Care lettrici e cari lettori, comincia oggi un lavoro che ci porterà ad avere dopo l’estate un manifesto rilanciato nella sua voglia di raccontare il mondo e di cambiarlo raccontandolo.
Abbiamo molte ricchezze da impegnare per fare un giornale sempre migliore, con sempre maggiore capacità di indagare i mutamenti sociali dietro le cronache, ancora più voglia di scoprire nuove storie e illuminare con luce nuova quelle vecchie, più capacità di essere chiari senza essere riduttivi e senza sfuggire le complessità, più curiosità per i movimenti politici e culturali, nessun rispetto per primogeniture e rendite di posizione; un giornale con più coraggio nell’ascoltare le idee degli altri e portare avanti le proprie. Sempre dalla parte del torto. Di tutti i nostri torti – la pace innanzitutto, la critica del capitalismo, la lotta alla devastazione ambientale, l’antifascismo – che alla prova dei fatti sono le uniche buone ragioni da opporre a un destino che minaccia ormai la sopravvivenza del genere umano.
Abbiamo bisogno di un giornale che possa svolgere al meglio la sua prima funzione, antica ma di nuova e stringente urgenza: creare un ambiente condiviso per la discussione e l’azione politica. Ambiente che dovremmo costruire ogni giorno con notizie e analisi che gli altri non hanno, con la capacità di condurre battaglie culturali, la fantasia di non essere mai prevedibili, con idee che altrove sono considerate bestemmie e smascherando assiomi e presunte verità indiscutibili che altro non sono che gabbie per l’oppressione dei forti sui deboli. È il campo di azione della nostra parte, la sinistra plurale, tutta la sinistra, per la quale vogliamo che il manifesto sia uno strumento irrinunciabile.
Abbiamo bisogno di un giornale che abbia sempre un punto di vista, senza il quale, scriveva Luigi Pintor cinquant’anni fa, sarebbe «solo una salsiccia di articolesse e un tritato di informazioni». Un giornale che avvicini perciò nuovi lettori, grazie agli abbonamenti digitali e al sito dove da anni pubblichiamo tutti i nostri contenuti senza chiedere in cambio i vostri dati, ma anche all’edizione di carta, alla quale pure nelle difficoltà e nelle trasformazioni non rinunciamo.
Le ricchezze che impegneremo a fondo sono innanzitutto la nostra indipendenza – il nostro essere senza padrone è un caso quasi unico in Europa e quando non è unico è perché il manifesto ha fatto scuola – e poi il talento e la competenza della nostra redazione e dei nostri preziosi collaboratori, la straordinaria storia che questa testata ha alle spalle e che vive nel nostro archivio, l’appoggio dei nostri lettori. Non abbiamo ricchezze economiche, anche per questo il giornale appartiene a voi lettrici e lettori quanto a noi che lo facciamo e che ne siamo gli orgogliosi proprietari. Per vivere ha bisogno del sostegno quotidiano di chi ci conosce da tempo e di chi ci ha scoperto da poco ma già non può fare a meno del manifesto. E può vivere grazie al finanziamento pubblico, lo rivendichiamo a testa alta perché «il pluralismo alimenta la vita democratica e la libertà degli italiani ed è certamente compito della Repubblica sostenere le iniziative editoriali che si caratterizzano in questo senso», come ha detto ancora pochi giorni fa il presidente Mattarella.
Questi sono i nostri obiettivi. Per provare a raggiungerli abbiamo bisogno di coinvolgere non solo la redazione ma anche la comunità dei collaboratori, dei lettori, dei sostenitori di questa forma originale della politica che è il nostro giornale. E abbiamo bisogno anche della vostra pazienza: le novità arriveranno nel tempo, dopo l’estate. Ma già oggi come nel primo editoriale del manifesto possiamo dire che «in fin dei conti non ci affidiamo ad altro che a un lavoro collettivo; a una passione militante». Dovremmo discuterne tanto, sarà faticoso ma non c’è altro modo per mantenere vivo il senso di un agire comune.
