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L'ANALISI. Il voto dei tesserati, che ha premiato Bonaccini, non è affatto un microcosmo del consenso elettorale al partito, ma uno specchio deformante

Pd, una militanza da rifondare. Gli iscritti non sono il partito 

«Queste sì, che sono soddisfazioni!», come talvolta capita di esclamare. Nel caso di alcuni studiosi che si occupano di partiti (e mi ci metto anch’io), si può ben dire che l’esito delle primarie del Pd, alla luce soprattutto di alcuni stupefatti commenti, rappresenta una bella rivincita.

È davvero buffo che qualcuno scopra ora, con aria pensosa, che i gazebo hanno sconfessato gli iscritti. Oddio, come farà ora la povera Schlein a gestire questa situazione? Ma non ci era stato detto e predicato che oramai «il partito delle tessere» era un’anticaglia novecentesca? Che l’adesione al partito doveva essere leggera e il tratto identitario del Pd quello di essere «aperto» e «contendibile»?

È davvero singolare che adesso molti cadano dal pero e si preoccupino del destino degli iscritti. Per anni e anni ci è stato spiegato che era pura nostalgia pensare a un partito in cui avessero un senso espressioni come «radicamento territoriale», o «partecipazione» alla vita del partito («per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale»: articolo 49 della Costituzione); o che era faticoso e inutile, e costoso, tenere aperte le sezioni, quando oramai bastano i social.

Non solo: le regole che si era dato il Pd prevedevano espressamente la possibilità di questo divario: e lo si scopre ora, per fornire preoccupati (o interessati?) consigli a Elly Schlein?

Dopo anni in cui il ruolo degli iscritti è stato svilito e svalutato; dopo che è stato costruito un modello organizzativo in cui si davano gli stessi diritti a iscritti ed «elettori», sul punto cruciale (eleggere il segretario); dopo che vi è stata anche una trasandatezza assoluta nella gestione della macchina del partito, spesso appaltata ai potentati locali, dopo tutto ciò, ci si sorprende che vi sia stato un costante calo degli iscritti (salvo, solo ora, tornare ad attribuire gran valore agli iscritti residui)?

 

Guardiamo un po’ di dati, peraltro spesso opachi, non facilmente reperibili e approssimativi (il che la dice lunga, anche indirettamente, sullo stato del partito).

Nel 2008-9 erano 800 mila, 400 mila nel 2014-16; circa 380 mila nel 2019. Quest’anno sappiamo che hanno votato 150 mila iscritti, ma non è dato sapere la percentuale dei votanti sugli iscritti aventi diritto.

L’analisi però più interessante riguarda la distribuzione territoriale del voto: una semplice tabella ci mostra dei dati eloquenti. Mettiamo a confronto, per grandi aree geografiche, il rispettivo peso percentuale sul totale nazionale del voto degli iscritti, dei votanti alle primarie e dei voti al Pd del 25 settembre scorso.

Come si vede, tra gli iscritti metà hanno votato da Roma in giù; laddove, tra i votanti alle primarie si scende al 40%; mentre vengono da questi regioni il 34% dei voti al Pd. Inverso l’andamento per le regioni del Nord, più equilibrato l’apporto delle quattro (ex) regioni rosse. 

Ebbene, possiamo dire che l’universo degli iscritti che hanno votato a maggioranza Bonaccini non si può dire davvero rappresentativo del più ampio corpo elettorale del partito: non è un microcosmo ma uno specchio deformato. Basti pensare che in provincia di Modena hanno votato 2.290 iscritti e a Foggia 2.570. Alle primarie, poi, tanto per dare dei termini di raffronto, a Modena hanno votato oltre 25mila persone (11 volte in più) e a Foggia 12.326 (quasi cinque volte in più): cos’è più rappresentativo?

