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PALESTINA. Quattromila spediti in Cisgiordania. E ora Israele gli dà di nuovo la caccia. Voci dal campo di Dheisheh: la cattura, l’ospitalità e i raid dell’esercito per ri-arrestarli. «Voglio tornare a casa mia anche se è sotto le bombe. Mi uccide stare qua mentre i miei cari sono laggiù»

Lavoratori palestinesi in un cantiere israeliano foto Ap Lavoratori palestinesi in un cantiere israeliano - Ap /Kevin Frayer

«Avete ascoltato la nostra storia. Ora uscirà questo articolo, in tanti lo leggeranno, e poi? Non cambierà niente». V. si alza dalla sedia di plastica bianca all’ombra di un melograno, saluta e se ne va.

Ha 52 anni, è di Khan Yunis e non ha quasi più nulla da perdere. Un lavoro, una casa, non li ha più. Gli resta la famiglia ancora viva, giù a Gaza, almeno fino a venerdì notte: da quel momento, come tutto il resto del mondo, non ha più modo di comunicare con la Striscia. Non sa se la moglie e i figli sono vivi.

LA RABBIA e il dolore li maschera con l’indifferenza, ma gli occhi tradiscono. La rabbia è merce comune tra i tanti riuniti qua al Phoenix Center del campo profughi di Dheisheh e il resto dei palestinesi sparsi per il paese e fuori, in diaspora. La convinzione profonda di essere soli accompagnava già il popolo palestinese, ora glielo stanno dicendo in faccia.

Sull’accrocco di case che è Dheisheh, 20mila profughi per 0,33 chilometri quadrati di suolo, sono ospitati alcuni dei circa quattromila palestinesi di Gaza che avevano in tasca un permesso di lavoro in Israele e che il 7 ottobre hanno visto cambiare tutto di colpo.

«Nei giorni successivi, al Phoenix Center ne sono arrivati 166, ora ne sono rimasti circa 50. Sessanta sono stati arrestati dall’esercito israeliano, tanti altri sono scappati e si nascondono tra le famiglie del campo. Qualcuno sembra sia fuggito a Ramallah».

Lo racconta O., uno dei leader della comunità di Dheisheh, volto noto della sinistra palestinese radicata nel campo, chiedendo di non essere

citato. Casa sua, come tutte le altre incastrata nella casa accanto, è una piccola oasi verde, un giardino pensile. Ha piantato di tutto, sfruttando ogni pezzo di parete disponibile.

«Quando i lavoratori sono arrivati qui a Dheisheh, ci siamo auto-organizzati: li aiutiamo con vestiti, cibo, coperte, qualche soldo, sim per il telefono». Li hanno accolti al Phoenix Center, grande spazio in cima al campo. Grande ma non abbastanza: i primi giorni alcuni hanno dormito su materassi a terra, poi dopo gli arresti si sono liberati posti tra i letti della guest house.

FUORI, nel giardino, sono seduti sei lavoratori. Hanno tutti in mano un pacchetto di sigarette e il telefono. «Io avevo un impiego a Led in un cantiere – dice V. – Sabato 7 ottobre, quando ho sentito dell’attacco, stavo lavorando a casa di una famiglia palestinese, per arrotondare. Sono subito andato via. Per strada non c’era nessuno, sembrava di stare sotto coprifuoco. Giravano solo auto della polizia. Una delle volanti mi ha fermato. Prima che potessero chiedermi qualcosa, sono salito nel sedile posteriore. Mi sentivo più al sicuro che a restare in strada, avevo paura che qualcuno mi aggredisse».

«Hanno controllato la carta d’identità e mi hanno portato in una stazione di polizia. C’erano decine di altri lavoratori di Gaza. Il giorno dopo è arrivato un bus e ci ha portati al checkpoint di Beit Sira, a Ramallah».

Tanti, dice M., 35 anni, sono stati catturati in strada dalla polizia o ai checkpoint con la Cisgiordania dove avevano pensato di rifugiarsi da soli, altri si sono presentati spontaneamente in caserma: «Avevano paura che li scambiassero per miliziani e gli sparassero addosso. E poi eravamo tutti convinti che ci avrebbero rimandato a Gaza. Non in Cisgiordania».

G. DI ANNI ne ha 31, è di Deir Balah e lavorava come operaio a Sderot: «Il mio autobus lo hanno portato a Tulkarem. Da lì Ramallah e poi Betlemme. Ho iniziato a lavorare in Israele nel 2021, tornavo a Gaza una volta al mese. Il permesso è giornaliero, puoi restare in Israele solo dalle 7 del mattino alle 7 di sera, ma è impossibile rientrare a Gaza ogni giorno, passare il valico di Eretz…tutti noi restiamo a dormire illegalmente, chi nei cantieri, chi in appartamenti in comune».

L’8 ottobre gli autobus carichi di migliaia di palestinesi sono arrivati in Cisgiordania, «in coordinamento con l’Autorità nazionale palestinese – continua O. – L’Anp li ha distribuiti sul territorio, hanno provato a mandarne centinaia nel carcere di Gerico ma la gente si è opposta. Da quel momento l’Anp non ha più fornito alcun sostegno».

Ad aiutarli c’è la gente del campo, i lavoratori sono scappati o sono stati catturati con niente addosso: «Molti non erano nemmeno stati pagati – spiega G. – Ci pagano ogni due o tre settimane in contanti e tanti non avevano ricevuto l’ultimo salario».

Tre giorni dopo l’arrivo a Dheisheh, a mezzanotte, il Phoenix Center è stato preso d’assalto dall’esercito israeliano: 40 blindati, decine di soldati, anche i cani. I militari sono riusciti a catturare una 60ina di lavoratori, gli altri sono fuggiti arrampicandosi sulle mura esterne.

«Perché prima ci hanno portato qua e poi sono venuti a riprenderci? Penso che subito dopo l’attacco le autorità israeliane siano andate completamente in confusione – dice Y., 40enne del nord di Gaza – Non sapevano che farne di noi e ci hanno sbattuto in Cisgiordania. Poi devono averci ripensato: siamo merce di scambio con gli ostaggi».

ORA RESTANO qua, prigionieri anche loro. Non escono mai dal centro, glielo hanno sconsigliato: potrebbero essere visti e arrestati. Non hanno notizie delle loro famiglie, non sanno se sono vive, se sono morte. Non sanno se e quando torneranno a Gaza, se un giorno li faranno rientrare a bordo degli stessi autobus che li hanno lasciati qui o se li trasferiranno in Giordania e da lì in Egitto. Non sanno nemmeno come la troveranno, Gaza.

Il pensiero comune lo affidano a M.: «Vogliamo tornare a casa anche se ce la stanno bombardando. Mi uccide stare qua, seduto su una sedia a contare il tempo che passa mentre i miei cari sono laggiù, sotto le bombe. Voglio tornare a casa, preferisco morire con loro»