Per un giornalista non c’è posto più bello al mondo che il manifesto, dove sono arrivato 22 anni fa. Per questo sono enormemente grato ai soci della cooperativa che mi hanno affidato il compito di dirigerlo. Lo farò assieme a Micaela Bongi e Chiara Cruciati che hanno accettato la mia proposta e saranno vice direttrici. Ringrazio Norma Rangeri che tra i suoi tanti meriti ha quello di averci guidato nel passaggio doloroso dalla vecchia alla nuova cooperativa e che, come ha annunciato lei stessa, non farà mancare la sua voce a questa comunità. Ringrazio Tommaso Di Francesco che, come ha sempre fatto nel corso del suo lunghissimo impegno al manifesto, continuerà a dialogare dalle nostre pagine con amiche e amici del giornale, collaboratrici e collaboratori, lettrici e lettori, garantendo trasparenza e condivisione al lavoro che faremo per progettare il rilancio. Ci piacerebbe presentarne gli esiti in una grande assemblea dopo l’estate. Ringrazio soprattutto lettrici e lettori e chiedo loro di starci vicini, ancora di più. Abbiamo bisogno di quel coraggio al quale ci ha richiamato Luciana Castellina, «il coraggio di inventarsi un mondo nuovo»
IL SALUTO DEL CONDIRETTORE. Il ruolo che "il manifesto" deve svolgere in questa fase politica è quello di essere, come insisteva Pintor, una «forma originale della politica», strumento dei conflitti e dei movimenti
Che succede al manifesto? Si son chiesti tanti nostri lettori e collaboratori che pure ci hanno subito inviato messaggi di ringraziamento e richiesta d’informazione. Allora, è fulmine a ciel sereno? Come Norma Rangeri – che ringraziarla per il suo lavoro e la sua testardaggine non sarà mai abbastanza – ha spiegato, la sua direzione del giornale data da 14 anni, in parte con la vecchia cooperativa e almeno 10 con la nuova, e la mia nella condirezione, voluta da Norma e votata a larga maggioranza dal collettivo redazionale nell’aprile del 2014, dura da nove anni. Una condizione che pone oggettivamente e all’ordine del giorno un cambio di direzione, alla luce di due questioni non da poco.
Che i termini statutari della nostra azienda cooperativa, l’unica vera che edita un giornale quotidiano senza padroni che non i suoi lavoratori, sanciscono che la direzione deve durare in carica tre anni – certo rinnovabili, ma il “rinnovo” è stato automatico, ed è stato il tempo lungo, inedito, oneroso, difficile della pandemia che ha creato tra l’altro necessarie quanto insopportabili e gravi distanze; secondo punto dirimente è che è emersa nella redazione una nuova generazione politica a cui passare il testimone che ha fatto il giornale ogni giorno, molti da trenta o più di venti anni, che chiede nuovo ruolo e attenzione.
Fatto che per me rappresenta, insieme ad avere stabilizzato la condizione economica del giornale che comunque deve vendere di più, il risultato migliore che potevamo ottenere e sicuramente un segno di vitalità per il nostro futuro. Molti, tante compagne e compagni, a cominciare dalla stessa Norma, mi hanno chiesto di candidarmi alla direzione, ma io ho risposto di no. Per una stanchezza, non certo politica, ma fisica dopo nove anni, e per la decisione di voler approfondire, anche con rigoroso studio, il precipitato allarmante della crisi italiana – era l’anello debole del sistema capitalistico, ora siamo approdati all’estrema destra inanellata al governo Meloni, che ha nella guerra e nel riarmo la sua polizza assicurativa, che ora viene presa per mano con calore da Biden – e di quella internazionale, approfondimento che certo farò dentro il giornale non altrove – per me un altrove non esiste. Ne vale la pena. Piuttosto che una coazione a ripetere il ruolo di direttore che non deve mai ridursi a «ministro delle rogne». Fatemi ringraziare qui Luciana Castellina, preziosa fin dai primi anni angusti nel sostenere il manifesto nella sua ripresa e rilancio con la nuova cooperativa dopo la storica, dolorosissima rottura del 2012 che, forse è bene ricordarlo, si caratterizzò per il fallimento della nostra impresa editoriale: Luciana non è solo la testimone della nostra origine – alla quale con l’orgoglio ho partecipato essendo io stato radiato dal Pci nel novembre-dicembre 1969 con il gruppo del Manifesto – ma è la persona infaticabile e sempre “in movimento” che più di ognuno di noi ha mantenuto i rapporti con i giovani. Altro che dinosauri.
