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DOPO L'ALLUVIONE. Il governo della Regione persegue ormai da anni nell’opera di cementificazione, consumo di suolo, ampliamento delle arterie autostradali e piattaforme, incentivo al traffico privato, invece di contrastare il riscaldamento atmosferico limitando l’emissione di gas serra (non i barbecue, per favore, ma le auto, i trasporti, il cemento!)

 

Ora che la devastante alluvione in Romagna comincia a rivelarsi in tutta la sua gravità, il Governo, dopo aver erogato qualche fondo, prende tempo e tira la corda sull’idea del commissario per gestire «l’emergenza». Da destra come da sinistra si dice che si deve fare in fretta per ridare a chi ha perso tutto i mezzi per ripartire, con l’idea che questo sia stato un evento così raro – come la caduta di un meteorite – che non avrebbe molto senso preoccuparsi di «come proteggersi dai meteoriti». Ripariamo i danni e poi avanti come prima.

MA È UN’IDEA dell’emergenza che non deve passare: per quanto eccezionale, questo è uno di quegli eventi destinati a ripetersi, con una frequenza, ahinoi, non più secolare. La principale causa è il cambiamento climatico, i cui effetti saranno anche stati amplificati dall’incuria e dall’improvvida gestione del territorio, ma andranno sempre più messi in conto nel futuro. Un cambiamento di cui noi – con la civiltà industriale – siamo responsabili.

Questa catastrofe lascerà il segno, perché colpisce nel vivo una terra ricca, una popolazione attiva, un modo di amministrare che ai vari livelli aveva creato attorno a sé un’aura di efficienza, di buon governo, fino a far credere che solo una grande calamità avrebbe potuto mettere in difficoltà un sistema.
E INVECE NO: come altri, l’Emilia-Romagna si è trovata impreparata. E, come altri, non può che piangere se stessa, per quanto ha fatto e non ha fatto in questi decenni.

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Com’è stato rilevato, le piogge eccezionali hanno provocato disastri su due fronti: a monte, con migliaia di frane sull’Appennino; a valle, con le esondazioni di fiumi e canali, su terreni già saturi d’acqua. Ma sono cadute su suoli già dissestati in montagna e collina, su fiumi troppo stretti e argini troppo fragili in pianura, oltre che su suoli spesso impermeabili. Il dissesto idrogeologico diffuso e la cementificazione dei suoli, hanno così contribuito ad amplificare le conseguente del dilavamento.

Per una città, Bologna, che vanta di essere «la più progressista d’Italia» ed «ecologista» e per una Regione, l’Emilia-Romagna, tra le più «avanzate», era già motivo di allarme l’essere in cima alle classifiche per il consumo di suolo e la percentuale di terreni a potenziale rischio idro-geologico. Questo evento estremo non fa che evidenziare che non ci si è presi cura, come si doveva, del territorio. E non importa quanto “scollegati” possano apparire la sua mancata cura e il suo mal uso con l’alluvione e le frane, perché non lo sono. Come non sono slegati dal cambiamento climatico in atto, dovuto alla concentrazione di gas serra.

UNA REGIONE tra le più avanzate in Italia e in Europa paga il prezzo di un approccio produttivistico, estrattivo e di puro sfruttamento della natura e del territorio. Un modello fatto proprio tanto dal Pd che dalla destra, fin dal dopoguerra, ma che ora presenta il conto. Se il cambiamento climatico c’è, è perché noi come altri vi contribuiamo (e se l’emissione di gas serra è proporzionale alle attività industriali e agli allevamenti intensivi, l’Emilia-Romagna fa bene la sua parte).

Ma il governo della Regione – non diversamente da quello di Veneto e Lombardia – persegue ormai da anni nell’opera di cementificazione, consumo di suolo, ampliamento delle arterie autostradali e piattaforme, incentivo al traffico privato, invece di contrastare il riscaldamento atmosferico limitando l’emissione di gas serra (non i barbecue, per favore, ma le auto, i trasporti, il cemento!).
PER UNO SCHERZO del destino, questo evento ora rischia di essere una nemesi per il Partito Democratico e il suo sistema di potere in regione. I comuni della montagna, che già votavano a destra in preda alla sindrome dell’abbandono, ora reclameranno più attenzione. E quelli della pianura e lungo «l’asse produttivo» della via Emilia, potranno farsi attrarre dalla narrazione delle destre circa la presunta inefficienza del governo regionale.

