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IL LIMITE IGNOTO. Libertà d'informazione: «Il nostro caso un precedente pericoloso»

Dopo 19 giorni «bloccati» a Kyiv, lasciamo il Paese con amarezza

Ieri pomeriggio, dopo 19 giorni in attesa di spiegazioni ufficiali che non sono mai arrivate, abbiamo deciso di lasciare l’Ucraina. Era il 6 febbraio quando i nostri accrediti giornalistici sono stati sospesi dal ministero della Difesa di Kyiv. Da allora non abbiamo più potuto svolgere il nostro lavoro di reporter, e per ragioni di sicurezza abbiamo dovuto lasciare il Donbass alla volta di Kyiv. Abbiamo contattato più volte le autorità ucraine, che sono state sollecitate, oltre che dall’Ambasciata italiana, anche dall’Ordine dei giornalisti, dalla Fnsi e dalla nostra avvocata, Alessandra Ballerini. Ci avevano detto che avremmo dovuto sottoporci a un interrogatorio da parte dell’Sbu, i servizi di sicurezza di Kyiv. Per 19 giorni, come ci era stato espressamente richiesto, abbiamo atteso con pazienza questa convocazione, che tuttavia non c’è mai stata.

NEL FRATTEMPO le uniche voci che ci sono giunte, e che hanno iniziato a circolare abbondantemente proprio dal 6 febbraio, sono quelle che ci descrivevano come “propagandisti filorussi” e “collaboratori del nemico”. Si tratta di calunnie gravissime e pericolose, specie in zona di guerra. La nostra “colpa” – così ci è stato detto dalla Farnesina – sarebbe quella di aver raccontato il conflitto su entrambi i fronti a partire dal 2014, realizzando inchieste e reportage – peraltro spesso critici nei confronti dei russi – anche nelle repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk. Tanto sarebbe bastato a renderci automaticamente dei giornalisti “nemici”. Poco importa se per un anno intero siamo stati in prima fila a raccontare il dramma dell’invasione russa, a Odessa, a Kerson, a Kharkiv, nel Donbass. Per Kyiv non abbiamo comunque il diritto di lavorare. Il 21 febbraio – stando a quanto ci è stato riferito dall’Ambasciata italiana – le autorità ucraine hanno persino messo il veto sulla nostra partecipazione alla conferenza stampa di Giorgia Meloni e Volodymyr Zelensky. Eppure, la lista dei giornalisti italiani che avrebbero potuto prendere parte all’evento era stata compilata dai nostri diplomatici, i quali ci avevano riferito che non era necessario alcun accredito militare.

CHI HA DECISO di tenerci fuori? E perché? È stato questo episodio, in particolare, a farci capire che la nostra attesa era ormai diventata inutile: non ci sarebbe mai stato nessun interrogatorio, era chiaro. Restare avrebbe significato soltanto accumulare nuove frustrazioni, e onestamente cominciavamo ad averne abbastanza. Perciò abbiamo deciso di andarcene. Spostandoci man mano verso ovest, nel giro degli ultimi giorni, abbiamo visto il Paese mutar volto: dalle devastazioni del Donbass siamo passati alla apparente calma di Kyiv, dove oggi la gente è tornata a mangiare nei ristoranti e a fare shopping lungo i grandi viali del centro. Infine Lviv, la più europea tra le città ucraine: da qui la guerra appare come un concetto estremamente lontano, da esorcizzare a suon di aperitivi e concerti, quando scende la sera all’ombra delle antiche cattedrali.

Ora tutto questo è ormai alle nostre spalle. Lasciamo l’Ucraina con grande amarezza, dietro consiglio della nostra Ambasciata. Prima e dopo di noi, a loro insaputa, altri giornalisti italiani sono stati inseriti in questa «lista di proscrizione». I nomi a noi noti sono quelli di Salvatore Garzillo e Lorenzo Giroffi, entrambi respinti mentre cercavano di entrare nel Paese con l’unico intento di raccontare il dramma della guerra, ma l’elenco, a quanto pare, sarebbe molto più lungo.

SE PASSERÀ QUESTA linea – secondo la quale chi ha cercato di lavorare liberamente, senza fare il tifo, ma semplicemente raccontando i fatti, debba essere considerato una minaccia per l’Ucraina – allora il rischio è che il livello di libertà di stampa in questo conflitto si abbassi sensibilmente. Tutti i giornalisti stranieri avranno davanti agli occhi il nostro precedente, e chi probabilmente avrà la meglio – se si procederà in questo senso – saranno i propagandisti e gli uffici stampa militari.

