Il fallimento era largamente previsto. Il record negativo di partecipazione permette di guardare direttamente ad alcune questioni di fondo sino ad ora sottovalutate. In questo caso, non ci si può giustificare dando la colpa al quorum strutturale di validità.
Previsto in Costituzione all’articolo 75, ritenuto troppo elevato: se l’80% circa degli aventi diritto al voto non hanno risposto al quesito, evidentemente, la ragione è da ricercare nel «tipo» di domande formulate e nella distanza tra queste e la realtà percepita dal corpo elettorale. In fondo basta pensare al fatto che il referendum, così come ogni appello al popolo, necessariamente comporta una semplificazione: la risposta non può che essere univoca, sì o no. Questo è accettabile a condizione che la portata politica e culturale del quesito sia di immediata evidenza.
COSÌ È STATO O POTREBBE essere – al netto dell’ammissibilità – in molti casi (divorzio, aborto, nucleare, ergastolo, beni comuni, liberalizzazione delle droghe leggere, eutanasia). Nei casi in cui, invece, il quesito diventa tecnicamente complesso e assolutamente specifico, l’unica possibilità di successo è affidata alla demagogia, che è spesso figlia dell’inganno.
Questo è avvenuto per i cinque quesiti sulla giustizia. Non solo di difficile comprensione, ma anche per nulla idonei a perseguire gli scopi dichiarati.
Come si fa in effetti a pensare che una questione tanto particolare com’è la possibilità di attribuire il diritto di voto agli avvocati e ai professori nei Consigli giudiziari e nel Consiglio direttivo della Corte di Cassazione possa garantire un più equo processo? In realtà, è questo un tema che riguarda principalmente i rapporti tra magistratura e avvocatura, non le più immediate preoccupazioni dei cittadini. Così anche gli altri quesiti proposti, nessuno dei quali tale da porre fine alle reali difficoltà che sono alla base del cattivo funzionamento della giustizia.
ABBANDONATI i referendum al loro inglorioso destino, dovremmo adesso cominciare ad affrontare le vere questioni, che sono sotto gli occhi di tutti.
La sfida è già in corso, il «pacchetto» Cartabia non comprende solo la riforma del CSM, ma ha già posto le basi per la trasformazione dei processi civile e penale. L’ambizione è alta: ci si è impegnati con l’Europa a ridurre del 40% i tempi dei processi civili e del 25 % quelli del penale. Se questi sono gli auspicabili obbiettivi come conseguirli?
Se si vuole superare la prospettiva aziendalistica, che troppo spesso inquina la discussione, dovremmo rivendicare una riforma «costituzionalmente orientata», ovvero in grado di garantire autonomia e indipendenza dell’ordine della magistratura (art. 104 Cost.); assicurare una «ragionevole durata» dei processi che però non contraddica il principio del “giusto processo” (art. 111 Cost.), né pregiudichi la tutela dei diritti e le garanzie di difesa (art. 24 Cost).
ABBREVIARE DUNQUE i tempi, ma senza compromettere le garanzie. Non è una sintesi semplice da raggiungere e c’è un doppio rischio da evitare. Quello di avere una sentenza rapidamente, però sbagliata oppure di avere una sentenza giusta, ma dopo troppo tempo. Un’alternativa diabolica cui si sfugge solo se si riuscirà ad ottenere una sentenza argomentata in tempi ragionevoli.
Ma per ottenere questo risultato non basta intervenire sulle regole dei processi è necessario operare su più piani. Quello del «diritto penale minimo» in grado di ridurre l’incidenza della repressione penale a favore di altre forme di tutela sociale, prevedendo un’ampia depenalizzazione di tutte quelle fattispecie ritenute ormai di scarsa pericolosità sociale, riqualificando l’azione penale con riferimento ai reati di maggiore impatto e disvalore sociale.
Ridurre la litigiosità nel processo civile incentivando misure e forme alternative, ma evitando la degenerazione della giustizia privata ovvero ostacoli eccessivamente punitivi all’esercizio dell’azione civile, garantendo comunque nel corso del processo il contraddittorio tra le parti in condizione di parità (art. 111 Cost.).
SI DOVREBBE, INOLTRE, intervenire sulle carceri per ridurre il sovraffollamento, incentivando il reinserimento sociale e assicurare la rieducazione del condannato (art. 27 Cost).
Si dovrebbe infine prestare maggiore attenzione alla formazione dei magistrati, senza limitarsi ad estendere il ruolo della Scuola Superiore della Magistratura, ma utilizzando anche altri canali formativi.
In questo contesto non deve essere sottovalutata la responsabilità anche della formazione universitaria che si caratterizza sempre meno in chiave problematica e sempre più si accontenta di una preparazione puramente nozionistica, che non regge alla prova dei fatti. I dati dell’ultimo concorso in magistratura sono inquietanti: il 95 % dei candidati non ha superato la prova.
