NUOVA FINANZA PUBBLICA. La rubrica settimanale a cura di Nuova Finanza pubblica
Il fiume Po ai minimi storici a Boretto (Re), foto Ap
«Quando l’ultimo albero sarà abbattuto, l’ultimo pesce mangiato, e l’ultimo fiume avvelenato, vi renderete conto che non si può mangiare il denaro». Cosi disse nel 1876 Toro Seduto, capo tribù dei nativi americani Sioux Hunkpapa, qualche mese prima della leggendaria battaglia del Little Bighorn. Toro seduto non era uno scienziato dell’Ipcc dell’Onu, ma la sua sintesi meriterebbe di essere scritta in tutti gli edifici pubblici del Paese, in questo inizio estate che ci costringerà a fare davvero i conti con la profondità della crisi eco-climatica.
Paradigmatica è la situazione del Po, il più grande fiume italiano, il cui bacino attraversa la pianura padana e l’intera Italia del Nord. Sono le regioni in cui si sono storicamente concentrate un’agricoltura e un allevamento intensivi, una massiccia industrializzazione, la grande industria energetica, nonché grandi concentrati di popolazione urbana e metropolitana.
Toro Seduto, 1876
«Quando l’ultimo albero sarà abbattuto, l’ultimo pesce mangiato, e l’ultimo fiume avvelenato, vi renderete conto che non si può mangiare il denaro»
Tutte figlie del medesimo paradigma, che è la cifra del modello capitalistico: l’idea della crescita economica come termometro del benessere della società, accompagnata dall’uso di beni comuni presenti in natura dei quali si presuppone l’illimitata disponibilità.
Una situazione accelerata dal modello liberista e dal preponderante ruolo assunto dalla finanza, che ha visto il progressivo ritiro delle istituzioni pubbliche tanto dall’intervento diretto in campo economico, quanto da qualunque idea di programmazione e pianificazione dello stesso, delegate alla ‘autoregolazione dei mercati’.
Peccato che esista una contraddizione strutturale fra come la vita delle persone si organizza nello spazio e nel tempo rispetto a come si declina l’economia di mercato.
La vita delle persone si svolge dentro uno spazio limitato, la comunità di riferimento, e si dipana dentro un tempo lungo che attraversa l’intera esistenza.
Al contrario del mercato che si organizza in uno spazio potenzialmente infinito, l’intero pianeta, ma declina le proprie scelte dentro un tempo estremamente ridotto, l’indice di Borsa del giorno successivo. E’ questa differenza a far sì che gli interessi di mercato siano quasi sempre in diretto contrasto con i bisogni della vita delle persone.
L’economia della pianura padana lasciata al mercato, oltre ad aver prodotto pesanti livelli di inquinamento complessivo che hanno trasformato il serio problema sanitario prodotto dalla pandemia da Covid19 in una tragedia di massa, ha messo in campo un’idea di agricoltura, allevamento, industria e produzione energetica vocate al massimo rendimento nel minimo arco temporale. Una relazione predatoria nei confronti del suolo, dell’aria, dell’acqua, dell’energia e della salute delle persone che ha prodotto grandi risultati di fatturato per le industrie dell’agro-business e di utili in Borsa per le multiutility dell’acqua e dell’energia.
Permettendo alle stesse di comportarsi come quell’uomo del film “L’odio” che, cadendo da un palazzo di 50 piani, man mano che passa da un piano all’altro continua ripetersi «fino a qui, tutto bene», misurando il ‘qui ed ora’ della caduta e non l’esito dell’atterraggio.
Esito che nella pianura padana è arrivato con la più grave crisi idrica degli ultimi 70 anni e il Po ridotto a un rigagnolo circondato da distese di sabbia.
Prima che gli interessi delle grandi lobby scendano in campo per far ricadere la crisi ancora una volta sulle spalle degli abitanti, è il momento che le comunità locali insorgano per prendersi cura del ramo su cui siamo seduti contro chi continua a segarlo. Magari rivendicando che i soldi del Pnrr vadano alla cura e alla manutenzione dei territori invece che a nuove basi militari dentro parchi naturali.