È PER EVITARE TALE prospettiva – nella speranza che le autorità ucraine tornassero sui loro passi – che abbiamo deciso di resistere per questi 19 giorni. Oggi, alla luce di ciò che è successo, restare non avrebbe più senso. Speriamo che tutto questo sia comunque servito a lanciare un messaggio forte, contro ogni censura e contro ogni bavaglio. Perché questa guerra riguarda tutti noi, in Italia e in Europa. È qualcosa di terribilmente vicino e terribilmente importante, e merita di essere raccontata da voci libere e oneste. Oggi tanti colleghi – anche molto più validi di noi – lavorano in Ucraina senza farsi condizionare in alcun modo dalla propaganda. Li conosciamo, li abbiamo visti sul campo. Oggi è così, ma domani cosa succederà?

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La Cassazione ributta la palla nel campo della sfera politica. Molto di ciò che potrebbe (o non) accadere di tragico è nelle mani e nella coscienza del Guardasigilli

Associazione Antigone

La decisione della Cassazione su Alfredo Cospito ributta la palla nel campo della sfera politica, dove sin dall’inizio essa vagava. Molto di quello che potrebbe accadere (o non accadere) di tragico nei prossimi giorni è nelle mani e nella coscienza del ministro della Giustizia Carlo Nordio. Potrà sempre in autotutela decidere di revocare il regime di cui all’articolo 41 bis, secondo comma, dell’Ordinamento Penitenziario e determinare lo spostamento di Cospito nel regime di AS1 dove ci sono i soli detenuti declassificati dal regime durissimo di 41 bis.

L’ho qualificato durissimo per distinguerlo dal regime penitenziario AS1 che è a sua volta duro. Tutto il dibattito pubblico sul 41 bis sembra spingere verso la narrazione di una vita in carcere che sia solitamente ben poco afflittiva e che giustifichi l’adozione di misure particolarmente severe in un caso come quello del detenuto anarchico.

Non è così. Affermarlo significa non conoscere la realtà penitenziaria. Dall’inizio dell’anno sono già morte venti persone nelle prigioni italiane ed è dovere morale, prima ancora che giuridico, evitare che a breve ne arrivi una ventunesima.

Nelle mani del Ministro è anche il tema più generale del regime 41 bis visto che, nei numeri (aumentati addirittura rispetto al 1992) e nelle pratiche, ha esondato rispetto alle finalità originarie e ai contenuti voluti trent’anni addietro per contrastare lo stragismo mafioso. Il regime, così come oggi funziona, è il frutto di norme e circolari del Dap che si sono stratificate negli anni, andando a modificare un impianto originario che aveva l’obiettivo di ridurre i contatti dei capimafia con il loro mondo all’esterno del carcere. Dunque è nelle mani del Guardasigilli riportare il regime 41 bis nei confini suggeriti dalle Corti interne e internazionali, dal Garante Nazionale delle persone detenute, dal Comitato Europeo per la prevenzione della tortura. In alcuni casi sarebbe necessario intervenire legislativamente, in altri con atto amministrativo.

Vediamo in cosa potrebbero consistere alcune di queste necessarie e indifferibili modifiche: restringere l’area dei reati per i quali è prevista la possibile applicazione del regime; introdurre un limite massimo di durata della misura evitando che si muoia in quelle sezioni o che si passi direttamente dal 41 bis alla libertà; prevedere l’espressa non cumulabilità del regime con altre forme di isolamento (disciplinare o diurno); non prevedere sotto-insiemi del regime ancora più rigidi del 41 bis; aumentare il numero dei colloqui e delle telefonate, affidando la funzione di prevenzione alle modalità di fruizione; assegnare, nel rispetto del principio del giudice naturale precostituito per legge, la competenza sul reclamo contro la decisione del ministro al Tribunale di Sorveglianza territorialmente competente in base al luogo di detenzione della persona reclusa e non a quello di Roma come è oggi; assicurare una socialità degna di questo nome, seppur con le adeguate attenzioni ai profili criminali; rispettare senza eccezioni le decisioni assunte dalla magistratura di sorveglianza in sede di accoglimento dei reclami presentati dai detenuti; garantire non meno di quattro ore fuori dalla cella a contatto con altre persone, comprese le due ore di permanenza all’aria.