IL MIO IMPEGNO e il mio lavoro sono a disposizione, per l’analisi editoriale quotidiana e per il coinvolgimento sempre più decisivo dei lettori e dei collaboratori – come abbiamo fatto con decine e decine di iniziative “Per il manifesto” nel 2019. Perché resto convinto che il manifesto, pur essendo indiscutibilmente sola proprietà dei soci della cooperativa e della redazione – da ammirare e ringraziare tutta, perché sopravvive con coraggio in condizioni economiche imparagonabili ad altri giornali quotidiani – appartenga però anche al vasto pubblico di chi ogni giorno ci sostiene, un mondo che vede nel manifesto non uno strumento qualsiasi, ma l’unico in questa fase per definire, in primo luogo, contenuti alternativi e nello stesso tempo per essere interlocutore di quello che viene rielaborato a sinistra: non penso solo alla pluralità dei partiti – per i quali siamo per vocazione la sede ideale ed unica del loro confronto -, ma dei movimenti.
Se c’è un ruolo che il manifesto deve svolgere in questa fase politica è quello di essere, o di tornare ad essere come insisteva Pintor «una forma originale della politica» strumento dei conflitti, anche attraverso un «giornale che è un giornale che è un giornale». Per il quale manterrei semplicemente, umilmente, l’ispirazione in ditta che era stata di chi lo aveva fondato, vale a dire «Il manifesto quotidiano comunista». Comunismo, che certo non è all’ordine del giorno, ma resta il conflitto-movimento più alto pur se sconfitto nei suoi insediamenti storici. «Socialismo o barbarie» non è una bella e dimenticata frase del passato, ma attualissima. La fase che attraversiamo è infatti quella discendente della distruzione delle risorse, anzi «della» risorsa, l’esistenza del pianeta. Per un mondo dove tutto deve essere ridotto a merce, dai rapporti di produzione, al lavoro, ai rapporti sociali ed umani derubricati ad essere scarti di una logica di dominio che riproduce solo diseguaglianze. Senza quella dicitura in ditta saremmo mai stati capaci, e con una originale griglia interpretativa, – insisteva Rossana Rossanda – di esistere per più di 50 anni? Quanti giornali e giornaletti sono nati e naufragati senza un’idea di fondo del rivolgimento necessario sociale e politico e senza le parole per dirlo?
I giorni che stiamo attraversando sembrano indurci al pessimismo, ma credo che oggi il pessimismo oltre che serbatoio dell’intelligenza sia anche il risultato di uno scarso approfondimento della realtà.
LO STESSO governo Meloni è il risultato di una sconfitta che possiamo e dobbiamo considerare tutt’altro che eterna, FdI ha avuto il 26% del 63% di quelli che sono andati a votare il 25 settembre, è un governo di minoranza dunque che dobbiamo mandare a casa. È insidiato dallo stesso scontro sugli orizzonti della destra che, dopo la morte di Berlusconi, non riesce a consolidare la compagine dell’esecutivo, soprattutto in rapporto al più diretto referente internazionale, l’Unione europea fin qui realizzata, sempre meno sovranazionale, dove torna a spirare prepotente il vento freddo dei nazionalismi e dei sovranismi e per rapporto alla quale non riesce a spendere i fondi del Pnrr e si divide sul Mes.
E CHE PER sopravvivere ha bisogno di mettere d’accordo l’impossibile, l’autonomia differenziata che spacca socialmente ed economicamente l’Italia in feudi e potentati, con il presidenzialismo autoritario che riconduce ad unum il processo democratico. Mentre si appalesa una realtà che comincia i primi passi, di nuovi movimenti e conflitti latenti che ormai esplodono, che abbiamo avuto il merito di avere segnalato nel nostro numero speciale di fine anno.
