Il conflitto del Kashmir Colpiti obiettivi strategici nel Kashmir e nel Punjab pachistani. Islamabad: «31 civili massacrati, risponderemo con la forza»
Un obiettivo colpito a Muzaffarabad (Kashmir pachistano) – AP
Nella notte tra martedì 6 e mercoledì 7 maggio è arrivata la tanto annunciata «risposta» indiana all’attentato terroristico che il 22 aprile scorso ha colpito Pahalgam, nel Kashmir amministrato dall’India, uccidendo 26 turisti inermi.
L’esercito indiano ha condotto l’Operazione Sindoor bombardando per mezz’ora una serie di obiettivi nel Kashmir controllato dal Pakistan e nella provincia pachistana del Punjab. Secondo New Delhi si tratta di obiettivi «non militari» ma riconducibili a sigle terroristiche islamiche che da decenni conducono operazioni oltreconfine col beneplacito – e, dice l’India, il «supporto» – di Islamabad: campi di addestramento, centri di formazione e indottrinamento, sedi ufficiali di organizzazioni come Jaish-e-Mohammed, Lashkar-e-Taiba e Hizbul Mujahideen, appartenenti alla galassia qaedista.
PER LE AUTORITÀ PACHISTANE trattasi invece di attacco a freddo alla popolazione civile, con moschee e abitazioni nel mirino dei missili indiani, cui l’esercito di Islamabad ha immediatamente risposto bersagliando avamposti militari indiani oltre la Linea di controllo – il «confine di fatto» divide il Kashmir tra India e Pakistan – e abbattendo un numero di aerei da combattimento difficile da determinare con certezza, tra i due e i cinque.
Differenti anche i rispettivi bilanci delle vittime: il Pakistan denuncia l’uccisione di 31 civili, mentre il primo ministro indiano Narendra Modi parla di «80 terroristi» neutralizzati. Numero impossibile da confermare, ma da leggere a fianco alla dichiarazione di Masood Azhar, leader dell’organizzazione terroristica Jaish-e-Mohammed, che ha confermato la morte di dieci familiari, compresa la sorella, nel bombardamento di Bhawalpur, nel Punjab pachistano. Lato indiano, New Delhi parla di undici vittime civili a ridosso del confine, tra cui quattro bambini.
La redazione consiglia:
Massacrati dieci familiari del leader jihadista AzharÈ IL PUNTO PIÙ ALTO dell’escalation che fino a due giorni fa aveva interessato India e Pakistan solo a parole, ma che ora fa precipitare la comunità internazionale nel timore di una guerra aperta tra due potenze nucleari. Mentre scriviamo, dalle bombe si è tornati a combattere con le parole.
A ciclo continuo, da ieri mattina, i media mainstream e i profili social governativi indiani festeggiano il successo della missione evidenziando l’ennesimo «capolavoro di Modi», che anche questa volta – come nel 2016 e nel 2019 – ha vendicato le vittime di attentati terroristici in India lanciando «attacchi mirati» oltreconfine.
Il tutto condito da una simbologia che non sfugge all’opinione pubblica più oltranzista della destra hindu: il nome dell’operazione, Sindoor, indica la polvere rossa che le donne hindu applicano tra l’attaccatura dei capelli e la fronte per indicare di essere sposate, come a sottolineare il carattere religioso dell’offensiva militare contro il nemico pachistano, per estensione musulmano.
A rincarare la dose ci ha pensato il ministro della difesa Rajnath Singh, che in un colloquio con la stampa ha rivendicato il successo dell’operazione paragonandolo a «quanto fatto da Hanuman ad Ashok Vatika»: riferimento all’attacco portato dalla divinità hindu dalle fattezze di scimmia contro il re demone Ravana nel poema epico Ramayana. Sono elementi che galvanizzano un’opinione pubblica sempre più sensibile all’euforia bellicista del nazionalismo hindu e che, per una volta, si trova a braccetto col sostegno manifestato dalla totalità dell’arco parlamentare all’operato del governo Modi.
UGUALI E CONTRARIE suonano le trombe del nazionalismo in Pakistan. I media locali raccontano del «vigliacco attacco nel cuore della notte» dell’esercito indiano e magnificano la risposta orgogliosa dell’establishment militare. Scenario che la diplomazia pachistana sta cercando di diffondere a livello internazionale, denunciando la violenza indiscriminata mossa da New Delhi contro uno stato sovrano, fino a prova contraria, non coinvolto nell’attentato terroristico del 22 aprile.
Nella serata di ieri, in un messaggio alla nazione, il primo ministro pachistano Shebaz Sharif ha promesso che «ogni goccia di sangue versato» sarà vendicata, facendo eco ai proclami dell’establishment militare che annunciano un’operazione di rappresaglia di cui non si conoscono né modalità né tempistiche.
Come spesso succede tra India e Pakistan, siamo di fronte a due letture diametralmente opposte dei fatti, annebbiate da due retoriche propagandistiche sempre più asfissianti da cui è difficile scremare lo storytelling dalla cronaca.
L’impressione, però, è che questo non sia ancora il tempo del dialogo.