È questo un piccolo breviario per riportare il regime dentro i confini della legalità internazionale e interna.

Cambiando tema, è sempre nel potere del Ministro ridisegnare quel codice Rocco che è la madre di molti dei problemi che affliggono il nostro sistema penale e penitenziario. Una parte dei delitti contro la personalità dello Stato presenti nel codice del 1930 è un residuo di quella cultura illiberale e fascista di cui il codice Rocco trasuda. Così come spetterà al Ministro Nordio scegliere di non costituirsi davanti alla Corte Costituzionale quando questa, speriamo a breve, dovrà decidere se abrogare un altro tassello della legge Cirielli sulla recidiva, ossia quello la cui applicazione ha determinato la pena dell’ergastolo per Cospito, pur in assenza di persone morte.

Cosa che invece il Ministro non potrà fare è trasformare in scelta etica la questione dell’alimentazione forzata. In questo caso il tema è solo ed esclusivamente legale e giuridico. La scelta di Cospito di non mangiare è nella sua sfera di auto-determinazione ed è già giuridicamente protetta.

(presidente Antigone)

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COMMENTO. Mai come in questa occasione le primarie del Pd si presentano come una sfida vera, di cui non si conosce il risultato in anticipo. Non era mai successo dal 2007, quando questo partito è stato fondato. Una sola candidata si propone seriamente di invertire la rotta su lavoro e precariato, dopo la sbornia neoliberista

 

Mai come in questa occasione le primarie del Partito democratico si presentano come una sfida vera, di cui non si conosce il risultato in anticipo. Non era mai successo dal 2007, quando questo partito è stato fondato.

Nel ground zero della sinistra seguito alle politiche di settembre e poi alle regionali, nel deserto dell’affluenza alle elezioni vere che riguarda in maniera sempre più consistente le fasce più fragili della popolazione, questo appuntamento non è di secondaria importanza. Dal risultato delle primarie infatti dipenderà il profilo della principale forza di opposizione al governo più a destra della storia repubblicana.

E anche il profilo di quella che, a un certo punto, sarà la coalizione che dovrà tentare di battere Meloni e soci. Non è solo una questione che riguarda le diverse personalità di Bonaccini e Schlein, le loro storie, i loro caratteri. Ma soprattutto la direzione politica che vorranno imprimere a un partito mai come oggi in crisi d’identità, a quali soggetti sociali si rivolgerà, con quali priorità su temi come

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COMMENTI. Giorgia Meloni, che si sciacqua la bocca con la «nazione», ha commesso un errore subappaltando il disegno di legge, che disfa l’unità della Repubblica, all’alleato leghista

 Un'opera di Renato Mambor

Bene hanno fatto i sindaci a bloccare la corsa di Calderoli verso una autonomia differenziata in salsa leghista. La notizia non riceve l’attenzione che meriterebbe solo perché oscurata dall’anniversario dell’assurda guerra nel cuore d’Europa. Il presidente Anci Decaro scrive al ministro che una innovazione istituzionale di così grande rilievo impone una riflessione approfondita. Ha ragione, e dice quello che avremmo voluto sentire in Consiglio dei ministri all’atto del frettoloso primo disco verde al disegno di legge Calderoli. I Comuni si sono fatti Stato, esercitando una supplenza verso chi avrebbe dovuto parlare e non l’ha fatto.

Diventa sempre più chiaro che Giorgia Meloni ha commesso un errore subappaltando l’autonomia differenziata all’alleato leghista. Forse contava su una lealtà che non c’è poi stata sulla contemporaneità con la riforma presidenzialista. Conta, invece, che siano in mani leghiste tutte le sedi decisionali più rilevanti sul tema: ministero delle autonomie (Calderoli), economia (Giorgetti) e infrastrutture (Salvini). Calderoli ha praticato forzature a raffica, fino all’ultima di un comitato tecnico-scientifico imbottito di fan antichi e neofiti dell’autonomia differenziata. Ora Meloni potrebbe trovarsi nella condizione di perdere il controllo, e vedere il paese sfarinarsi quando occupa Palazzo Chigi e si sciacqua la bocca con i «patrioti» e la «nazione». Il pericolo è grave, e non bastano le rassicurazioni di ufficio.

