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Si lavora sugli emendamenti alla direttiva di Bruxelles sulle retribuzioni. Abbandonata la strada di una cifra fissa di riferimento, si partirà dai risultati raggiunti dai sindacati a livello nazionale. In Europa ci sono ancora sei Paesi che non hanno una legislazione nazionale. L'Italia è tra questi. L'effetto trascinamento del caso spagnolo

 

 

Foto: Daiano Cristini/Sintesi

Il giro d’Europa del salario minimo comincia a vedere un traguardo. Dopo scontri di ogni genere sia a livello politico (soprattutto nel Parlamento europeo), sia a livello delle organizzazioni sociali (si è rischiata una rottura all’interno della Ces, la Confederazione dei sindacati europei), il testo della Direttiva sul salario minimo legale targata Ue sta per essere varato definitivamente per poter dare modo ai Paesi membri di recepirlo a livello nazionale. Nella relazione introduttiva la Commissione ribadisce che uno dei problemi a cui la Direttiva intende dare risposta è la "diminuzione strutturale della contrattazione collettiva". E la Direttiva intende quindi svolgere una funzione promozionale: nei paesi dove già esiste il salario minimo legale sostenendo la contrattazione tra le parti sociali: nei paesi dove esiste una legge che fissa standard minimi salariali, indicando criteri per garantire l'adeguatezza. L’Italia non sarà obbligata a questo passaggio perché una delle clausole della direttiva stessa riguarda la presenza o meno di una legislazione nazionale. E l’Italia, insieme a Svezia, Finlandia, Danimarca, Austria e Cipro, non possiede ancora una normativa sulla regolazione del salario minimo legale. Nei confronti di questi paesi la vincolatività della nuova Direttiva è alquanto evanescente. L'Europa intende però istituire un sistema di monitoraggio da parte della Commissione sull'andamento delle dinamiche salariali nei diversi Stati, basato sulla periodica trasmissione di dati anche disaggregati (per genere, età, settore, dimensione delle aziende) da parte degli Stati. Un obbligo quest'ultimo che di per sè imporrebbe all'Italia di dotarsi di un sistema di contrattazione più trasparente e regolato di quello vigente.

Il ministro Orlando ci prova
Tra i 27 Paesi europei sono appunto l'Austria, Cipro (in parte), la Danimarca, la Finlandia, l'Italia e la Svezia a non aver varato norme nazionali sul salario minimo. In Italia ci sta provando il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, che ha già avuto modo d'incontrare i sindacati confederali. L’obiettivo principale riguarda la necessità di tentare di smorzare l’esplosione delle diseguaglianze e mettere un freno ai contratti precari e pirata che spingono il nostro Paese verso i gradini più bassi delle graduatorie europee. Il ministro sta anche cercando di sfruttare il possibile effetto trascinamento degli esempi francesi e spagnoli.

Di recente la Spagna (come si può leggere nella scheda sulla situazione dei salari in Europa) ha approvato una riforma del mercato del lavoro dopo nove mesi di dibattito, che ha prodotto risultati importanti non tanto sul fronte dei livelli monetari dei salari, quanto su quello delle regole. Il cuore della riforma spagnola stabilisce infatti un limite alla flessibilità: vengono introdotti due tipi di contratti di formazione e un solo modello a tempo determinato con delle causali molto circoscritte. C'è inoltre una stretta sulle sanzioni per chi non si adegua (10 mila euro per ogni dipendente interessato) e ogni volta che viene attivato un contratto inferiore ai trenta giorni l'azienda dovrà pagare una penale. Il provvedimento interviene anche sugli accordi collettivi.