Commenta (0 Commenti)STATI UNITI. Quando è arrivata la temuta notizia della firma per mano dell’ultraconservatrice ministra degli interni britannica Priti Patel in calce all’atto di estradizione di Julian Assange negli Stati uniti la rabbia si è unita subito all’angoscia
Quando è arrivata la temuta notizia della firma per mano dell’ultraconservatrice ministra degli interni britannica Priti Patel in calce all’atto di estradizione di Julian Assange negli Stati uniti la rabbia si è unita subito all’angoscia.
Ne va della vita di una persona, in ballo dal 2009 con la giustizia per accuse che – se mai- dovrebbero essere la base di un premio Pulitzer, avendo rotto il muro di silenzio che aveva sotterrato i crimini di guerra in Iraq e in Afghanistan. Sì, proprio quelli perpetrati dalla parte del mondo che suppone di esportare la democrazia, violandola spesso e volentieri.
Assange è a rischio suicidario, come ha sottolineato la competente perizia medica che ne ha evidenziato la pericolosa sintomatologia. Del resto, il trattamento riservato al fondatore di WikiLeaks dall’11 aprile del 2019 ospite del carcere speciale di Belmarsh di Londra è stato chiaramente definito dal relatore generale dell’Onu come una vera e propria tortura. Non a caso la prigione è soprannominata la Guantanamo inglese e lì vengono reclusi coloro che passano per essere i peggiori criminali. Dopo il lungo faticoso soggiorno iniziato nel 2012 nell’ambasciata dell’Ecuador nel regno unito, si dischiusero le porte dell’orribile penitenziario. Lì, poi, nelle annesse aule del tribunale, si sono consumati i gradi di giudizio che hanno avuto il suggello della ministra nota per la crudele idea di mandare i migranti in Ruanda.
Curiosa la giurisdizione d’oltre Manica, che pure passa per una delle fonti storiche del pensiero liberale: la conclusione del procedimento è a cura del governo.
L’estradizione americana significa una probabile condanna del giornalista australiano, in un tribunale della Virginia – non insensibile alla ben nota Central Intelligence Agency (Cia) – dove pende l’accusa di spionaggio. Per non dover fare i conti con il primo emendamento della costituzione di Washington con la sacralità da esso attribuita al diritto di cronaca, e a differenza del caso omologo dei Pentagon Papers (le 7.000 pagine fatte arrivare da Daniel Ellsberg allora analista militar, al New York Times e al Washington Post), oggi l’accusa si basa sull’Espionage Act del 1917. Peccato che le notizie raccolte da WikiLeaks siano state utilizzate da molti importanti quotidiani, che ora si voltano dall’altra parte.
Julian Assange è il perfetto capro espiatorio, utile a buttare benzina sul fuoco bellicista e aggressivo in atto, a siglare ulteriormente la subalternità britannica verso l’imperialismo maggiore, a dare un pesante ammonimento al giornalismo. Colpirne uno per educarne cento, diceva il motto. Infatti, l’eventuale condanna farà giurisprudenza e coloro che eludono, rimuovono o non vogliono vedere magari saranno le prossime vittime.
Lo strisciante autoritarismo, fondato sulla riduzione della rappresentanza e sul ridimensionamento dell’indipendenza di chi svela gli arcani del potere, sta facendo le prove generali. Il linguaggio della guerra pare entrato nella comune sintassi e la verità esiste a corrente alternata. Se, poi, si ficca il naso sui retroscena dei conflitti, arriva la punizione.
Il padre di Assange ha invitato alla mobilitazione mondiale. Come ha ragione. Il nuovo primo ministro australiano Anthony Albanese aveva annunciato fuochi d’artificio quando era all’opposizione. Si è già rimangiato tutto? E Jean-Luc Mélenchon, in corsa per i ballottaggi francesi, ha sottolineato un impegno fortissimo se vincerà. La commissaria per i dritti umani del consiglio d’Europa si era pronunciata nettamente.