C’È LA CGIL, il principale e più storico sindacato di classe, che si propone all’attenzione essa stessa come movimento, fatto rilevante che coinvolge e unifica lotte e protagonisti; c’è il reddito di base da rivendicare di fronte alla ormai strutturale incapacità del capitalismo finanziario di garantire occupazione se non precarizzata, mentre il welfare viene subordinato anche in Europa al warfare; c’è la «flotta dei soccorsi», le navi delle Ong che, osteggiate e bandite, salvano i migranti, e che oltre a questa vitale iniziativa per fermare la deriva dei massacri ha il merito di ricordare che la vicenda delle migrazioni è l’evento di massa più grande della nostra epoca, l’Onu calcola 3 miliardi di «spostati» entro il 2059 per effetto di crisi climatica, ambientale, nuove miserie e guerre. Su questo, sull’accoglienza comunque e dovunque, il manifesto si è fortemente caratterizzato; il femminismo, la lotta alla violenza contro le donne, l’uguaglianza di genere, i diritti Lgbt che aprono il campo ad una nuova visione dei diritti della persona costitutivi dei diritti umani; l’ambientalismo che da predicazione è diventato un fronte di lotta con l’obiettivo della transizione ecologica e dell’energia rinnovabile sempre più allontanato e rimesso ormai in discussione dai governi, un fronte per il quale resta fondamentale l’individuazione dei soggetti sociali, a partire dai lavoratori dell’energia, che possono esserne i protagonisti; la sanità pubblica che torna in piazza contro la privatizzazione che si è fatta sistema; il nuovo pacifismo che sempre più si caratterizza come dichiarava Gino Strada “contro la guerra”, contro ogni guerra comunque mascherata, dell’Occidente e dell’Oriente, dell’est e dell’Ovest, della Nato e di Putin: il mondo è cambiato in questi dieci anni, ma la costante è rimasta la guerra, quante ne abbiamo viste prima di arrivare all’aggressione di Putin all’Ucraina, Libia 2011, Siria 2013, l’allargamento della missione in Afghanistan, Yemen senza dimenticare la Palestina che resta ancora in balia di una occupazione militare dei suoi territori.
A MIO PARERE, per comprendere la guerra in Ucraina – che anche quella abbiamo problematizzato con una posizione originale che ci viene riconosciuta da più parti, ma senza dividerci in questo tragico anno e mezzo di conflitto scellerato -, bisogna necessariamente tornare ad interrogarsi sull’89 e sulla fine dell’Urss: l’avere abbandonato quel campo di ricerca, rimproverava Rossana Rossanda a tutta l’ex redazione – i vecchi e i giovani – nel settembre 2012 – ci ha sguarniti delle categorie interpretative anche per giudicare la natura reale della «vittoria» rivendicata dall’Occidente e la fine della Guerra fredda, proprio quando tornavano d’attualità nuove guerre e nuovi muri.
E c’è la questione del digitale, che ha cambiato fruizione e modo di scrivere – anche da noi si riducono le vendite cartacee e aumentano quelle online – un tema che non solo pretende la costruzione di una redazione online adeguata al cartaceo e viceversa – per questo si è speso Matteo Bartocci che ha fatto fare un salto di qualità a tutti noi nella comprensione delle novità. Non basta, dovremmo farlo diventare lavoro d’informazione e ricerca come ai tempi del sempre presente, amico e compagno fraterno, Benedetto Vecchi e dell’inserto Chip&Salsa – comunque è certo che non sarà l’intelligenza artificiale a dirigere il manifesto: questa è una delle poche sue impossibilità.
Ultimo, ma non per ordine d’importanza, lo scontro che si apre sulla memoria, quella remota e quella prossima: questo farà il governo Meloni, rimetterà in discussione la verità sulla lunga stagione delle stragi nere e di Stato – quella strategia della tensione degli anno Settanta e Ottanta contro i movimenti studenteschi, operai e l’ascesa del Pci – nonostante che ormai la verità sia convalidata da ripetute sentenze della giustizia. E allora bisognerà opporre quella che io chiamo «memoria attiva». Da questo punto di vista c’è una ricchezza del manifesto assolutamente inesplorata, una miniera dove l’estrattivismo sarebbe augurabile: sono i nostri archivi, ai quali ricorrono miriadi di ricercatori, giovani e no, saggisti e scuole di giornalismo, che dovrebbero diventare iniziative tematiche del lavoro della redazione e forse una base memoriale di una «fondazione» che tenga insieme tutte le epoche della storia del Manifesto proiettandole nell’orizzonte futuro che ci sta davanti.
C’È DUNQUE molto lavoro da elaborare, da fare, da informare, da scrivere, mescolando se possibile le lingue delle sezioni, esteri cultura interni società visioni, in una migliore configurazione dei nostri preziosi inserti settimanali. Perché su tutto questo il manifesto dovrà essere il laboratorio. Dei movimenti e di tutta la sinistra. Viva il manifesto
Commenta (0 Commenti)RUSSIA. I nonviolenti che sono contro la guerra d’invasione in Ucraina subiscono una durissima repressione
Il primo messaggino di allarme arriva già nella notte: «Amici, sta accadendo quello che ci aspettavamo, per cui siamo già preparati. Il nostro lavoro non sarà in alcun modo intaccato». Lo manda da San Pietroburgo Elena Popova, la leader del Movimento degli Obiettori di coscienza russi.