Come se la logica che le ispira non fosse la stessa: quella produttivistica, quella del consumo di natura in cambio di «benessere», tranne poi dover correre ai ripari per rammendare il danno. Tanto il Pd quanto la sinistra verde e «coraggiosa» di Elly Schlein avevano promesso di invertire la rotta, partorendo il nulla di un “Piano per il lavoro e il clima”, un documento che non affronta il nodo delle questioni.

La questione ambientale è ormai ineludibile. Ed è una questione sociale, perché a pagare sarà chi ha meno risorse (chi ci perderà di più, nell’alluvione in Romagna, se non chi ha perso tutto?). NESSUNO VUOLE SENTIRLO, quello slogan, ma è ora di «cambiare modello di sviluppo» e la transizione non può che essere radicale. Il Pd e i suoi alleati avrebbero già da tempo dovuto assumerlo: sono ancora in tempo, per evitare che ci si limiti a gestire le emergenze e si cominci, finalmente, a convivere con il territorio, rispettandone la vita e le sue necessità

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INTERVISTA. L’urbanista autrice del libro «Le case degli altri»: «Le classi dirigenti parlano di “vocazioni turistiche”, un concetto che non ha alcun senso e depoliticizza i processi di trasformazione innescati dagli investimenti»

Alessandra Esposito: «Si preferisce puntare sulla rendita invece di lottare per reddito di base e salari» Napoli

Urbanista e attivista della rete Set – Sud Europa di fronte alla turistificazione, Alessandra Esposito si occupa del problema della rendita nei processi di trasformazione urbana. Quest’anno ha pubblicato Le case degli altri. La turistificazione del centro di Napoli e le politiche pubbliche al tempo di Airbnb (Editpress).

I sindaci di centrosinistra sembrano guidare la rivolta contro lo spopolamento dei centri storici.
Il problema del turismo di massa è stato creato dalle istituzioni e dalle politiche pubbliche. Dagli anni ’70 in poi, si è scelto di investire nella crescita del settore turistico e adesso ne stiamo pagando le conseguenze ma, al di là dei proclami, si è ben lontani dal mettere in discussione la crescita del turismo. Per esempio si continua a parlare dell’ampliamento degli aeroporti e a collaborare con Airbnb anziché fargli causa, come avvenuto altrove. Prima del governo Prodi, il Turismo era uno degli ambiti del Mise mentre adesso ha un ministero e assessorati dedicati che fanno sostanzialmente marketing territoriale e promozione di brand. Questo non è certo il compito del pubblico. Le classi dirigenti che hanno deciso di imboccare questa strada non ne parlano in termini di decisione politica ma come del risultato di “vocazioni turistiche”, un concetto che non ha alcun senso e depoliticizza i processi.

Quali condizioni hanno favorito il proliferare degli affitti turistici?
La cultura della rendita li ha favoriti. Negli ultimi cinquant’anni le politiche pubbliche hanno indotto la popolazione ad acquistare le case come strategia abitativa ma anche come strumento per il benessere economico. Per rispondere alla progressiva riduzione e precarizzazione dei redditi, le famiglie hanno cercato di compensare sfruttando le proprietà e pretendendo sempre più soldi da chi affitta o cerca di comprare. Oggi abbiamo una società polarizzata tra chi ha ereditato case, e sfrutta i propri vantaggi patrimoniali, e chi è costretto a fare più lavori per pagare le spese di una casa in cui vive in condizioni di sovraffollamento. Gestire immobili fa guadagnare più soldi che lavorare. Tutto questo con Airbnb è peggiorato. Ma Airbnb funziona perché si situa a cavallo di due culture egemoniche radicate: l’ossessione dello sviluppo turistico e l’ideologia della rendita e della casa in proprietà. Entrambe generate e promosse dal Pubblico.

Eppure siamo pieni di titoli sul valore prodotto dal turismo.
Nelle città turistiche oggi abbiamo un reddito pro capite più basso rispetto al 2008: la spinta a ‘vivere di turismo’ ha fallito, è ora di ammetterlo. La monocultura turistica alimenta economie recessive fondate sulla rendita, inquina il territorio, impoverisce, allontana gli abitanti. In sintesi, l’unico risultato è che siamo più poveri e abbiamo perso popolazione.