Che conclusioni trarne? Non certo che Elly Schlein debba snobbare questi iscritti. Ma deve essere ben consapevole che hanno caratteristiche peculiari e limitate: semplicemente non sono il partito (o tutto il partito). E magari partire da qui per proporre linee di riforma, nell’organizzazione e nelle procedure democratiche interne, che possano tornare a dare un valore e un senso all’adesione al partito e tornare a far aumentare il numero degli iscritti.

Altri sono i problemi con cui Elly Schlein deve misurarsi. E una questione pare emergere dal dibattito: come farà Elly Schlein a tenere unito il partito?

Sembra che le possibili alternative siano due: o la nuova segretaria rimane fedele alle sue promesse di radicalità e nettezza delle posizioni, e allora il partito si sfascia, o cerca di tenere insieme tutto, e allora il partito forse regge (ma poi quanto chiara e attrattiva sarà la sua posizione?).

È una falsa alternativa. Costruire la coesione del partito non significa annacquare la linea, rendendola infine incoerente e incomprensibile: significa arrivare ad una decisione sulla base di un percorso di discussione e di confronto quanto più ampio possibile, che dia voce e spazio a tutte le posizioni, che tenga conto delle idee di tutti, ma che alla fine valuti quale sia la tesi prevalente e quella da sostenere nel dibattito pubblico.

È un processo democratico e inclusivo quello che soltanto può dare legittimità ad una decisione e che la può rendere accettabile anche a coloro che non la condividono. Responsabilità di una vera leadership non è tagliare il nodo di Gordio, e costringere tutti o all’ubbidienza o alla rottura, ma coinvolgere saperi e opinioni, esperienze e competenze: dare un senso davvero all’idea di un partito che valorizzi l’intelligenza e la saggezza collettiva.

Per questo, tra i compiti più urgenti che ha di fronte Elly Schlein vi è anche quello di modificare radicalmente il modo di discutere e di decidere del partito. Se ne riparlerà

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PRIMARIE. Intervista a Mario Ricciardi, direttore della Rivista del Mulino

«Il contrappasso del gazebo in un partito tutto da ricostruire»

Dell’elezione di Elly Schlein e delle sfide che la attendono parliamo con Mario Ricciardi, che insegna filosofia del diritto all’Università Statale di Milano ed è direttore la rivista del Mulino.

Partiamo dallo strumento delle primarie: il voto di domenica ne conferma l’efficacia?
È un meccanismo che nacque come risposta a un problema contingente. Poi ci si innamorò dell’idea, anche se col passare de tempo ci si rese conto che gli effetti negativi erano maggiori di quelli positivi. Ma nessuno ha avuto il coraggio di tornare indietro perché, come si dice, le primarie sono «una festa della democrazia».

Il voto del cosiddetto «popolo dei gazebo» ha sconfessato quello degli iscritti.
È chiaro che creare le condizioni di uno scontro tra iscritti e simpatizzanti non è l’ideale. È un sistema che introduce un potenziale conflitto, mentre il partito dovrebbe fare sintesi, leggere la realtà sociale e gli orientamenti dei possibili elettori senza ricorrere a meccanismi di questo tipo.

Lei sostiene che l’assunto tacito, almeno alle origini delle primarie all’italiana, fosse che la mobilitazione dell’opinione pubblica fosse necessaria per bilanciare gli istinti socialisteggianti dell’apparato proveniente dal Partito comunista.
Quando sono state introdotte le primarie, nel 2005, si avvertiva ancora la cultura di origine in un partito che stava facendo una sua transizione che voleva approdare a un’identità post-comunista e post-socialista. Questa operazione incontrava delle resistenze, erano trasformazioni sofferte di fronte alle quali si opponeva una resistenza spesso passiva. Il meccanismo delle primarie scardinava questa dinamica. Dietro c’era l’idea che stessimo entrando in una fase nuova e che l’opinione pubblica non potesse che essere che illuminata: il mito della società civile.

