Illusione democratica Come se si fosse diffusa una strana sindrome da presbiopia democratica, molti commentatori, che non esitano a inquadrare come pericoloso quanto sta accadendo lontano dai nostri confini, da ultimo in […]
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni – foto Getty Images /Simona Granati
Come se si fosse diffusa una strana sindrome da presbiopia democratica, molti commentatori, che non esitano a inquadrare come pericoloso quanto sta accadendo lontano dai nostri confini, da ultimo in Romania, stentano a riconoscere l’esistenza di un analogo pericolo nell’Italia a guida Meloni.
È vero: diversamente dal presidente degli Stati uniti, la presidente del Consiglio italiana non sembra affetta dall’ossessione di farsi continuamente «baciare il culo» da qualcuno – si limita a fare smorfie e a strabuzzare gli occhi di fronte alle, sempre più rare, domande scomode -, ma ciò è sufficiente per considerare maggiormente equilibrata la sua azione di governo?
Tra gli obiettivi preminenti di palazzo Chigi spiccano tre riforme istituzionali il cui esito sarebbe il rovesciamento della Carta costituzionale vigente.
Oggi la formazione dell’esecutivo dipende dall’elezione del parlamento; il governo vorrebbe che la formazione del parlamento dipendesse dall’elezione del presidente del Consiglio dei ministri (non accade in alcuna democrazia al mondo).
Oggi il principio di uguaglianza è il criterio (ancorché spesso violato) che disciplina il godimento dei diritti; il governo vorrebbe che il criterio divenisse quello del luogo di residenza, a beneficio degli abitanti delle regioni più ricche. Oggi l’indipendenza dell’intera magistratura è tutelata da un organo rappresentativo dei magistrati, il Csm elettivo; il governo vorrebbe scindere il Csm in due organi formati per sorteggio, dunque non rappresentativi, uno per i giudici, l’altro per i pubblici ministeri, così aprendo le porte alla subordinazione di questi ultimi all’esecutivo (oltre che all’indebolimento della magistratura nel suo complesso).
Insomma, quel che prefigura il governo è un Paese in cui la sola elezione che conta è quella del capo del governo, i diritti dipendono dal luogo in cui si vive e la magistratura è assoggettata all’esecutivo: difficile ritenerlo un Paese in equilibrio con il dettato del costituzionalismo liberale.
Analoga è l’attitudine che emerge dalla concreta azione dell’esecutivo Meloni. Limitiamoci ad alcuni fatti (peraltro, ascrivibili a esponenti di tutti i partiti della maggioranza e apertamente rivendicati dai loro autori): la sconfessione della giustizia penale internazionale a protezione di persone accusate di crimini di guerra o contro l’umanità; il disconoscimento del primato del diritto europeo e l’intimidazione della magistratura al fine di avere mano libera nei confronti dei migranti; l’umiliazione del parlamento tramite il continuo ricorso alla decretazione d’urgenza e alla fiducia (fino al clamoroso caso del decreto cosiddetto «sicurezza», approvato scippando il parlamento della funzione legislativa); la creazione di una pletora di nuovi reati e aggravanti ai fini della repressione del dissenso politico e del disagio sociale; lo svilimento del lavoro da diritto a mero costo di produzione (con taluni provvedimenti provocatoriamente decisi durante le celebrazioni del primo maggio!); la plateale negazione delle urgenze ambientali; il discredito delle pretese fiscali dell’erario (le tasse come «pizzo di Stato») e la sconfessione della progressività dei tributi; la benevolenza verso le sempre più sfacciate manifestazioni pubbliche di matrice neofascista.
Com’è possibile che strappi tanto profondi al tessuto costituzionale non siano percepiti come un pericolo democratico? Probabilmente, per due motivi.
Il primo è l’acquiescenza meloniana nei riguardi degli equilibri economici e geopolitici europei improntati al neoliberismo finanziario, alla corsa al riarmo, alla prosecuzione delle ostilità in Ucraina: una rassicurazione decisiva per i poteri che contano.
Il secondo è la rimozione delle cause che, in larga parte del mondo, hanno portato al potere, o alla soglia del potere, la destra estrema, grazie al consenso o all’astensione delle classi popolari.
È chiaro che la ragione principale è l’abbandono delle politiche sociali legata all’appiattimento generalizzato della politica sull’agenda neoliberista. Riconoscerlo significherebbe, tuttavia, ammettere, oltre alle responsabilità delle forze democratiche nell’involuzione antidemocratica in atto, la necessità di tornare a sostenere lo Stato sociale, con la connessa redistribuzione della ricchezza dall’alto verso il basso che esso richiede. Esattamente quello che le élite, anche se democratiche, drogate da decenni di benefici inusitati, paventano.