Adesso sembra esserci la volontà di affrontare il problema casa.
Se ne è parlato molto perché ora a non trovare più abitazioni sono anche i ceti benestanti del nord. Se il ceto medio, che produce e consuma, non trova più casa a Milano allora possiamo finalmente ammettere di avere un problema abitativo in Italia e ottenere che l’attore pubblico torni a parlarne. Questa cosa, vista da Napoli, è offensiva. A Napoli c’è da sempre la condizione abitativa peggiore del paese, con indici di sovraffollamento tra i più alti d’Europa. In Italia una famiglia su tre era sottoposta a spese abitative troppo alte rispetto al reddito già nel 2015. Negli ultimi tre decenni il sottoproletariato urbano è stato espulso dalle città italiane ma nessuno ha mai cercato di porre un freno. Si dovrebbe regolamentare tutto il mercato degli affitti, compresi gli affitti brevi, ma non lo si vuole fare perché si ritiene impopolare toccare gli interessi della proprietà: una specie di diritto di fatto alla rendita, non garantito però dalla Costituzione. Anche il caro affitti va avanti dagli ’80, oggi grazie alle proteste degli studenti ne possiamo parlare.

Napoli viene esaltata per il suo centro storico popolare.
La discussione è stata offuscata dalla favola della mixité sociale: che bello il palazzo in cui abitano classi sociali differenti. Ma non è mixité bensì segregazione verticale: chi nasce nel basso o negli appartamenti peggiori statisticamente è più probabile che esca prima dal percorso scolastico, che ottenga lavori poco retribuiti e resti a vivere in condizioni analoghe con i propri figli. Con il boom del turismo questa condizione è stata romanticizzata diventando un brand. Un’estetizzazione della povertà che maschera una gravissima polarizzazione e staticità sociale.

Come si inverte la rotta?
Da Santanchè a Nardella, le proposte sono molto timide se non ridicole. Bisogna regolamentare «le case degli altri», cioè quelle gestite dai privati, e riformare il mercato degli affitti. La campagna Alta tensione abitativa, per esempio, propone di inserire nella legge 431/1998 l’articolo 8 bis sugli affitti brevi: stabilire soglie per zone oltre le quali non si autorizzano le locazioni turistiche, con soglie differenziate e retroattive calcolate in base al fabbisogno abitativo. E poi utilizzare il patrimonio pubblico a fini sociali e abitativi. L’incidenza dell’affitto sui redditi ha superato il 40% e in Italia solo il 4% dello stock abitativo è di proprietà pubblica, quindi sono esclusivamente i privati a stabilire le condizioni di accesso alla casa. Invece di lottare per un reddito di base e l’aumento degli stipendi si è spinti ad alimentare la rendita pretendendo affitti sempre più alti

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CHE FARE . Le opposizioni dovrebbero rimboccarsi le maniche per costruire dal basso una alternativa. Prevale invece una pervicace quanto ingiustificata autoreferenzialità

 

I democratici, la sinistra e il sole dell’avvenire

 

La vocazione autolesionista – e distruttiva – delle forze democratiche e di sinistra ha solide radici, affondano nella storia, ne traggono così abbondante nutrimento da diventare sempre più robuste e rigogliose. È quasi impossibile sradicarle, sono forti a tal punto da condizionare profondamente lo sviluppo della pianta che alimentano. Specialmente quando si attraversano stagioni politiche turbolente, drammatiche, complicate.

Guardiamo cosa sta succedendo nell’area democratica dopo la batosta elettorale delle recenti elezioni amministrative. Invece di provare a comprenderne le cause, assistiamo alla ricerca forsennata del colpevole sul quale scaricare le responsabilità politiche del tonfo. Che sicuramente sono presenti, ma che, altrettanto certamente, solo per evidente insipienza o per malcelata strumentalità possono essere attribuite ad un unico soggetto.

L’esempio più eclatante è la campagna

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OLTRE ALLE ARMI C'È DI PIÙ. Avremo arsenali gonfi di armi e nessun avanzamento sulla autonomia strategica europea e la difesa comune. È necessario sottolineare che non stiamo parlando di armi per l’Ucraina, né di armi per l’Europa, ma di armi per gli Stati

Cartina dell'Europa

 

Giovedì a Bruxelles con 446 voti favorevoli, 67 contrari e 112 astenuti è stata approvata la Relazione della Commissione, Act to support ammunition production. Un atto fortemente voluto dal Commissario Breton. E da un asse di destra che tiene insieme Ppe e Conservatori (partito di cui Meloni è Presidente) che prevede la possibilità di utilizzare i fondi di Next generation Ue e i fondi di coesione (43 miliardi per il nostro Paese) per il riarmo e il potenziamento degli arsenali militari dei 27 Paesi.