Ora siamo di fronte a un contrappasso: questa volta dall’esterno è arrivata la spinta verso la candidata considerata più di sinistra.
Probabilmente molti che non avevano votato Pd negli ultimi tempi ma che si considerano di sinistra si sono visti un candidato sostenuto da molti ex renziani che nello stile sembrava riprodurre modalità che ricordavano quelle di Renzi: l’uomo del fare, il pragmatismo contro la sinistra da salotto, la retorica di chi si sporca le mani.

Eppure Bonaccini viene proprio dal Pci, a differenza di Schlein…
Bonaccini forse non è quello che ha cercato di apparire. Ha fatto una campagna sbagliata fidandosi troppo di alcuni opinionisti e finendo per spaventare gli elettori di sinistra. Schlein era perfetta per questi altri: in questa contrapposizione lei rappresentava quella di sinistra, quindi è stata vista come una speranza di cambiamento.

Ma la sua vittoria ha stupito molti.
Ha ragione quando dice: «Non ci hanno visto arrivare». C’è stato talmente disinteresse da buona parte della stampa sul fatto che un partito che aveva perso una parte dei suoi voti e che di fronte all’impoverimento del ceto medio non fosse riuscito a fare politiche contro le disuguaglianze. Nessuno sembrava essersi reso conto di questo problema.

Quale sfida si trova di fronte la nuova segretaria?
Ha tre quarti della stampa contro. In questi giorni sono arrivati alla mancanza di rispetto: la trattano come una ragazzina, le spiegano il mondo, le dicono quello che deve fare. Sarebbe
inconcepibile in altri paesi. Non sarà facile reggere tutto questo.

In effetti dalle nostre parti si continua a parlare di Terza Via, di blairismo come se fossero fenomeni ancora in auge, ma è una bolla solo italiana. Come se lo spiega?
Sono in difficoltà nel trovare una spiegazione. Non sono mai stato comunista, provengo da una cultura liberal-progressista all’interno della quale ci sono stati ripensamenti molto profondi, da prima della crisi finanziaria del 2008. Il primo evento traumatico furono le guerre in Medio Oriente, l’idea di esportare la democrazia abbracciata da Blair produsse effetti disastrosi. Su tutto questo, sul modello economico, sulla giustizia sociale, si è aperta una discussione che dura da due decenni e che dopo la crisi finanziaria è diventata importante, penso ai contributi di Stigliz, Sandel, Piketty. L’Italia sembra totalmente isolata da questo dibattito: lo ignora o cerca di ridicolizzarlo. Per capire il motivo servirebbe un antropologo.

Schlein dovrà portare quelli che l’hanno sostenuta «da fuori» nel partito o costruire un modello aperto ai non iscritti?
Se hai un partito che funziona e che fa il partito il dialogo con la società è più costante e profondo di quello che si affida alle primarie. Negli anni della «fine della storia» abbiamo immaginato che si potesse fare a meno dei partiti e che servissero comitati elettorali. Non dico si debba tornare ai partiti dei primi del Novecento, ma servono partiti che hanno radici nella società. Il Labour ha profonde radici sociali che nascono dal rapporto coi sindacati, circoli, associazioni, think tank che elaborano le idee… Tutto ciò è necessario. È difficile farlo in un paese in cui abbiamo abolito il finanziamento ai partiti. Ma Schlein dovrà provarci

 

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MEDITERRANEO. Da decenni scriviamo contro ogni guerra e, di conseguenza, a favore di ogni salvezza e accoglimento per chi dalla guerra fugge in cerca di una nuova possibilità di vita. Così, […]

 I soccorsi al lavoro sul luogo della tragedia - Lapressse

Da decenni scriviamo contro ogni guerra e, di conseguenza, a favore di ogni salvezza e accoglimento per chi dalla guerra fugge in cerca di una nuova possibilità di vita. Così, di fronte all’«ultima» strage a mare di migranti viviamo uno sconforto di rabbia e impotenza che ci fa dire che, ormai, scrivere è solo epigrafe. Di fronte all’evidenza delle responsabilità, sarebbe bastato un silenzio pietoso per gridare l’umanità sepolta nei cimiteri marini del Mediterraneo.
Invece no. Stavolta c’è un governo che straparla, giustifica e colpevolizza senza vergogna le vittime, e così facendo è come se rivendicasse, come un monito necessario, la strage di Cutro di persone annegate a cento metri dalla riva, dove il numero dei morti senza nome cresce di ora in ora.