Dunque, la lotta continua. Come ha reso noto il collegio di difesa guidato dalla consorte di Assange Stella Morris verrà inoltrato ricorso contro la decisione della ministra inglese e vi sarà certamente un’iniziativa rivolta alla corte per i diritti dell’uomo di Strasburgo.
Ma è fondamentale che i mezzi di informazione parlino finalmente del pericolo che corrono essi stessi. A questo punto, se non si racconta ciò che sta accadendo, si finisce con l’essere complici di un misfatto.
Sono giornate, queste, che verranno ricordate. Un altro caso Dreyfus è alle viste. Ma a poco servirà se la storia darà ragione tra qualche anno a un coraggioso giornalista adesso vicino alla condanna a morte.
La questione si pone con drammatica urgenza. Piovono appelli e si stanno organizzando sit in e manifestazioni. Ha fatto sentire la sua voce anche l’organizzazione internazionale dei giornalisti, recentemente a congresso in Oman.
Presso la federazione nazionale della stampa si terrà una conferenza il prossimo martedì 21 giugno in collegamento con il premio Nobel per la pace Pérez Esquivel, autore di uno dei più prestigiosi tra i documenti contro l’estradizione.
Qualche fermento si coglie davanti all’enormità della slavina che scende veloce verso l’incosciente cittadella dell’ovest.
Non c’è dubbio che la giornata di giovedì 16 giugno sia stata «storica», tutti hanno così definito la visita dei tre leader europei che ha spianato la strada alla candidatura dell’Ucraina all’ingresso nell’Unione europea.
Ma non rappresenta una svolta nella guerra: di armi non si è parlato e non lo si doveva fare, perché questa era la precondizione dell’incontro. Kiev è stata soprattutto una tappa che rinsalda un’unità europea più volte messa in dubbio.
Ma le differenze restano, eccome.
Nonostante sia stato sottolineato che Francia, Germania e Italia si siano allineate nel sostegno senza esitazioni per l’Ucraina chiesto da tempo dai paesi del fianco est dell’Unione.
Non è però la fine dello scarto evidente tra i protagonisti tradizionali dell’Unione e i membri orientali che si trovano in prima linea a causa della loro storia e della loro geografia. Il presidente francese Emmanuel Macron ha dichiarato ieri che l’Ucraina non avrà mai pace se l’obiettivo finale del conflitto nel Paese è «schiacciare la Russia». In un’intervista alla tv
Leggi tutto: Dalla cortina di ferro alla gabbia d’acciaio - di Alberto Negri
Commenta (0 Commenti)AMBIENTE. L’obiettivo, entro il 2030, di 60 GigaWatt di rinnovabili, è possibile. Si può realizzare anche prima, se gli investimenti partono con iniziative pubbliche conseguenti
Finalmente Ciingolani in una intervista ha parlato chiaro e così scopriamo che tutti i suoi detti e non detti del passato sono riconducibili ad un ministro che sta alle politiche per l’ambiente come la volpe nel pollaio.
Ora è chiaro perché da quando è in carica ha parlato molto, spesso a sproposito e in modo ondivago, ma ha combinato ben poco, basta pensare che le semplificazioni proposte dopo ben due decreti-legge hanno lasciato la situazione praticamente immutata. Ecco alcuni esempi.
Non risulta che il Governo, in mora da un anno, abbia finalmente inviato a Bruxelles quella sorta di piano regolatore del mare che dovrebbe consentire alle aziende che vogliono investire nell’eolico off-shore di farlo (a 20/30 chilometri dalla costa) tenendo conto che le autorizzazioni in questo caso dipendono tutte dal Governo, quindi, non si possono scaricare colpe su Comuni e Regioni. Come non risulta che il Governo abbia approvato, su proposta del ministro un provvedimento per attribuire finalmente a Terna le decisioni, non la proprietà, sui pompaggi idroelettrici che valgono fino a 7,6 GigaWatt, una quantità ingente che potrebbe stabilizzare in rete l’offerta di energia elettrica da energie rinnovabili. A questo proposito: l’idroelettrico spesso non viene ricordato tra le fonti rinnovabili, eppure ci sono ancora margini di crescita come dimostra il Comune calabrese che ha ripristinato un piccolo impianto per produrre energia elettrica. Manca un piano per un progetto nazionale di efficientamento e di nuovo idroelettrico.