Fondi già programmati per il cambio del modello di sviluppo basato sulla transizione ecologica, quella digitale e la giustizia sociale, fondi con cui le Regioni supportano le spese sociali, il diritto allo studio, il sostegno alle imprese, il welfare locale, e che oggi tornano, con uno strappo violento, nella disponibilità della economia di guerra. Cosa vietata dall’articolo 41 dei Trattati europei, dove si parla esplicitamente della impossibilità di finanziare con soldi europei le produzioni militari nazionali.

Una quantità enorme di denaro messa nella disponibilità dei governi nazionali, tutti i governi dell’Unione, compresa l’Ungheria di Orbán e la Polonia dell’ ultra conservatore Morawiecki che su facebook parla apertamente della reintroduzione della pena di morte per i reati più pesanti. Una leadership dalle idee chiare, «In Europa niente potrà salvaguardare la libertà delle nazioni, la loro cultura, la loro sicurezza sociale, economica, politica e militare meglio degli Stati nazionali. Altri sistemi sono illusori ed utopistici». Così in un passaggio nel suo discorso ad Heidelberg il 20 marzo sulla dottrina europea della destra radicale. Una destra radicale ambiziosa, con un progetto egemonico da perseguire.

Mentre nel dicembre del 2020 a Bruxelles si discuteva della sospensione della erogazione dei fondi europei alla Polonia, Paese illiberale, applicando le regole legate al rispetto dello Stato di diritto di cui il principio di non discriminazione è parte essenziale, oggi il governo autoritario polacco è diventato caposaldo Nato, protagonista del fronte occidentale, leader della nuova Europa delle nazioni in armi. La guerra cambia l’agenda politica travolgendo i valori condivisi dell’Ue, in questo modo le storture autoritarie appaiono questioni secondarie rispetto allo stato di eccezione che il conflitto in corso determina.

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E l’atto votato dal parlamento europeo non fa altro che alimentare la spirale nazionale e nazionalista. Avremo arsenali gonfi di armi e nessun avanzamento sulla autonomia strategica europea e la difesa comune. È necessario sottolineare che non stiamo parlando di armi per l’Ucraina, né di armi per l’Europa, ma di armi per gli Stati. Un virus, il nazionalismo, che può minare dall’interno e nel profondo la costruzione comunitaria e la democrazia europea. Questa la posta in gioco.

Nel 2019 la campagna elettorale delle destre radicali è stata costruita intorno all’anti europeismo, nella campagna elettorale del 2024 per il rinnovo del parlamento europeo tutte le forze politiche diranno di essere europeiste. Il tema è quale Europa. I liberali continueranno a immaginare la supremazia della dimensione tecnocratica confidando nel potere della Commissione e della Bce, le destre radicali di governo punteranno a rafforzare il ruolo degli Stati nazionali consegnandoci indietro un’idea di Europa minima, le sinistre dovrebbero battersi per le istituzioni comunitarie e la loro dimensione democratica sovranazionale.

Nell’atto appena votato appare evidente il rischio di avviare un processo politico ed economico fondato sulla centralità delle produzioni militari, gli eserciti, lo stato di eccezione e il principio d’ordine di carattere nazionale. Mettere nelle mani dei governi nazionali un assegno in bianco di queste proporzioni è un errore clamoroso.

Inoltre va ricordato che quella votata poche ore fa è la posizione negoziale con cui il Parlamento affronterà il trilogo con il Consiglio, cioè con i Capi di governo o i ministri della difesa. Il governo Meloni arriverà alla discussione con il consenso politico di gran parte delle forze politiche italiane, escluso il M5S e l’Alleanza Verdi e Sinistra. Non proprio una condizione di difficoltà quella in cui si troverà la premier del nostro Paese.

A luglio l’atto tornerà in parlamento per l’approvazione definitiva. Rispetto al primo voto avvenuto un mese fa sulla procedura d’urgenza l’area di parlamentari in dissenso si è raddoppiata. Poco meno di cento per il primo voto, poco meno di duecento per il secondo. Un piccolo segnale positivo.