«Non strumentalizzate questi morti» ha gridato nervosa la presidente del Consiglio Giorgia Meloni: possibile che non comprenda che con queste parole tradisce un malcelato senso di colpa? E poi c’è il barbaro in giacca e cravatta Piantedosi, che ripete convinto la sua litania funebre anche sul luogo del relitto: «L’unica cosa che va affermata è che non devono partire». Ma da dove partono e perché gli uomini, le donne e i bambini naufragati a Cutro? Sono partiti da Smirne, da quella Turchia riempita di miliardi di euro proprio perché bloccasse gli arrivi in Europa di centinaia di migliaia di esseri umani.

Spesso intrappolati senza scampo nell’inferno della rotta balcanica; dalla Turchia dell’ atlantico Erdogan ora alle prese con il disastro del terremoto e della marea

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Intervista al sociologo Domenico De Masi

 Domenico De Masi - LaPresse

Professor Domenico De Masi, come interpreta questa irruzione dei non iscritti che ribalta il risultato finale delle primarie del Pd?
Si capisce che l’iscrizione al partito era diventata una selezione di persone che in molti casi amavano lo status quo, agivano all’interno di un luogo che si autoperpetuava, era autoreferenziale, non usciva da una visione circoscritta del partito. C’è stata in effetti questa irruzione di gente come me, che non ho mai votato Pd ma sempre per forze a sinistra del Pd. Eppure sono andato a votare. Al gazebo dove ho votato io almeno quattro sulle sette alle ultime elezioni non avevano votato ma speravano in un cambiamento. Ed è lampante come i due candidati in campo fossero due idealtipi diversi.

Cosa l’ha convinta di Elly Schlein?
Mi piace la sua parte global. Mi ci riconosco: anche io ho studiato in Francia e ho la cittadinanza a Rio De Janeiro. Tutto ciò è antitetico a Meloni. Ci siamo scandalizzati perché Putin l’altro giorno ha criticato il fatto che l’Occidente ammetta le nozze gay, ma si tratta della stessa cosa che stigmatizza Meloni!

Che difficoltà incontrerà la nuova segretaria?
La cultura conservatrice sta pure dentro il Pd. Non vedo cosa ci sia di sinistra in Franceschini o in Bersani, che ha fatto le privatizzazioni. Vede, abbiamo avuto un periodo storico importantissimo, i dieci anni tra il 1991 e il 2001, che sono stati la cartina tornasole. Quel periodo va ancora studiato. Ci furono nove governi, dei quali tre di centrosinistra: quelli retti da Amato, Prodi e D’Alema. Le cose più di destra le fecero. Il neoliberismo nasce da Von Hayek e Von Mises, viene costruita come ideologia per arginare il socialismo: la prima cosa da fare secondo loro erano le privatizzazioni. Dentro il Pd ci sono ancora persone che sono figlie di quell’equivoco. Non lo fecero per perfidia, lo fecero perché non avevano capito che quello che veniva dall’America in quel caso non era modernità o progresso.

Parlando del M5S lei ha sempre sottolineato la necessità di un’organizzazione efficace. Schlein riuscirà a impossessarsi di quella del Pd?
Quando si sceglie un nuovo amministratore delegato ci sono i cosiddetti tagliatori di testa, ci si rivolge a società che fanno veri e propri esami ai candidati. Se si potesse fare così anche per i segretari di partito bisognerebbe accertare la loro capacità organizzativa e quella formativa. L’organizzazione serve a gestire quelli che stanno dentro, l’azione pedagogica si rivolge a quelli che stanno fuori. L’organizzazione politica richiede un’ideologia: organizzo un partito e formo gli uomini sulla base del mio modello di società. Se facessimo come i tagliatori di teste, che vanno per competenze e per consenso, dovremmo accertare se Schlein sa cos’è un modello di società di sinistra, se conosce i principi e le tecniche dell’organizzazione e della formazione. Se possiede un modello di sinistra. Questo lo vedremo, anche se come me altri l’hanno votata per questo.