Nello scontro tra le truppe di Prigozhin che avanza verso la capitale, e la corte di Putin barricata al Cremlino, c’è una vasta terra di nessuno nella quale ci stanno loro, i pacifisti, che dal primo giorno hanno rifiutato la guerra e ora si trovano al centro dello scontro tra due bande militari.
DARYA BERG è un’attivista nonviolenta russa esule in Georgia, coordinatrice dell’organizzazione antimilitarista “Go By the Forest” (in russo ha il significato misto di «Scappa, se puoi», ma anche «Vai a farti fottere», rivolto a Putin) che ha lo scopo di aiutare il maggior numero possibile di persone ad evitare di essere coinvolte nel sistema militare: «Il giorno in cui Putin e il suo governo hanno iniziato la guerra in Ucraina, hanno messo la Russia a rischio di: disastri economici, guerra civile e una giunta militare al potere.
La rivolta dei mercenari di Prigozhin è un’escalation di violenza, una minaccia diretta a milioni di civili in Russia, in particolare donne e bambini. I combattenti della Wagner sono principalmente ex detenuti, molti dei quali incarcerati per femminicidi, per violenza domestica contro le donne». È la prima dichiarazione ufficiale del movimento pacifista in esilio, concordata con chi è rimasto ad operare per la pace in patria. Ma ora cosa può fare il movimento pacifista russo? «Come movimento politico che ha a cuore il futuro del nostro paese – prosegue Darya Berg – non possiamo sostenere nessuna delle parti nell’attuale conflitto politico interno. Vogliamo il ritiro delle truppe russe dall’Ucraina, l’arresto dei criminali di guerra (compresi Putin e Prigozhin) e lo sviluppo democratico e civile della Russia».
Tra i primi provvedimenti emergenziali presi dalle autorità russe, già in vigore nella regione di Mosca, vi è anche la voennoe polozhenie, una sorta di legge marziale che va dallo stato di guerra» al «livello di allerta base», che ha qualificato come «agenti stranieri» i movimenti pacifisti e nonviolenti, in pratica messi fuori legge. «È uno status completamente discriminatorio, contrario ai diritti umani e alle libertà universalmente riconosciuti – dice la Popova dalla sua residenza di San Pietroburgo – è una situazione difficile, il mio telefono è un centralino bollente, tentiamo di aiutare coloro che non vogliono andare in guerra ed in particolare supportare le mogli e le mamme che vogliono salvare mariti e figli dalla guerra non mandandoli presso le unità militari. È un lavoro senza sosta che facciamo da quando è scattata l’ultima mobilitazione».
Fino a ieri il Movimento degli Obiettori di Coscienza russi ha documentato centinaia di casi di persone detenute nelle carceri russe per essersi espresse pubblicamente o aver partecipato ad una manifestazione contro la guerra. È un elenco incompleto di chi si è esposto nel lavoro per la pace e di chi ha rifiutato di prendere le armi e prestare servizio militare.
ALEXANDER BELIK, obiettore di coscienza russo scrive dall’esilio: «Dall’inizio dell’invasione in Ucraina più di 20.000 persone sono state detenute a Mosca per le proteste pacifiste e 4.000 processi sono stati aperti contro chi si è espresso pubblicamente contro la guerra. Ovviamente le persone sono molto preoccupate, tuttavia continuano a protestare, e lo faranno anche nei prossimi giorni”.
Chi oggi a Mosca si mette contro Putin e contro Prigozhin, sfida l’articolo 207 del Codice penale della Federazione russa che punisce il reato di «diffusione di false informazioni sulle Forze Armate motivate dall’odio» commesso da un gruppo di persone (comma b), per guadagno personale (comma g) e motivata dall’odio (comma d), con la pena fino a 10 anni di detenzione.