Abbiamo ancora tempo per dare battaglia e provare a fermare un atto sbagliato che scambia le politiche ambientali e sociali con un modello di sviluppo fondato sul piombo e che gonfia le vele nel nazionalismo e del militarismo, allontanando ancora di più l’unico ruolo che l’Europa potrebbe svolgere con autorevolezza e credibilità, sostenere l’Ucraina e facilitare il negoziato di pace

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Altare della patria, parata e parà, Frecce tricolori… L’Italia celebra le forze armate. Intanto la guerra c’è e continua, per padre Zanotelli siamo in guerra da tutte le parti, nella Sardegna occupata dalla Nato si va in piazza e il Pnrr servirà per il riarmo. Buona Festa della Repubblica

INTERVISTA AL MISSIONARIO COMBONIANO. «Cos’ha a che fare la parata militare con la festa della Repubblica nata dalla Costituzione, che all’art 11 ripudia la guerra? Siamo sull’orlo di due abissi: l’inverno nucleare, basta un incidente sul fronte ucraino e ci siamo, e l’estate incandescente per la crisi climatica». E sulla produzione di munizioni con i fondi del Pnrr votata in Ue: «Pd e sinistra non possono barcamenarsi tra visioni opposte»

Zanotelli: «Serve un unico, forte movimento per la pace e l’ambiente» Padre Alex Zanotelli - LaPresse

«Siamo sull’orlo di due abissi: l’inverno nucleare, basta un incidente e ci siamo, e l’estate incandescente per la crisi climatica. Serve un unico forte movimento per la pace e l’ambiente»: così il missionario comboniano Alex Zanotelli fotografa l’attuale momento storico.

Festeggiamo la Repubblica, che vieta la guerra come mezzo di offesa ma anche di risoluzione delle controversie, con una parata militare.
È assurdo e l’ho sempre detto in questi anni. Ma cos’ha a che fare la parata militare con la festa della Repubblica italiana? Una repubblica che è bastata sull’articolo 11, che ripudia la guerra, mentre invece siamo in guerra da tutte le parti. Una contraddizione totale.

Il conflitto in Ucraina va avanti da più di un anno, si riaccende l’ex Jugoslavia. In Italia non c’è un vero dibattito.
C’è una narrativa in questo paese in cui incredibilmente la parola pace è scomparsa. La guerra in Ucraina ha riarmato l’Europa, quello che sta avvenendo fa paura. Secondo il

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C’è da augurarsi che gli angeli del fango, finito il loro meritorio impegno, si facciano “angeli del sole e del vento”,
per evitare altro fango da spalare in futuro

 Volontari liberano strade e abitazioni dal fango a Sant' Agata sul Santerno - Ansa

“La maledizione della noce moscata” di Amitav Ghosh racconta come nel 1855, in quello che oggi è l’Oregon, un capo dei nativi americani Cayuse, si rifiutò di firmare un trattato perché sentiva che ignorava la voce della terra. Perché i nativi americani, come gli indios dell’Amazonia, e quelli delle isole Banda, dai quali ( dalla loro noce moscata, il libro di Ghosh prende le mosse), la voce della terra, dei fiumi, degli animali sapevano sentirla. E capirono subito che la riduzione della terra a realtà inerte, a pura materia da usare a nostra discrezione, era la premessa per considerare la maggior parte degli esseri viventi che la popolano come cose. Anche gran parte del genere umano, sulla base del colore della pelle, della religione, della lontananza dalle tecnologie, e persino per la pretesa di considerare la natura viva e parlante. Videro lucidamente la nascita di quel capitalismo coloniale ed estrattivista che ha contrassegnato la storia fino ai nostri giorni.

Certamente la voce della terra non hanno nemmeno provato a sentirla quelli che hanno riempito di cemento la pianura alluvionale della val Padana e della Romagna, e hanno costruito case, fabbriche, strade a ridosso dei corsi d’acqua, dopo averli imbavagliati dentro argini rigidi ed inutilmente alti, e rinchiuso polli e maiali in allevamenti intensivi che fanno male a loro e al clima. Né quanti in cerca di una vita apparentemente più dignitosa, attratti dal mito della velocità e del consumismo, ma spesso per avere vicino una scuola o un ospedale, stanchi di custodire territori e paesi sul cui futuro politica ed economia avevano smesso di investire, hanno abbandonato colline e montagne.

La calata a valle di quel popolo, che era quello che curava il territorio, che lo terrazzava, che sapeva fare i muretti a secco, rispettare il corso dei torrenti, ha preceduto la calata

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