Non risulta dalle parole di Cingolani che sia a conoscenza del fatto che Terna stia realizzando un importante elettrodotto Sud/Nord per raddoppiare quello esistente, scelta che semmai andrebbe meglio valutata per evitare la desertificazione energetica dell’industria del Mezzogiorno.
Ancora più curioso l’elenco dei problemi da risolvere indicati dal ministro, che dovrebbero essere ben presenti nel programma di azione del Governo ma che invece sembrano stupire il ministro, quasi non fosse suo il compito di risolverli.
L’obiettivo di 60 GigaWatt di rinnovabili entro il 2030 è del tutto possibile e si può realizzare anche prima, se gli investimenti partono, ma occorre finalizzare le iniziative pubbliche a questi obiettivi. Ad esempio, una parte dei fondi riservati al cosiddetto 110 % potrebbero essere destinati anche al fotovoltaico, obbligandone l’installazione sui nuovi edifici, scuole, sedi pubbliche e aiutando i privati che lo installano. Se bisogna fare di più anche le iniziative debbono essere coerenti. Le alternative sono restare senza gas o continuare come prima ad inquinare e a produrre CO2.
Il Governo continua a non presentare un piano per il risparmio energetico nel settore industriale e non fa nulla per supportare al massimo possibile la produzione nazionale nei settori delle rinnovabili (Enel ha investito in Sicilia nei pannelli Ftv) con particolare riguardo ad accumulatori e microchip, che sono obiettivi europei.
Affermare che puntare sulle rinnovabili ci mette alla mercé della Cina è solo la conferma della pochezza dell’iniziativa del Governo. Curiosa poi l’amnesia del ministro sul Pnrr che prevede di arrivare a 25.000 punti di ricarica delle auto elettriche.
Come Osservatorio sul Pnrr abbiamo proposto da mesi che il Governo convochi rapidamente una conferenza nazionale per presentare un nuovo piano energia/clima che metta insieme in modo chiaro obiettivi, risorse, tempi di realizzazione. Per settori decisivi dell’industria nazionale, come la siderurgia, occorre arrivare ad usare l’idrogeno prodotto da rinnovabili, che Snam ha chiarito potrebbe essere distribuito utilizzando i gasdotti esistenti. Mentre oggi scopriamo che il ministro punta sui carburanti sintetici (suggerimento di Eni?) per ritardare la dismissione dei motori endotermici (favore ai produttori in ritardo sull’elettrico?).
Ora si comprende perché il ministro Cingolani si sia schierato con Il Ppe per fare saltare il programma europeo “Fit for 55”, in appoggio alle aziende automobilistiche in ritardo sull’elettrico e all’Eni che punta sui carburanti sintetici.
Insistiamo. Draghi deve intervenire per superare la confusione e l’inazione del ministro, altrimenti diventerebbero privi di effetti gli appelli in sede internazionale – anche recentissimi – affinché le crisi incombenti (energia/grano) causate dall’invasione dell’Ucraina non facciano passare in secondo piano la gravissima crisi climatica.
Draghi convochi al più presto una conferenza nazionale per presentare al paese le proposte del Governo italiano per un nuovo piano energia/clima all’altezza delle sfide attuali e degli obiettivi UE, da costruire in un confronto con tutti i soggetti interessati.