L’ultimo messaggino che arriva in giornata è per ringraziare il Movimento Nonviolento del sostegno internazionale con la Campagna di Obiezione alla guerra a favore degli obiettori russi, bielorussi e ucraini
IL CAOS PUTINIANO. Putin con l’aggressione all’Ucraina non ha realizzato alcuno degli obiettivi che voleva acquisire; se non l’avesse fatta, invece avrebbe potuto continuare a pretendere la neutralità di Kiev rispetto alla Nato e la sicurezza delle popolazioni filorusse e russe del Donbass
San Pietroburgo, 24 giugno la rimozione di un poster che invitava ad arruolarsi nella compagnia Wagner
Intervistando un mese dopo l’invasione russa dell’Ucraina lo straordinario scrittore bulgaro Georgi Gospodinov, gli chiedevo se quella guerra proclamata per difendere la Russia non fosse una guerra fratricida, anzi parricida visto il legame profondo tra le due anime: «Putin – rispondeva – senza rendersene del tutto conto ha aggredito la Russia. In qualsiasi modo finisca la guerra, la Russia l’ha già persa dal punto di vista economico e simbolico. Ha perso la memoria che rimarrà di questa guerra. Non potrà raccontarla, per quanta propaganda possa mettere in campo, così come raccontava se stessa come vittima e vincitrice della Seconda guerra mondiale». Con il caos annunciato in Russia con prodromi di guerra civile e mediazioni sul filo del rasoio, le sue sono parole a dir poco profetiche.
Perché Putin con l’aggressione all’Ucraina non ha realizzato alcuno degli obiettivi che voleva acquisire; se non l’avesse fatta, invece avrebbe potuto continuare a pretendere la neutralità di Kiev rispetto alla Nato e la sicurezza delle popolazioni filorusse e russe del Donbass. Certo che c’era l’«abbaiare» della Nato, con una diffusa cintura di basi e presenze militari di quell’allargamento a Est che segna ancora un limite provocatorio. Ma la crisi durava da otto anni con la guerra civile in Ucraina e poteva rientrare in una nuova trattativa internazionale che, pur falliti i vari accordi di Minsk, poteva, doveva essere riattivata.
Per altro la risposta di una guerra d’invasione ad una guerra civile interna aveva già rappresentato un fallimento sovietico in Afghanistan negli Anni ’70. Ora tutto sembra compromesso.
Ora che la narrativa revisionista di Putin continua a scatenarsi contro la memoria sovietica, fatto significativo che la dice lunga su pensiero putiniano. Dopo avere accusato Lenin di avere «inventato» l’Ucraina perché aveva riconosciutuo nel primo sistema dei Soviet la sua indipendenza come repubblica autonoma da Mosca, stavolta nel discorso di ieri contro l’avventura di Prigozhin, ha rincarato la dose, attaccando la rivoluzione bolscevica: «Stavota – ha dichiarato – non sarà la “pugnalata alle spalle” del 1917 che ha consegnato la vittoria al nemico comune nella Prima Guerra Mondiale»: una interpretazione a dir poco filo-zarista.
Noi de il manifesto che ci siamo lungamente augurati che nei paesi di socialismo reale tornasse d’attualità la radicalità di quella rivoluzione, dovremmo proprio augurarci che sia come nel 1917. Senonché è sotto gli occhi di tutti, insieme alla fine ormai dell’Unione sovietica, il fatto che il paragone tra Prigozhin – uomo corrotto legato a filo doppio al potere degli oligarchi, ricchissimo e diventato teorico dei golpe militari in Africa con le scorribande della Wagner – e Lenin e quello della Brigata Wagner con i bolscevichi è una bestemmia.
La guerra, Assange, i migranti respinti… È un Lula «indignato»
L’unico paragone è il carnaio della guerra, voluta e partecipata sia da Putin che da Prigozhin che non ha perso occasione di insistere sull’incapacità dell’esercito russo a far fronte ad una guerra d’aggressione all’Ucraina che ha il sostegno mondiale, chiedendo più volte di cancellare l’idea che basti una «operazione speciale» per proclamare invece lo stato d’emergenza e la mobilitazione generale di guerra. E credibilmente questo sarà stato il livello di mediazione tra i due contendenti. A proposito dell’annuncio di guerra civile e della marcia per la giustizia i «nostri», cioè i pacifisti russi, non partecipano, con nessuno dei «due Putin», non ci stanno, sono in galera, fuorilegge, sotto repressione.
E intanto si sono mossi dentro la Russia i carri armati. Tornati nella storia recente, degli anni ’90, da protagonisti nella storia russa dopo essere stati i distruttori di ogni sistema di socialismo reale (Praga ’68 e non solo).