È vero o no che la maggiore autonomia, una volta concessa, è potenzialmente irreversibile perché qualsiasi cambiamento dovrebbe passare attraverso le forche caudine di un assenso della regione già beneficiata? È vero o no che se un diverso clima politico, un’altra maggioranza, un nuovo ciclo economico vedessero la necessità di un passo indietro o comunque di una modifica potrebbero essere fermati dalla difesa di privilegi conseguiti da questa o quella regione? È vero o no che la legge attributiva di maggiore autonomia ai sensi dell’art. 116.3 non potrebbe nemmeno essere assoggettata a referendum abrogativo ai sensi dell’art. 75 della Costituzione? È vero o no che alla legge di attuazione a firma Calderoli non sarebbe consentito rimediare, sia ex ante non potendo porre con efficacia limiti giuridicamente cogenti alla legge attributiva di maggiore autonomia, sia ex post, non potendo intervenire successivamente a modifica?

È vero. Una risposta univoca per il giurista, cui si aggiunge un rischio politico, per l’effetto domino che la più ampia autonomia data a una regione avrebbe inevitabilmente sulle altre. I maggiori poteri e le maggiori risorse diventerebbero il metro per misurare la cifra del ceto politico regionale nel mercato generale della politica. Se un governatore mettesse le mani sulla scuola, sull’energia, sui porti, gli aeroporti, le ferrovie, i beni culturali o altro, anche gli altri vorrebbero farlo, non potendo concedere un vantaggio competitivo. Avviare l’autonomia differenziata significa dare inizio in tempi comunque brevi al disfacimento della Repubblica una e indivisibile.

Queste riflessioni giustificano ampiamente uno stop a Calderoli. Toti vuole il porto di Genova, Giani vuole l’energia e la Galleria degli Uffizi, Zaia vuole tutto di tutto e conferma la pretesa veneta per le 23 materie possibili (Italia Oggi, 23 febbraio). Qualche governatore dà segni di ravvedimento operoso, come il campano De Luca quando coglie che contratti integrativi delle regioni più ricche nella scuola e nella sanità avvierebbero un esodo potenzialmente incontrollabile da quelle del Mezzogiorno.

In linea con il presidente dell’ordine dei medici di Napoli Zuccarelli per cui servirà la carta di credito e non la tessera sanitaria per curarsi. Prospettive per nulla smentite dagli ingannevoli Lep a costo zero o dal richiamo ai tributi maturati sul territorio del modello Calderoli.

Ma i contratti regionali integrativi paventati da De Luca non sarebbero forse possibili anche senza autonomia differenziata, in base alla potestà legislativa concorrente già riconosciuta alle regioni dall’art. 117.3 su istruzione, sanità, lavoro? Molto probabilmente sì. E allora non basta contrastare il ddl Calderoli. Bisogna anche cancellare gli elementi che mettono a rischio la Repubblica una e indivisibile nella ormai famigerata riforma del Titolo V del 2001. È quello che fa la proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare per la modifica mirata degli articoli 116.3 e 117 sulla quale stiamo raccogliendo le firme, anche online con lo SPID su www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it

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Intelligence, Lucio Caracciolo al Master dell’Università della Calabria: “Il controllo dei mari sará al centro dei conflitti presenti e futuri. Decisiva la questione di Taiwan”

Lucio Caracciolo: «Un continente da ravvivare»

 Il deep state tra Geopolitica e intelligence” è il titolo della lezione tenuta da Lucio Caracciolofondatore e direttore di “Limes”, al Master in Intelligence dell’Università della Calabria, diretto da Mario Caligiuri.  

Caracciolo ha descritto le due principali aree di tensione geopolitica: una di dimensioni più contenute relativa al conflitto in Ucraina, definita “guerra russo-americana”; e l’altra relativa alla sfida strategica sino-americana.

Il docente ha messo in evidenza che gli Stati Uniti, nella rappresentazione che intendono dare di sè stessi, pur non utilizzando la terminologia riconducibile al concetto di “impero”, si presentano come una “nazione missionaria provvidenziale”, il cui interesse coincide con quello dell’intera umanità.

Questa vera e propria “vocazione” di cui si sentono investiti “ha mosso, ha legittimato e ha autogiustificato le molte guerre che gli Stati Uniti hanno combattuto a partire dalla loro esistenza e in particolare nel Novecento.

