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da "il manifesto del 15.06.2016
di Aldo Carra

I ballottaggi hanno origine antica: ballotte erano le sfere di oro o argento usate per l’elezione del Doge; ballotta era sinonimo di castagna e queste venivano utilizzate per contare i voti ai Priori delle arti a Firenze. Nel sistema elettorale italiano il ballottaggio per i sindaci è stato introdotto dopo tangentopoli per favorire la scelta della persona a scapito dei partiti delegittimati dalla corruzione.

Nel 2015 la Regione Toscana ha previsto il ballottaggio nel caso nessuno dei candidati raggiunga il 40%. Oggi la corruzione è penetrata anche tra le persone, i partiti quasi non esistono più, ma i ballottaggi restano.

Anzi, con l’Italicum, si parteciperà e si accederà al premio di maggioranza a prescindere dalla percentuale di consensi ottenuti. I Toscani di oggi hanno superato tutti i loro predecessori!

Da rimedio ad una degenerazione della politica, i ballottaggi di oggi stanno diventando causa di ulteriore degenerazione della sua qualità. Guardiamo al dibattito di questi giorni. Non si confrontano programmi e progetti costruiti con la partecipazione dei cittadini e con i partiti che li rappresentano. Si confrontano persone che sembra non abbiano storia ed appartenenze. Tutti vergini. I grandi campi ideali sinistra-destra, progressisti-conservatori in un momento si rimuovono come vecchi arnesi per poter conquistare elettori di altri schieramenti, ma un attimo dopo si riportano in vita per fare appelli al campo di appartenenza e chiedere fedeltà. Formazioni politiche al primo turno disprezzate e considerate avversarie vengono corteggiate per avere i “loro” voti. Chi ha distrutto il centro sinistra adesso si appella al suo spirito (spirito appunto!). In alcuni territori alcune forze sono alleate ed in altri avversari feroci.

Le accuse più frequenti ai concorrenti non riguardano le differenze programmatiche, ma il ”guarda chi sta con te!”. E dietro queste accuse non si sa bene quanto ci sia di ostilità e quanto di gelosia o invidia perché si sarebbe preferito che un sostenitore dell’avversario fosse un proprio sostenitore. Il ballottaggio rende tutte le alleanze intercambiabili. Insomma le parole, le collocazioni, i giudizi perdono ogni significato e ne acquistano uno opposto secondo il luogo, la persona, il giorno in cui vengono pronunciati.

Che l’astensione aumenti al primo ed ancor più al secondo turno, in questo panorama non deve meravigliare. Quasi quasi dovrebbe meravigliare la partecipazione al voto, questa caparbietà di chi insiste e resiste. Cittadini sballottati, ma ancora fedeli alla democrazia, devoti dell’appartenenza. Ed è da questo zoccolo duro che dipenderà l’esito dei ballottaggi di domenica.

Ma come mai ci siamo ridotti così? E perché da noi i processi avviati spesso si risolvono nel contrario di quanto si prevedeva? Quando – età veltroniana – si teorizzò il maggioritario, l’intenzione era di favorire il passaggio dal multipartitismo del proporzionale ad un sistema bipartitico. Sempre per amore dei modelli stranieri, mai studiati fino in fondo e tradotti sempre in salsa italiana in base alle convenienze del momento e di chi in quel momento governava. E sempre in ritardo, naturalmente.

Così mentre si pensava di semplificare dall’alto, in basso cresceva il malessere verso la politica e nasceva una forza, diversa e liquidata come populista, che oggi è diventata il primo “partito” d’Italia. Ed invece del bipolarismo ci troviamo di fronte ad un tripolarismo con un sistema che non lo contemplava. E per combattere il “nuovo populismo” invece di capirne le ragioni,i rinnovare se stessi e ritrovare radici, si è scelta la strada della concorrenza. Contro il populismo distruttivo di opposizione, dosi crescenti di populismo, ma di governo. Se il primo predica il reddito di cittadinanza, noi rispondiamo con gli ottanta euro ed alla politica dei no rispondiamo con la politica dei bonus. Su questo terreno, naturalmente, la destra non ha bisogno di riconvertirsi, ma di ritrovare se stessa. E così siamo passati dal multipartitismo al multipopulismo a tre. Troppi per un sistema con ballottaggi a due. Da qui incertezze, confusioni, imprevedibilità, incoerenze e contraddizioni di singoli e di formazioni politiche.

Cosa deve fare in questo scontro la terza grande forza che è esclusa? Ed ancor più cosa deve fare un’altra forza ancora più piccola, naturalmente esclusa? La sinistra ha scelto la terza via: non scegliere. Scelta comprensibile perché riflette travagli e rischi di ulteriori lacerazioni. Il momento è difficile e va bene. Ciascuno, poi, nell’urna farà la sua scelta.