Nel 1990 compaiono i tank dei duri del Pcus che tentano un improbabile golpe e, mentre Gorbaciov che aveva impegnato la vita a salvare il salvabile, è costretto a riparare proprio in Crimea, Eltsin, il padrino di Putin, dopo i primi scontri a Mosca è su un carro amato che arringa la folla: salva la Russia, affonda l’Urss e umilia Gorbaciov riportato e rendere conto a Mosca; e nel 1993 è il salvatore della patria Eltsin che manda i carri amati a sedare la rivolta del Congresso dei deputati del popolo, l’istituzione democratica voluta da Gorbaciov: bombarda il nuovo parlamento con centinaia di vittime nonostante il forte sostegno popolare alla protesta. Da lì inizia anche la storia dei tank che faranno terra bruciata in Cecenia, dentro la Federazione russa.
Adesso nelle sedi Nato e occidentali c’è, insieme ad un irresponsabile compiacimento, anche una profonda preoccupazione. Resta infatti da chiedersi se tutto questo fermerà la guerra in Ucraina o, visti gli sviluppi, la allargherà com’è più credibile. Non solo perché Putin ha già chiamato al soccorso la Comunità degli Stati indipendenti, subito la Bielorussia di Lukascenko in verità già coinvolto, l’Uzbekista e il Kazakhistan che ha aiutato a risolvere una rivolta interna, mentre è in fibrillazione il delicato fronte della Moldavia con dentro la Transnistria russa. Ma perché ritorna minacciosa la questione delle questioni. Vale a dire l’arma nucleare.
Che vede testate e comandi atomici proprio nella enclave di Kaliningrad che lega la Russia a Pasi Baltici. Se la gravità del caos militare e la «mediazione» sulla conduzione della guerra in Ucraina raggiunta tra Putin e Prigozhin porterà ad una nuova contesa, magari alla chiusura, di quel corridoio, si porrà subito il nodo strategico e micidiale dell’arma nucleare, di chi la controlla, di come e quando impiegarla visto che ne è stato più volte minacciato l’uso.
Ecco che il ruolo pericoloso della Nato si riaffaccia sulla scena. Ma ormai, nonostante siamo su un baratro aspettando la «vittoria nella guerra», anche la deterrenza atomica ha perso ogni significato
Commenta (0 Commenti)Viva la Cgil che scendendo in piazza contro il governo di destra, difende il diritto alla salute e il servizio sanitario pubblico.
Da molto tempo il diritto alla salute(art 32) anche a causa di contro riforme sanitarie fatte in passato , di fatto ha perso l’aggettivo “fondamentale” diventando, a spese dell’intero paese, un diritto potestativo cioè un diritto molto flessibile adattabile interpretabile che consente a tutti coloro che si occupano di salute di avere più libertà che vincoli.
Oggi la manifestazione della CGIL ci dice che il diritto alla salute è un diritto fondamentale che deve tornare ad essere fondamentale. All’economia in generale ma anche alle aziende sanitarie non è concesso di interpretarlo al fine di renderlo compatibile ad esigenze diverse da quelle della salute. Cioè la salute ieri come oggi non è negoziabile perché il diritto alla salute non è negoziabile. Se così fosse allora vorrebbe dire che sarebbe negoziabile la giustizia, la forma della nostra coesistenza sociale, il grado di civiltà di un paese, la qualità dell’aria che respiriamo ecc.
Oggi la salute non deve essere compatibile con l’economia ma deve essere compossibile con essa. Oggi non si tratta più di adattare i diritti fondamentali delle persone alle esigenze del profitto ma di rimuovere tutte le contraddizioni che esistono tra la salute e l’economia. Compossibilità al posto di compatibilità vuol dire
Leggi tutto: La sanità pubblica torna ad essere movimento, grazie alla Cgil - di Ivan Cavicchi
Commenta (0 Commenti)COMMENTI. Quando Giorgia Meloni dice che «non ha senso ratificare la riforma del Mes se non sai cosa prevede il nuovo patto di stabilità e crescita» è totalmente fuori strada. Il problema sta a Francoforte, più che a Bruxelles
Non c’è dubbio che per la Meloni il Mes costituisca un appiglio per dimostrare fedeltà ai precetti del suo improbabile sovranismo (la subalternità agli Usa rispetto alla guerra in Ucraina l’ha ridotto a simulacro), forse anche un’arma di ricatto nelle varie partite aperte in Europa (Pnrr, Patto di stabilità). Tanto che il suo rifiuto di ratificarne l’ultima versione non si accompagna, come dovrebbe, ad una critica di fondo, pubblica e coraggiosa, dei meccanismi che sovrintendono al funzionamento dell’Unione monetaria.