Infatti, a partire dal 1898 con la guerra ispano americana, quando gli Stati Uniti conquistarono le Filippine, è iniziato un percorso di crescita egemonica che li ha visti diventare una potenza mondiale, dominante dalla seconda guerra mondiale in poi

Caracciolo ha poi osservato come lo spazio imperiale degli Stati Uniti si basi su due elementi: sul controllo delle rotte marittime, che rappresenta la conditio sine qua non per assicurarsi un decisivo vantaggio nella competizione economica, e sull’isolamento territoriale.

A proposito, il docente ha sottolineato come l’impero americano goda di una situazione di cui nessun altro impero abbia mai beneficiato nel corso della storia, ovvero l’impossibilità di essere attaccati via terra.

Nell’ambito della supremazia americana, la nostra nazione ha un ruolo di “friend and alley“, come vengono definiti gli alleati della Natogarantendo agli Stati Uniti l’installazione di basi militari oggetto di trattati segreti che garantiscono agli U.S.A. una libertà di azione “incontestabile e decisiva. 

Il docente ha quindi sottolineato come la conseguenza che deriva dalla necessità di mantenere la posizione di “fattore benefico dell’umanità” sia quella di impedire che nel continente euroasiatico nasca una potenza che possa sfidarli e mettere in discussione il loro primato.

Tale fattore ha spinto gli Stati Uniti ad intervenire nelle due guerre mondiali, per poi, dopo il 1945, “stabilizzare la loro presenza tramite l‘alleanza atlantica“. 

Caracciolo ha qllora sottolineato che la sfida principale ad oggi, per gli Stati Uniti, è quella rappresentata dalla Repubblica Popolare Cinese che “si presenta in modo esplicito, da quando è stata rifondata nel 1949, come una potenza globale”, la cui dimensione oceanica è più “importante che mai“, nella sua ambizione di diventare grande potenza e riprendere il controllo dei propri mari

Per la Cina la sfida è dunque rappresentata dal “controllo delle rotte marittime che la collegano con il resto del mondo” e, per raggiungere tale scopo, occorre respingere gli Stati Uniti dalla loro area di influenza marittima.

Il docente si è poi soffermato sull’importanza del fattore demografico, considerando la posizione della Federazione Russa, il cui territorio è caratterizzato da uno spazio terrioriale molto vasto, che copre ben undici diversi fusi orari, ma abitato da una popolazione molto scarsa tanto da rendere “la Russia asiatica più un oggetto di competizione che non un soggetto”. 

Caracciolo ha sottolineato come tale criticità potrebbe effettivamente portare la Russia, in caso di sconfitta nella attuale guerra con l’Ucraina, a perdere grandi spazi territoriali, contribuendo a spingere la Russia aconsiderare in gioco la sua stessa esistenza“.

Passando poi ad analizzare la posizione del nostro Paese, il docente ha rilevato come quello relativo alla fragilità demografica sia uno dei problemi più urgenti, di cui però non ci si occupa a sufficienza

A rendere evidente la gravità della situazione sono le proiezioni demografiche per continente al 2100, da cui si evince con chiarezza che già nel 2025 i continenti maggiormente popolosi saranno Africa ed Asia, mentre risulta evidente il declino europeo “con popolazione destinata a decrescere da qui alla fine del secolo”

Con questi rapporti demografici, non sarà più sostenibile “che l’attuale sistema di potere nato nel Novecento possa reggere da solo le sorti dell’intero pianeta”, continuando a prevedere un mondo unipolare,

Che è il mondo fino ad oggi perseguito dalla politica americana, che rappresenta invece “qualcosa di chimerico, qualcosa di impossibile o addirittura un sogno pericoloso perché, essendo irrealizzabile, se perseguito provocherebbe delle conseguenze catastrofiche”.

definendo il teatro indopacifico, il docente si è soffermato sulla rappresentazione che la repubblica popolare cinese intende date dinsè stessa come continuazione comunista di un impero millenario dei figli del drago, ovvero di un ceppo etnico fortemente radicato nella storia.  

L’obiettivo cinese è pertanto quello di assumere il controllo dei mari, nel tentativo di sfidare gli Stati Uniti per l’egemonia mondiale. 