Il M5S avrà un problema di concorrenza con il Pd della segreteria Schlein?
Il Pd in questi anni si è radicato nella borghesia, adesso c’è il pericolo che quella parte sia tentata da Calenda. Io ritenevo che le tre sinistre dovessero dividersi i compiti e i referenti sociali: il Pd alla borghesia, il M5S al proletariato e del sottoproletariato e la sinistra come voi e come me avrebbe dovuto pensare alla dimensione più movimentista. Il quadro ora si ingarbuglia, Schlein vuole occuparsi anche del disagio sociale dunque pesca nella riserva di caccia del M5S. Prima potevano essere tre regioni che diventano un continente, ora serve arriva a un accordo programmatico tra il M5S di Conte Pd di Schlein. Oppure pescano nello stesso silos: se aumenta una rischia di diminuire l’altra

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Notizie di Tommaso Fattori - IlGiunco.net

Il voto dei “passanti delle primarie” ha travolto il voto degli iscritti del PD, ribaltandolo. È stato uno schiaffone rivolto non solo alle classi dirigenti del Partito Democratico ma anche alla maggioranza dei suoi iscritti e dei suoi militanti, che la scorsa settimana avevano votato Bonaccini per il 53% (18 punti di distacco dalla Schlein).

Uno dei primi effetti è che il partito avrà una direzione disallineata rispetto all’assemblea nazionale, anche se la complementarietà fra Schlein e Bonaccini credo che sarà, alla prova dei fatti, maggiore di quanto molti immaginano. Lo abbiamo visto in concreto negli scorsi anni di “governo schleinaccini” in Emilia Romagna.

Per la verità è piuttosto bizzarro che un partito faccia scegliere il proprio segretario/la propria segretaria da chi non è iscritto e neppure vota PD alle elezioni, eppure è così. Ed è l’esito di un’idea di partito fluido di derivazione veltroniana e poi renziana che può riservare notevoli colpi di scena. Renzi ne approfittò nel 2013 trionfando alle primarie “aperte” con 1.895.332 voti corrispondenti al 67,55% (e poi di nuovo alle primarie del 2017), oggi vince Elly Schlein con circa 700 mila voti, il 53,8%.

Renzi riuscì a farsi votare alle primarie da un bel pezzo di mondo di “destra”, fino a quel momento estraneo al PD, oggi Elly Schlein è riuscita a farsi votare alle primarie da un pezzo di “centrosinistra”, esterno al PD anche se perlopiù contiguo: sto parlando essenzialmente delle varie “liste coraggiose” (una l’abbiamo avuta anche alle regionali in Toscana) e di pezzi dell’alleanza Bonelli-Fratoianni con relativi simpatizzanti. Un’area che in termini assoluti è piccola, attorno al 3% dei voti alle elezioni nazionali, ma che, se mobilitata in elezioni primarie, fa la differenza. E stavolta questa piccola area si è mobilitata diligentemente - spesso giustificando il proprio voto alla Schlein con motivi “tattici”, “machiavellici” etc - in elezioni primarie che pur hanno scaldato poco il cuore, suscitando scarsa attenzione anche sui vari social network. Solo dopo la vittoria di Elly Schlein le bacheche si sono improvvisamente e comprensibilmente ravvivate, dopo mesi in cui sembrava che questa vicenda non importasse sostanzialmente a nessuno.