La Nuova Unione Popolare Ecologista e Sociale guidata da Mélenchon è la vera vincitrice del primo turno delle elezioni francesi. Con il 25,7% dei voti, a pari merito del Presidente in carica e lasciando Marine Le Pen poco sopra il 18%, il risultato è straordinario. Con questa spinta è sicuro che il raggruppamento di sinistra sarà il gruppo più grande dell’opposizione ed è molto probabile che Macron non riesca a conquistare la maggioranza assoluta del parlamento, aprendo la strada ad una dialettica politica assai positiva. Non oso immaginare di più, ma certo questi due risultati costituiscono già un grande risultato, perché uno dei paesi più importanti d’Europa si troverà ad avere un condizionamento sociale importantissimo e per certi decisivo per mettere sabbia nei meccanismi dell’Europa liberista arruolata nella Nato.
Quindi innanzitutto un grande applauso a Jean Luc Mélenchon e alle compagne e compagni francesi.
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INDIETRO DI 50 ANNI. Se continuerà su questa strada la Bce contribuirà a farci entrare più velocemente del previsto nel tunnel della recessione, ovvero nella stagflazione
Esattamente cinquanta anni fa si accendeva la spirale inflazionistica in Occidente dopo un lungo periodo di stabilità dei prezzi. In pochi anni divenne la bestia nera dei governi e degli economisti che inutilmente cercarono di controllarla per tutti gli anni ’70 del secolo scorso.
All’origine del fenomeno inflazionistico c’erano più fattori: lo shock del prezzo del petrolio che nel 1973 aumentò in pochi mesi di quattro volte, l’aumento del prezzo di alcune materie prime essenziali per l’industria, e soprattutto la conflittualità della classe operaia. Quest’ultimo divenne nel tempo la causa più rilevante della crescita generalizzata dei prezzi. In breve, alla forza della classe operaia, ai miglioramenti contrattuali e salariali, il capitale rispose nel solo modo che conosceva per ricostruire i margini di profitto, alzando i prezzi delle merci.
In Italia, come è noto, la rincorsa prezzi-salari si interruppe nel 1985 con l’eliminazione della scala mobile che faceva recuperare, seppure in ritardo, il potere d’acquisto dei salari e degli stipendi.
Ma, proprio la fine della scala mobile produsse l’effetto di ridurre progressivamente la domanda di beni di consumo nel mercato interno per cui le imprese italiane spinsero ancora di più l’acceleratore verso i mercato esteri, con l’appoggio dei vari governi che in quegli anni svalutarono più volte la lira.
A sua volta le svalutazioni che favorivano le imprese esportatrici importavano inflazione, in quanto i beni e servizi esteri costavano di più, e riducevano ulteriormente il salario reale dei lavoratori dipendenti e di una parte del ceto medio.
Da quel momento iniziò una redistribuzione della ricchezza nazionale a favore di profitto e rendita, a danno dei lavoratori che progressivamente hanno perso in quarant’anni 15 punti percentuali a favore del capitale, in particolare della rendita finanziaria.
Con la caduta del muro di Berlino nell’89 e l’apertura della Cina al mercato mondiale abbiamo assistito per trent’anni ad una crescita dell’economia mondiale in un clima di stabilità dei prezzi a fronte di una valanga di liquidità monetaria immessa dalle banche centrali, a partire dagli Usa il cui debito pubblico è andato alle stelle. Malgrado questa valanga di dollari immessa dalla Fed, malgrado una bilancia commerciale perennemente e pesantemente passiva, negli States i prezzi restavano stabili.
Questo fenomeno contraddiceva la teoria quantitativa della moneta, per gli addetti ai lavori la famosa equazione di Fisher, ma era facilmente spiegabile con globalizzazione del mercato capitalistico che aveva messo in concorrenza i lavoratori di tutto il mondo, facendo sì che molti beni di largo consumo venissero importati in Occidente con una curva dei prezzi in discesa (basti pensare agli elettrodomestici, abbigliamento, ecc). Così per decenni ne hanno beneficiato i consumatori occidentali, ma sono stati progressivamente colpiti i lavoratori dipendenti nel settore privato dell’economia (disoccupazione e blocco/ riduzione salari reali).
Le imprese europee e nordamericane hanno spostato il conflitto di classe, che le aveva viste in grande difficoltà negli anni ’70, dal mercato interno a quello globale, ponendo le basi per un conflitto tra lavoratori sia a livello locale (scontro con gli immigrati) che internazionale ( il cosiddetto “sovranismo” ha questa base materiale).
Con le sanzioni alla Cina, i danni della pandemia, la crisi del mercato globale, gli Usa sperimentano oggi un tasso di inflazione vicino al 10 per cento che non vedevano dal 1981! E la guerra in Ucraina c’entra poco o nulla. Anzi, da questa guerra per adesso l’economia nordamericana ne beneficia, con l’export di gas, cereali ed armi, al contrario dell ’Unione europea che ne subisce proprio in questi settori un forte contraccolpo. L’inflazione che colpisce gli Usa ha una base strutturale che è correlata alla de-globalizzazione, ben messa in evidenza da Bertorello e Corradi su questo giornale, che non verrà facilmente superata nel breve periodo.