Per attuare una strategia di contenimento dell’aspirazione cinese, gli Stati Uniti hanno garantito la loro presenza in tale area installando basi aereonavali nelle Filippine ed in Giappone, che, con India ed Australia, fa parte del cosiddetto Quad, l’alleanza militare strumentale all’egemonia americana per il contenimento della potenza cinese. 

In tale scenario risulta estremamente rilevante l’arcipelago indipendente di  Taiwan, che per la sua posizione strategica rappresenta il “cuore del dilemma del controllo delle grandi rotte oceaniche”

Taiwan, che formalmente ha mantenuto fino ad oggi il nome di Repubblica di Cina, sta attuando una dismissione del patrimonio storico e culturale cinese, con la contestuale valorizzazione di quello taiwanese, in palese ottica di contrapposizione alla Cina.

Gli Stati Uniti fungono da potenza garante nella piena consapevolezza che chi controlla Taiwan controlla le rotte marittime commerciali

Caracciolo ha sottolineato che è fondamentale ricordare che “la partita degli stretti oceanici sarà il cuore degli interessi geopolitici dei prossimi anni” e che per gli Stati Uniti questo è il cuore dello scontro, mentre il teatro dell’ucraina rimane secondario. 

A tal proposito, il docente ha rappresentato i possibili scenari degli sviluppi del conflitto europeo, sottolineando la dimensione marittima dell’Ucraina e la possibile volontà da parte della Russia di chiuderne gli sbocchi sul mare, che rappresentano importanti rotte commerciali verso il Mar Nero e la rotta artica, ma che per la Russia hanno anche un valore simbolico rappresentato da Sebastopoli.

In riferimento al conflitto ucraino, Caracciolo ha rilevato come, nonostante “le comunicazioni mediatiche facciano apparire questa guerra come se non ci tocchi direttamenteil nostro Paese subisca, in realtà, implicazioni notevoli.

 L’invio di armi in Ucraina, senza che peraltro siano state rese pubbliche tipologia e quantitàrischia di indebolire notevolmente il nostro arsenale militare, andando ad intaccare il nostro potenziale di difesa senza, tra l’altro, avere le capacità finanziarie per riarmarci”.

Altrettanto rappresentano per l’economia nazionale le sanzioni, pur non avendo significativamente intaccato l’economia russa, che ha continuato a crescere grazie alla disponibilità di paesi cosiddetti triangolatori, con un volume di importazione e scambi che non rileva particolari sofferenze. 

Facendo riferimento all’inchiesta del giornalista americano Seymour Hersh, che attribuisce agli Stati Uniti il sabotaggio del gasdotto Nord Stream, Caracciolo ha poi sottolineato che una delle cause fondamentali di questo conflitto è la volontà da parte degli Stati Uniti di interrompere definitivamente l’interdipendenza energetica tra Italia, Germania e Russia. 

Ciò evidenzia il significato geopolitico più che quello economico, dal momento che gli accordi di intesa energetica tra Russia e Germania erano guardati con sospetto dagli Stati Uniti fin dall’epoca della guerra fredda. 

In futuro gli approvvigionamenti di gas saranno garantiti dall’Azerbajan, per compensare almeno in parte la perdita del gas del Nord Stream, e dall’Algeriache apre una sorta di paradosso, poiché le forze armate algerine sono fortemente dipendenti dalle forniture militari russe.

Infine, Caracciolo, riferendosi al posizionamento dei Paesi Europei, ha rilevato come non esista un fronte univoco antirusso nella Nato, dal momento che vi sono posizioni differenti connesse al percorso storico di ciascuna nazione

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CONGRESSO PD. La/il nuova/o leader avrà di fronte un compito arduo ma ineludibile: inventare nuove procedure di discussione, partecipazione e decisione democratica, che diano al Pd quella che un tempo si chiamava agibilità politica

 Il voto in un gazebo per una tornata di primarie del Pd - foto Ansa

Alla vigilia delle primarie del Pd, è possibile delineare un primo bilancio di quanto accaduto. Un primo elemento di giudizio riguarda il carattere che si voleva dare al percorso congressuale: semplicemente, non c’è stato nulla di propriamente costituente. E ciò è accaduto perché, sin dall’inizio, non si è voluto costruire un processo che non avesse esiti predefiniti.

L’esito (provvisorio) della nota vicenda del nuovo “Manifesto dei valori” (approvato, ma senza che sostituisse il vecchio!) costituisce una rappresentazione plastica dei dilemmi identitari di questo partito.