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ANALISI. Per abbattere le emissioni del 55% entro il 2030, il nostro paese dovrebbe raggiungere una quota del 40% di energie rinnovabili
Realizzare lo scenario che permette una forte riduzione del consumo di energia primaria e di importazione di fonti fossili già nei prossimi anni non è una cosa da poco. Molti analisti però hanno dato indicazioni per raggiungere il -55% di emissioni al 2030, con la speranza di vederle contenute nella revisione di un Pniec che tarda a uscire. Lo scenario che permette di raggiungere quegli obiettivi e che allo stesso tempo è in grado di minimizzare i costi annuali del sistema energetico deve fare riferimento all’incremento delle capacità installate di rinnovabili. Riassumendo i dati che circolano, si dovrebbe prevedere al 2030 una potenza complessiva di fotovoltaico di 85 GW (contro i 52 GW secondo il Pniec 2019), di eolico di 35 GW (18.4 GW secondo il PNIEC 2019), un aumento della produzione complessiva di biometano fino a 50-70 TWh/anno (circa 5-7 bm3/anno), la diffusione di pompe di calore al fine coprire il 45% della domanda termica del settore civile (circa 4 milioni di impianti), l’elettrificazione del trasporto leggero per almeno il 20% di veicoli elettrici in riferimento al parco italiano circolante al 2030 di 34 milioni, il programma di efficienza energetica degli edifici con una riduzione di 23 TWh della domanda complessiva di riscaldamento con interventi sull’involucro. Aggiungerei anche 5 GW di elettrolizzatori per arrivare almeno a 350 mila ton/anno di idrogeno verde. Tutto questo si traduce in una quota rinnovabile sul totale del 40% (contro l’attuale 20) ed una penetrazione delle rinnovabili nel mix elettrico almeno del 70%. Un impegno forte, investimenti importanti da affrontare con grande decisione, senza tentennamenti.
QUELLO CHE APPARE incongruo invece è che tale ferma decisione manchi proprio a colui che dovrebbe esserne il primo protagonista. Il ministro della Transizione ecologica ha dichiarato con inequivocabile chiarezza al recente Festival di Green&Blue che tutto questo è impossibile da realizzare – in realtà facendo riferimento al raggiungimento di gran parte di questi obiettivi nei prossimi tre anni – ma non per questo le sue affermazioni appaiono meno sorprendenti. Infatti sarebbe veramente grave se le sue esternazioni, diciamo poco coraggiose e poco lungimiranti, influenzino la strategia di decarbonizzazione italiana. Una strategia al ribasso, lontana dal processo di transizione energetica voluto in sede europea. L’impossibilità sarebbe dovuta, secondo quanto afferma il ministro, alla inadeguatezza della rete, alla localizzazione territorialmente squilibrata degli impianti, alla difficoltà di poter tener insieme transizione energetica con gli aspetti sociali. Le prime due motivazioni sembrano smentite dal Piano di Sviluppo 2021 di Terna, dove si dice che: «È necessario accelerare gli investimenti nelle reti, (…) al fine di incrementare la magliatura, rinforzare le dorsali tra Nord e Sud, potenziare i collegamenti nelle Isole e con le Isole, sviluppare la rete nelle aree più deboli, per migliorarne la resilienza, l’integrazione delle rinnovabili e risolvere le problematiche di regolazione di tensione. Terna sta già imprimendo un’accelerazione agli investimenti più importanti e di maggiore utilità per il sistema elettrico». La consapevolezza di essere di fronte ad un processo di cambiamento profondo ha portato Terna ad elaborare un piano di investimenti di lungo termine di oltre 18 miliardi di euro nei prossimi 10 anni. E ad essere convinta che l’obiettivo è quello di un’economia decarbonizzata attraverso una transizione basata su integrazione delle fonti rinnovabili, rafforzamento della capacità di trasmissione e resilienza delle infrastrutture.