I consumatori e le imprese statunitensi non beneficiano più di una parte di beni importati dalla Cina a prezzi stracciati rispetto allo standard a stelle e strisce. E mentre per la Cina esiste un potenziale allargamento del mercato interno per sostituire i flussi di export, non altrettanto può avvenire negli Usa.
Diversamente nella Ue l’inflazione è dovuta soprattutto all’aumento delle materie prime (non solo petrolio, gas e cereali) ed è dunque una inflazione da costi mentre negli anni ’70 era soprattutto un’inflazione da domanda. Per questo la decisione di aumentare il tasso d’interesse da parte della Bce è un brutto segnale, male accolto dagli operatori di borsa e dalle imprese dell’economia reale. Se continuerà su questa strada la Bce contribuirà a farci entrare più velocemente del previsto nel tunnel della recessione, ovvero nella stagflazione delle cui avvisaglie su questo giornale avevamo scritto un anno e mezzo fa.
Morale della storia: il governo dell’inflazione, su come ridurla e a chi farla pagare, è una scelta politica prima che economica. Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca, tenere insieme il diavolo e l’acqua santa (ammesso che sia rappresentata da qualcuno!), e quindi non ci si può nascondere dietro le quinte di un governo “tecnico”, e pensare ad un futuro governo delle larghe intese.
Commenta (0 Commenti)POST VOTO . Se il crollo al 20 per cento di votanti referendari fa spavento, non dispone all’ottimismo il calo, quasi il 6 per cento, dell’affluenza per le comunali, che dal 60,12 per cento delle precedenti amministrative sono finite al 54,72 di questo 12 giugno 2022.
Salvini nel centrodestra e Conte nel centrosinistra escono dalle urne piuttosto malconci. Più ammaccato il leader leghista (per la doppia batosta: referendum e comunali), meno Conte perché i 5Stelle alle amministrative hanno sempre sofferto. Le percentuali pentastellate sono molto basse, e prestano il fianco a chi, come Renzi, Calenda e parte del Pd, spinge per prenderne il posto nell’esperimento del “campo largo” a trazione centrista (contro il salario minimo, contro il reddito di cittadinanza… ).
Ma se nel caso delle amministrative, si tratta tuttavia di un test parziale, il flop referendario, sì atteso ma non per questo meno scioccante, somiglia invece a una sorta di de profundis politico di questo strumento di democrazia diretta. Chi oserà domani rischiare di riproporlo?
Lasciamo da parte gli incomprensibili tecnicismi dei quesiti, che in larga parte vi hanno contribuito, ma il colpo micidiale lo ha inferto soprattutto
Leggi tutto: Campo stretto e boomerang sul referendum - di Norma Rangeri
Commenta (0 Commenti)Mentre nelle autoproclamate repubbliche del Donbass si decide se fucilare o impiccare i prigionieri di guerra e a Mosca la lucida follia imperiale di Putin continua a insanguinare e distruggere l’Ucraina, nei paesi europei la vita politica e parlamentare, per fortuna, continua con i suoi appuntamenti democratici. Oggi la Francia va al voto per le legislative dopo la riconferma di Macron all’Eliseo, mentre in Italia si aprono i seggi delle amministrative e dei referendum. Rituali di una libertà politica mai abbastanza apprezzati.
Le elezioni amministrative e i referendum nulla hanno in comune, ma su richiesta delle nove regioni di centrodestra e dei radicali, i cinque referendum sulla giustizia sono abbinati ai rinnovi dei consigli comunali nella speranza di agguantare il quorum, trainati dall’affluenza del voto locale.
Obiettivo difficile per due motivi: la crescita dell’astensionismo in
Leggi tutto: Chi sarà sconfitto dalle urne - di Norma Rangeri
Commenta (0 Commenti)Dal punto di vista di una guerra nel cui carattere si rispecchia una globale tensione conflittuale, certe opinioni sono semplicemente armi di combattimento
Il Corriere della Sera di domenica scorsa illustrava realisticamente il modo italico di essere cobelligerante. Ci sono molti modi, infatti, oltre quello di mascherarsi dietro l’espressione «operazione speciale», per essere concretamente in guerra pur negandolo. Il giornale in un articolo, sul quale si è discusso molto, ci informa che i nostri servizi segreti compilano liste di «opinionisti» che sono al servizio di Mosca. Contemporaneamente una firma del quotidiano indica i luoghi, la «foresta rossa», dove i servizi possono pescare a piene mani (Severgnini, Il richiamo della foresta rossa). Secondo il commentatore del Corriere gli azzeccagarbugli della «complessità» faticano a separare il regime di Putin dalla storia sovietica. In verità molti di quegli azzeccagarbugli hanno prodotto studi seri e ponderosi proprio sui caratteri di tale distinzione. Ma perché fare lo sforzo di leggerli quando la realtà è squadernata immediatamente davanti ai nostri occhi?
Il secondo volume di Guerra e Pace comincia con
Leggi tutto: Le liste dei putiniani e i segretari dell’opinione dominante - di Paolo Favilli
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