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Per molte settimane, in assenza di testi su cui si potesse discutere, c’è stato il vuoto: e di fatto, com’era facile prevedere, tutto è precipitato nella competizione tra i candidati, affidata alle interviste. Si è potuto capire meglio il profilo politico delle diverse proposte solo quando sono state presentate infine le mozioni dei candidati, all’inizio di febbraio. Ma anche quando sono emerse nero su bianco, quel che ha caratterizzato gran parte del dibattito è stata una bizzarra incongruenza. I vari candidati (in misura diversa) si sono soprattutto impegnati a presentare proposte di policy, come se si trattasse di illustrare un programma di governo. Ma un congresso dovrebbe prima di tutto servire a definire l’idea di partito, i principi a cui ci si ispira, la cultura politica che fa da cornice ai programmi, il modello di democrazia interna e di partecipazione, la strategia delle alleanze (sì, anche questa: non la si può eludere, rimandandola a chissà quando!).

E’ giusto riconoscere che nelle mozioni e nei discorsi di Cuperlo e Schlein ci sono stati elementi che vanno in questo senso, ma nel complesso non si può non notare questo appiattimento della discussione sul terreno delle “politiche”. La “politica” ha un po’ latitato.

Alla fine, al di là della significativa diversità tra i candidati, emerge un elemento che è un dato di lunga durata, nella vita del Pd: una notevole povertà del livello di elaborazione politica e intellettuale che ha caratterizzato, nel suo complesso, e continua a segnare la cultura politica diffusa, la “cassetta degli attrezzi” concettuali e analitici, con cui dirigenti e militanti riflettono sul loro stesso lavoro politico.

Detto ciò, come leggere il risultato di domenica? Decisivo, anche qui, il livello della partecipazione. Nel 2019, il rapporto tra voti degli iscritti e votanti alle primarie fu di circa 1 a 8,5: si può dunque presumere che, con 150 mila votanti tra gli iscritti, venga toccata la soglia del milione di votanti. Un salto di scala che potrebbe rendere ininfluenti gli scarti percentuali registrati nel primo voto. La grande incognita è questa: chi saranno mai tutti questi elettori? Da chi sarà composto il “corpo sovrano”, mutevole e indistinto, volatile e inafferrabile, chiamato a dare questa investitura plebiscitaria? Che tipo di “circolazione extra-corporea” si attiverà? Si possono formulare alcune ipotesi.

Primo punto: il Pd è stato percepito, in tutti questi anni, come il partito-sistema, che ha gestito molto potere, al centro e in periferia. Senza voler dare alla questione un tono moralistico, è indubbio che un partito siffatto attira molti gruppi di interesse e cordate di potere. Domanda: ma un partito catch-all che sta diventando catch-little, è in grado ancora di attivare queste filiere? Le forze che si sono allontanate da destra sono ancora interessate alla competizione interna al Pd?
Secondo punto: la novità sta nel fatto che una candidatura “anomala” come quella di Elly Schlein sta scommettendo proprio sulla riattivazione di una base elettorale esterna e chiaramente connotata a sinistra che, nel corso degli ultimi dieci anni, si è dispersa e allontanata dal Pd. I segnali che arrivano sembrano indicare un fenomeno di ri-mobilitazione: fino a dove potrà giungere?

Infine, i rapporti di forza che emergeranno dal voto non sono indifferenti rispetto alla successiva tenuta del partito. Oggi i due candidati non possono fare altro che promettersi lealtà reciproca: ma certo non potranno controllare i comportamenti di decine di migliaia di loro elettori. Distacco, delusione, risentimenti, convenienze: potrà accadere di tutto e di più, dopo, chiunque vinca. La/il nuova/o leader avrà di fronte un compito arduo ma ineludibile: inventare nuove procedure di discussione, partecipazione e decisione democratica, che diano al Pd quella che un tempo si chiamava agibilità politica; ovvero, un modello di democrazia interna che permetta il formarsi di distinte, e vere, aree di cultura politica e renda praticabile e produttiva la battaglia politica interna. L’unico modo per provare ancora a tenere insieme questo partito. Perché certo non lo potrà fare di per sé un leader (sulla carta) legittimato dal popolo delle primarie, ma di fatto (come la storia del Pd dimostra) fragile e vulnerabile

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