Chi fa notare la costante e inesorabile emorragia di voto alle primarie del PD mette in evidenza un dato incontrovertibile: 3,5 milioni di votanti nel 2007; 3,1 milioni nel 2009; 2,8 milioni nel 2013; 1,8 milioni nel 2017; 1,6 milioni nel 2019; 1,3 milioni nel 2023. Ma è altrettanto incontrovertibile che si tratta di una tendenza generale - si pensi al crescente astensionismo alle diverse tornate elettorali - e che comunque, in questa nostra epoca, mobilitare oltre un milione di persone non è cosa da poco.

Il mio punto di vista l’ho ripetuto spesso in questi anni, credo che il PD sia irriformabile e che solo la sua ulteriore decomposizione possa aprire qualche prospettiva nuova. Non so se il PD farà nei prossimi anni la fine del Partito Socialista francese o del Pasok greco, né so chi, fra Schlein e Bonaccini, possa (pur senza intenzione) favorire maggiormente questa ulteriore decomposizione. Vedo che però in Italia, al momento, non c’è purtroppo nessuna France insoumise (e nessuna Syriza) all’orizzonte. Nè è chiaro se il M5S consoliderà o meno la “svolta socialdemocratica” degli ultimi tempi. Vedremo.

Intanto, come si suol dire in questi casi, auguro a Elly Schlein buon lavoro. So che non farà peggio di Bonaccini ma spero anche che faccia molto, molto meglio di quanto ha fatto in Emilia Romagna da vicepresidente della Regione, dove, alla prova delle concrete politiche sociali e ambientali sue e della sua giunta, ha dato pessima prova. Ma sopratutto spero che rispetto alla questione cruciale di questi terribili tempi - la guerra, le guerre - possa trovare finalmente parole non ambigue, distanziandosi non tanto da Bonaccini ma dal mainstream filobellico al quale è stata fino ad ora allineata.

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Elly Schlein dopo la vittoria alle primarie, foto Ansa
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Una attivista e dirigente di sinistra, una giovane femminista, una donna che ama un’altra donna. Basterebbe questa carta d’identità, per capire – e far capire – che la vittoria di Elly Schlein alle primarie, è una mini rivoluzione per un partito tradizionalmente maschilista, liberista sul piano economico, moderato sul piano politico, tartaruga nella difesa dei diritti civili. Ma è anche una identità sullo stomaco di tutta la politica italiana, perché non è difficile prevedere che le prime mosse della neo-segretaria della principale forza di opposizione, saranno di rottura degli schemi ai quali ci aveva abituato il partito guidato da Enrico Letta: sulla competizione con i Cinque Stelle, sul segno democratico-istituzionale, sulle picconate alle decisioni e alle proposte delle destre sui migranti, sul lavoro, sull’ambiente, sull’Europa.

Anni fa, durante l’onda di piena renziana, con la ripresa, sulle nostre pagine, del dibattito e della mobilitazione tra le minoranze, scrivemmo e titolammo “C’è vita a sinistra”, con la speranza di veder nascere un’area nuova, larga, popolare, aperta, libertaria, di rottura, socialmente e politicamente avanzata. Purtroppo quell’idea – che prevedeva una convergenza unitaria di tutte le organizzazioni più piccole a sinistra del Pd – non si è mai realizzata. Ciascuno preferì custodire la propria organizzazione.

Oggi invece, la spiazzante affermazione di Schlein, rianima la speranza tra il popolo di sinistra, sparso tra il Pd, i 5S, Sinistra Italiana, i Verdi e le altre piccole formazioni che nell’ultimo decennio hanno tentato, invano, di affermarsi.
Elly Schlein potrebbe essere la leader di un fronte progressista ampio, in grado di rimettere in moto “macchine” ferme, arrugginite, di stimolare passioni politiche spente, di ridare fiducia ad un esercito di scontenti, di spingere i più giovani a partecipare, riattivando un popolo duramente ferito dalla vittoria elettorale delle peggiori destre dell’Italia post-bellica. Ma per far questo – e tanto altro – Schlein dovrà niente di meno che rovesciare la piramide del Pd, le sue cristallizzate dinamiche interne, la sua stessa visione a-conflittuale del paese. E anche rompere con quella storia della sinistra, segnata da continue scissioni, rotture, divisioni. Per evitare di perpetuare la nefasta tradizione di incoronare oggi l’ex segretario di domani.