ALLA TERZA DELLE ECCEZIONI, potremmo invece rispondere riprendendo quanto riportato nel recente piano energetico tedesco, www.cleanenergywire.org in cui, tra tanti obiettivi da raggiungere vi è anche l’esplicito riferimento agli aspetti sociali della transizione, proprio quelli citati in negativo dal ministro e che ne rappresentano invece una caratteristica fondamentale. In particolare, uno studio del gruppo di ricerca della Sapienza ha stimato l’impatto occupazionale associati ai nuovi impianti rinnovabili in Italia al 2030, quantificabile in circa 1,5 milioni in termini di posti di lavoro temporanei per la costruzione e l’installazione degli impianti e 50 mila posti di lavoro permanenti per la gestione e la manutenzione degli stessi. E’ stato possibile notare come la creazione di green jobs sia potenzialmente maggiore dei posti di lavoro persi nel settore fossile, approssimativamente di un fattore 3.
IL CITATO PIANO TEDESCO presentato lo scorso aprile da Robert Habeck, super ministro dei Verdi per economia e protezione climatica nella coalizione semaforo di governo, punta all’80% di produzione rinnovabile nel mix elettrico entro il 2030, per arrivare quasi al 100% di elettricità verde entro il 2035. Dal 2025 la Germania vuole installare 10-15 GW di nuova energia eolica ogni anno e vuole quadruplicare la capacità esistente degli impianti fotovoltaici a 215 GW entro il prossimo decennio. Anche la Gran Bretagna, come la Germania, ha stabilito di ridurre del 65%-68% le emissioni di anidride carbonica al 2030. In Spagna la legge per il clima e la transizione energetica punta ad azzerare le emissioni di CO2 entro il 2050 e prevede di portare le fonti rinnovabili al 74% del mix elettrico nazionale al 2030, con 60 GW installati. Il principale traguardo del governo UK al 2030 è avere fino a 50 GW di eolico offshore grazie a una riforma delle procedure autorizzative per tagliare da 4 anni a 1 anno i tempi per approvare i nuovi progetti e a nuove aste basate sui contratti per differenza (CfD, Contracts for difference). Il fotovoltaico dovrebbe invece quintuplicare la sua potenza totale installata, passando dagli attuali 14 GW a circa 70 GW nel 2035. Anche per la Francia, nonostante il nucleare, l’obiettivo è il 32% di rinnovabili al 2030.
TUTTI QUESTI NUMERI sono la conferma di una volontà chiara e decisa, pur nelle differenze dei singoli stati membri, di essere parte di una Europa e della sua strategia per un progressivo e urgente abbandono delle fonti fossili. Per convincersene basta leggere attentamente il recente documento REpowerEU, che analizza le difficoltà di una strategia molto ambiziosa e individua le modalità operative per realizzarla. In Italia no.
L’Italia appare incerta e ondivaga e questo clima di incertezza fa male al nostro Paese. Le ultime aste di fine maggio hanno assegnato solo 443 MW su 3355, meno del 15%, mentre nel resto d’Europa vanno a gonfie vele. E’ questa politica di retroguardia che fa male al nostro Paese.
* Prorettore Sapienza Università di Roma e Presidente Coordinamento FREE
Commenta (0 Commenti)Si dice che i bassi salari siano conseguenza della bassa produttività. Ma, pur considerando una minore crescita del Pil e un differente livello di produttività, non si spiega comunque una forbice salariale che, a partire dagli anni ’90, rispetto a Francia e Germania si è allargata di oltre 30 punti.
Non sarà che da noi la maggiore produttività si sia tradotta, più che altrove, in crescita dei profitti, lasciando al palo i salari? Non sarà che i maggiori profitti siano stati impiegati non per accrescere la competitività aziendale ma per investimenti nella finanza e nel mattone? Non esiste, forse, una correlazione tra il crescente peso della rendita e il ridimensionamento dei settori produttivi?
Il livello della rendita annua in Italia supera l’ammontare complessivo delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti (si aggira sopra i 400 miliardi di euro). Si tratta di un dato sorprendente, su cui però, quando si parla di produttività, non si focalizza mai l’attenzione. Si volge lo sguardo al costo del lavoro e si sorvola invece sulle distorsioni e sulle arretratezze che caratterizzano il nostro capitalismo.