L’Europa è l’unico luogo al mondo dove opera una banca centrale per venti paesi diversi, con le loro diverse caratteristiche politiche ed economiche, con diversi – e a volte confliggenti – interessi economici e commerciali su scala interna ed internazionale. Non crescono ed esportano tutti allo stesso modo, c’è chi ha un debito stratosferico e chi no, perfino l’inflazione attualmente li divide.
La banca centrale, in questo quadro, bada ai tassi d’interesse, alla stabilità dei prezzi (ci prova), alla solidità del sistema bancario. Tutt’al più, quando la situazione è eccezionale (l’ultima crisi finanziaria globale, la pandemia), si cimenta in quelle che in gergo vengono chiamate «politiche monetarie non convenzionali», consistenti per lo più nell’immissione di maggiore liquidità nel sistema (settore bancario).
La regola aurea, insomma, è quella di tenersi alla larga da stati e governi. Divieto assoluto di acquistare direttamente titoli di stato dei paesi membri, ovvero di concedere ad essi «scoperti di conto» o «facilitazioni creditizie». In Europa è un’eresia parlare di monetizzazione dei deficit pubblici (lo stato copre il proprio disavanzo di bilancio vendendo alla banca centrale i propri titoli, che a sua volta crea nuova moneta per acquistarli), come di cancellazione di quote di debito in mano alla Bce (i titoli acquistati dalle banche nazionali nell’ambito del quantitative easing).
È il mercato che decide per gli stati. Se per un motivo qualsiasi un Paese membro dovesse avere difficoltà a finanziarsi attraverso il collocamento dei propri titoli di stato, la banca centrale alzerebbe semplicemente le braccia. Per questo è stato istituito il Fondo Salva Stati, un’organizzazione finanziaria sul modello dell’FMI, che agli stati si rapporta come una banca commerciale si rapporta ad una impresa privata o ad un singolo cittadino. Soldi dietro precise garanzie, a determinate condizioni. Li chiamano «programmi di aggiustamento macroeconomico», ma è un modo dolce per parlare di tagli alla spesa sociale e di sfrenate politiche di privatizzazioni/liberalizzazioni. Ne sanno qualcosa Grecia, Spagna, Portogallo, Cipro, Irlanda. Conti risanati, società devastate.
È il principio che non va. Per quanto l’indipendenza delle banche centrali sia dichiarata ufficialmente in tutti i paesi del mondo, non esistono paesi al mondo con un certo grado di sviluppo dove vige l’assoluta impermeabilità della banca centrale alle decisioni della politica. La Fed è «indipendente», ma risponde anche al Congresso ed è di fatto soggetta all’influenza del Presidente degli Stati Uniti.
Quel che più conta, nondimeno, è che la Fed è per il governo Usa un prestatore di ultima istanza. In caso di necessità, può finanziare direttamente il governo. Senza condizioni. Come Bank of England e Bank of Japan, o la Banca Popolare Cinese. Se la Russia, a seguito delle sanzioni comminatele dall’Occidente, si fosse trovata nella condizione dei paesi europei con la Bce, sarebbe già fallita. Il problema, quindi, è molto più strutturale. Chiama in causa l’architettura dell’Unione. Della quale, con la riforma dell’art.136 del Trattato sul funzionamento UE (TFUE), il Mes è diventato un altro «pilastro».
Una sorta di costituzionalizzazione della supremazia della finanza sulla politica, i governi, la democrazia.
Ma non sembra proprio che il dibattito nel Paese sia all’altezza del problema. Come su altre questioni, prevalgono logiche di schieramento interno, il solito conformismo ideologico verso le decisioni assunte dalle strutture europee, al quale molto spesso fa da contraltare un dissenso senza costrutto e di maniera. Quando Giorgia Meloni dice che «non ha senso ratificare la riforma del Mes se non sai cosa prevede il nuovo patto di stabilità e crescita» è totalmente fuori strada. Il problema sta a Francoforte, più che a Bruxelles
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