne sono rimasti 250mila. La notte di lunedì i missili hanno fatto 3 morti
Mykolayiv - Ap
Mykolayiv sembrerebbe a tutta prima una «ridente località» sul Nipro, 130 chilometri a Nord di Odessa. Ordinata, pulita, alberata e anticipata da sconfinati campi di frumento che ancora ondeggiano le spighe al vento del Mar Nero. Ma al ponte sul quarto fiume d’Europa che ha qui il suo potente estuario, cominciano i sacchetti di sabbia, le postazioni mimetiche, i bunker infossati. E man mano che si avanza verso le strade che portano a Nord Nord-Est, la città, conquistata in periferia dai russi che poi han dovuto ritirarsi, è un colabrodo di trincee, buche, rifugi, feritoie. Il fronte è a 15 chilometri dal centro e se finora le posizioni sono stabili, l’artiglieria russa martella a intermittenza.
Nella notte tra ieri e lunedì, undici missili sono stati lanciati sulla città e solo due sono stati intercettati. Secondo fonti locali, Mykolaiv e Ochakiv, nei dintorni, sono state colpite con un primo bilancio, ieri mattina, di tre morti e sei feriti. Tra le vittime c’è una bambina di sei anni e un neonato di 3 mesi trasportato in terapia intensiva.
SECONDO Maxim Kovalenko, del consiglio comunale cittadino, Mykolayiv conta 30 vittime civili dall’inizio della guerra e il bombardamento dell’impianto di desalinizzazione che ha lasciato la città senz’acqua potabile. Una città di 450mila abitanti ridotta adesso a 250mila perché in tanti se ne sono andati: «Prima – dice – forse metà dei cittadini era filorussa. Adesso non ne trovi uno». Ma sembra, dice un collega qui da un po’, che nemmeno Zelensky sia troppo popolare. E a giudicare dalle file in attesa di un cestino o per riempire le bottiglie si capisce che il mantra della guerra finisce per essere sempre quello: morte, dolore. Fame se va bene.
ARRIVA IN QUESTO CLIMA la Carovana di StoptheWarNow al suo secondo giorno in Ucraina. I mezzi son ridotti a cinque per problemi di sicurezza ma lo scarico del cibo avviene in un clima quasi festoso. Poi la sirena interrompe i convenevoli ma il rifugio, ricavato sotto un centro di riabilitazione, offre l’occasione per altre parole. «Apprezziamo gli aiuti – dice ancora Maxim – ma ci tocca soprattutto che siate venuti sin qui sfidando le bombe». Con molta diplomazia a chi chiede di cosa ha bisogno la città, Maxim – che pure ha parole di elogio per il suo presidente – evita di dire «Armi», come accade il più delle volte. Evidentemente questo convoglio di pacifisti una funzione ce l’ha.
Nei pressi hanno scavato un pozzo. Chiedono di non fotografarlo perché non sia localizzato ma ci mostrano il desalinizzatore cui sta per aggiungersene un altro regalato da StoptheWarNow. Seimila euro ben spesi. «La città consumava 150 metri cubi in tempi normali ma ora è tanto se arriviamo a 20. È il problema più grosso». L’acqua estratta dai pozzi è salmastra perché Mykolayiv è sdraiata su una laguna. L’acqua, che normalmente è la ricchezza della città per la presenza del fiume, adesso è la sua condanna. «Abbiamo provato mandare dei tecnici a riparare gli impianti ma abbiamo smesso. Alcuni di loro non sono tornati». Poi tutti fuori per la foto di rito con lo striscione StoptheWarNow. Un pastore benedice. Gli anziani fuori dal cortile scrutano.
LA GENTE IN STRADA finge una normalità sospesa su quella che è la porta orientale verso Odessa e che i russi tengono in scacco con i missili uno dei quali, lunedì notte, ha colpito uno stadio in un complesso della marina. Obiettivo militare? Paradossalmente ha solo sfiorato il tappeto verde del campo e adesso un cratere richiama le visite degli abitanti del quartiere. Bastava che l’ordigno fosse caduto qualche pugno di metri più in là e sarebbe stata un’altra strage. Si riparte per Odessa e, oggi, per l’Italia. Al check point c’è un ragazzino – mitra ed elmetto – di 18 anni. Uno “sbarbato” si dice a Milano. Lasciati giù gli aiuti i camioncini ora sono vuoti. Ma il cuore, retorica o no, è gonfio. Fate voi di cosa.