Si dovrebbe invece coltivare un po’ la memoria e ritornare con la mente all’epoca della «finanza creativa» del ministro Tremonti (governo Berlusconi) quando avvenne una massiccia dismissione e privatizzazione del patrimonio pubblico. Lo scopo dichiarato era ridurre il debito dello Stato e incamerare risorse da destinare a investimenti per migliorare, appunto, la produttività del sistema economico.
Un totale fallimento su tutti e due i versanti. L’unico risultato è stato il trasferimento in mani private di uno straordinario portafoglio di assets pubblici.
Le amministrazioni delle grandi città, nello stesso periodo, hanno stretto accordi di programma con proprietari e costruttori, avviando programmi di rigenerazione urbana, di riutilizzo delle aree dismesse, di espansione edilizia. Il mercato immobiliare ha vissuto il suo periodo d’oro. La rendita trova nelle aree urbane nuovo alimento e occasioni di guadagno. Ebbene, di tutta questa ricchezza circolante sul territorio nelle casse statali entrano poche briciole, proprio a causa di un Catasto vetusto, non al passo con i tempi.
Nel frattempo, la qualità della vita, soprattutto dei cittadini meno abbienti, è peggiorata: abbandono delle periferie, degrado dell’ambiente, insicurezza, carenza di servizi.
Non c’entra niente tutto questo con la crescita dell’astensionismo? Non ha niente a che fare con la crisi italiana il fatto che gli alti rendimenti degli investimenti nel mattone abbiano spiazzato gli investimenti produttivi e modificato a favore della rendita gli equilibri economici, finanziari e sociali?
La vicenda dei Benetton, che disinvestono nell’industria tessile per rifugiarsi prima negli autogrill e poi nelle concessioni autostradali segna un passaggio d’epoca: dalla produzione alla rendita. Personaggi come Caltagirone, Berlusconi, Ligresti e altri, dopo aver fatto fortuna con il boom immobiliare, compiono il salto nel mondo della finanza e dell’editoria. Chi non ricorda i «furbetti del quartierino» (Coppola, Ricucci, Statuto), celebrati come «nuovi imprenditori» da esponenti di sinistra in piena ubriacatura liberista?
Per tornare a noi, il centrodestra ha vinto la partita sul Catasto perché, con la parola d’ordine «no alle tasse sulla casa», ha sfruttato abilmente la paura degli italiani. Ha legato, in un unico blocco sociale, gli interessi dei piccoli e dei grandi proprietari. Ha saldato il 75 per cento delle famiglie, che abitano nella casa in proprietà (generalmente l’unica) con il 5 per cento degli italiani più ricchi, che posseggono il 25 per cento di tutto il patrimonio immobiliare (dati Banca d’Italia). E ha bloccato la riforma, sine die, sulla base di un accordo inaudito, secondo il quale il Catasto può funzionare unicamente su dati vecchi.
Assistiamo al paradosso giuridico che la ricchezza immobiliare italiana, pur in presenza di valori catastali aggiornati, continua a nascondersi dietro estimi superati.
Che dire, infine, del grande business generato dallo sfruttamento delle spiagge? Circa 14 mila tra stabilimenti balneari, campeggi, complessi turistici, circoli sportivi occupano 3500 degli 8300 km di costa che circondano l’Italia. Il 43 per cento dell’accesso al nostro mare (i punti di maggiore pregio) è di fatto privatizzato.
I titolari delle concessioni pagano canoni irrisori e dichiarano redditi improbabili (la cui affidabilità è messa in discussione dalla stessa Agenzia delle entrate). Ebbene, la maggioranza di governo decide di concedere indennizzi ai concessionari di demanio marittimo qualora dovessero perdere le gare pubbliche. Un danno per le finanze pubbliche e un vulnus allo Stato di diritto.
Nel paese dei bassi salari le leggi sul Catasto e sulla concorrenza non servono a spostare la pressione fiscale dal lavoro alla rendita. Ricchi proprietari, rendite di posizione e privilegi corporativi non si toccano. Tout va, nonostante l’elevato debito pubblico e la crisi economica e sociale che avanza.
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