Se ci riuscirà lo vedremo presto. Perché gli ostacoli e le polemiche che hanno accompagnato le primarie, sono ben squadernate da un generale sbalordimento per l’inaspettato esito e, anche, dalla delusione di non poter parlare di un flop. Intanto le code per votare – sostiene chi vuole sminuire il significato dell’affluenza – sarebbero in parte dovute al voto di tantissimi sostenitori di Conte contro il nemico Bonaccini. Possibile vista la mancanza di qualunque filtro, ma saremmo di fronte a comportamento autolesionista per i grillini, visto che la futura segretaria Pd toglierà terreno proprio ai 5Stelle pescando, queste due forze politiche, in uno stesso elettorato.

Domenica sera, durante la diretta televisiva del manifesto (un esperimento che è piaciuto e riuscito, pur tra mille difficoltà tecniche, e che ci proponiamo di ripetere presto), uno dei nostri interlocutori, Domenico De Masi, spiegava bene che Pd e M5S finora ricevevano il grosso dei voti da due mondi diversi: uno “borghese” e uno più “proletario”. Forse d’ora in poi non sarà più così. Anzi, il Partito democratico potrà solo trarre vantaggio dalla nuova situazione se ricostruirà una identità socialista e ecologista seppellendo decenni di ubriacatura neoliberista. Preoccupandosi di rappresentare e di mobilitare le piazze sui diritti degli italiani meno garantiti, meno protetti, precari, senza diritti, quell’esercito di milioni di persone che nessuno rappresenta, neanche dal punto di vista sindacale. E naturalmente quella galassia ambientalista tanto ricca e presente nella società quanto risicata nelle istituzioni.

Resta comunque il rischio di una scissione? Possibile, ma improbabile. E semmai di altro segno: verso destra. A Renzi e Calenda la vittoria della Schlein sembra non dispiacere. I due paiono convinti che un pezzo del loro ex partito, si staccherà. D’altra parte è vero che, dopo la sconfitta di Bonaccini, tra le attuali correnti, una è fortemente legata al passato renziano. Per evitarlo, la futura leader dovrà mostrarsi capace di aggregare, di tenere insieme persone che, oltre ad avere orientamenti diversi (certo non una novità anche ripensando alla convivenza nel Pci di aree culturali molto distanti), tra di loro mal si sopportano.

Chi deve preoccuparsi davvero sono le destre al governo, di ogni ordine e grado. Intanto una premier che preferisce essere nominata al maschile (“il” presidente del consiglio), non fa una bella figura di fronte ad una donna che difende l’importanza della identità di genere e del mondo Lgbt (pensate a La Russa che si è dichiarato “dispiaciuto” se avesse avuto un figlio omosessuale: la vittoria di Schlein sarà andata di traverso a lui e larga parte della destra). Ma è sul piano politico che questo governo reazionario e fascistoide dovrà preoccuparsi. Perché la nuova leadership del Pd proverà a mettere in campo una opposizione marcata, senza concessioni.
In sostanza si tratterà di dare verità e credibilità al cambiamento, parola che, come tante buone intenzioni, ha spesso lastricato la via della disillusione, ma che se davvero porterà con sé novità positive, tornerà a convincere e a coinvolgere.

Rimettere in cammino forze sparse, divise, deluse, non sarà una passeggiata. Come abbiamo visto anche alle ultime regionali in Lombardia e nel Lazio, il distacco dalla politica è abissale. Il voto delle primarie, con tutti i limiti e le contraddizioni (la più vistosa: ribaltare il voto dei 150mila iscritti) rappresenta indubbiamente una scossa forte per i progressisti, per i democratici, per la sinistra. Tuttavia l’impresa – rimettere sulla giusta rotta un popolo sbandato e disperso – è molto complicata. E non sarà una donna sola al comando a poterla compiere

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