Ma facciamola partendo da un fatto indubbiamente positivo: la cavalcata renziana è inciampata al primo ostacolo delle amministrative. Renzi voleva distrarci parlando di referendum, ma i fatti si sono imposti. Vedremo se si tratta di un semplice inciampo, di un arresto o di una inversione di tendenza. Ma senza dubbio siamo di fronte ad un fatto nuovo. E non è un caso che negli ambienti economici e di opinione prima schierati, qualcosa comincia a cambiare e la sua stessa immagine ad apparire ferma e ripetitiva. Renzi, insomma, comincia a stancare anche i suoi.

Se anche al ballottaggio subirà una sconfitta, potremo affrontare il referendum con maggiore energia e speranza. E la sinistra interna sarà spinta a scegliere ad impedire che Renzi vinca il referendum e ci porti alle elezioni con l’Italicum.

Sull’altro versante i Cinquestelle saranno chiamati comunque ad un salto di qualità: a responsabilità di governo, a politiche positive e costruttive, ad aprirsi, forti del loro successo, a relazioni con altri. Che la candidata sindaca a Roma si riprometta di avere come assessore all’urbanistica una persona come Paolo Berdini, tanto integerrima quanto di sinistra, già parla della fase nuova che si può aprire ed anche di una idea di città diversa ed alternativa a quella dei costruttori già pronti ai nastri di partenza delle olimpiadi.

Per la sinistra uscita non bene (ma non era facile in questa competizione dura affrontata col massimo di fragilità organizzativa e col minimo di leadership) si impone il salto di qualità: nel nuovo scenario tripolare non serve imprigionarsi nelle formulette rassicuranti del “mai col Pd” o del “salviamo il salvabile del centro sinistra” come non serve affiancare, senza riuscire né a fonderle né a moltiplicarle, le forze della sinistra che fu.

Escludendo di aggregarsi ad una delle macroforze esistenti, per la sinistra l’unica strada possibile è quella di costruire una “postazione” di iniziativa e di elaborazione, autonoma, ma aperta e dialogante, critica e costruttiva, che sappia muoversi nel panorama in movimento che la circonda, vivendoci dentro ed alimentandolo sia a livello sociale che politico.

Sinistra Italiana (per favore non cambiamo ancora nome) può esserlo. Se saprà nel vivo degli impegni dei prossimi mesi, evidenziare perlomeno tre pilastri del nuovo edificio (reddito di cittadinanza attiva, riduzione degli orari e redistribuzione del lavoro, intervento pubblico per la riconversione ed il rilancio) e far emergere il potenziale di energie affacciatesi in Cosmopolitica (magari evitando che anche le nuove forze si imprigionino in vecchie logiche di lotte interne, di potere e di cordate).

Se tutto questo non dovesse accadere Renzi rialzerà la testa. Già promette e minaccia di aggiungere alla prima legislatura senza essere eletto, altre due con la legge che si è fatto su misura. Ci basta la mezza legislatura fatta, penso.

 

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Nell'ambito del dibattito sulle "sorti della sinistra" riapertosi dopo i risultati del primo turno delle elezioni amministrative, vi proponiamo un intervento apparso su "il Manifesto" del 15 giugno. Certamente susciterà reazioni perché la sua analisi è amara e per certi versi paradossale. Aiuta forse a capire il senso complessivo dell'articolo l'occhiello inserito nel quotidiano: "Senza il Pd non esiste un futuro per la sinistra
I 5Stelle sono un movimento di destra, i figli di Grillo e Casaleggio sono più vicini a Farage e Salvini che non ai resti della vecchia sinistra". Qualcuno reagirà?

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Il mio ragionamento è questo (per quanto possa risultare sgradevole, mi auguro che sia letto fino in fondo).
1) Qual è l’obiettivo politico-istituzionale, con cui una “sinistra” dovrebbe mirare (in Italia di sicuro, ma forse, in altre forme, anche nel resto d’Europa) per conseguire il governo del paese?
Penso che in Italia, nell’attuale situazione storica, anzi, forse in una dimensione addirittura epocale, non ci sia altra risposta se non un governo, fortemente ragionante e solidamente strutturato, di centro-sinistra. Gli uomini di sinistra che pensano attualmente ad altro, non sbagliano: vaneggiano.
2) Controprova. Perché le liste dichiaratamente di sinistra pressoché dappertutto al primo turno delle elezioni comunali, il 5 giugno scorso, hanno ricevuto così pochi consensi, sproporzionati persino al livello attuale di contestazione che nel paese (comitati, associazioni, gruppi spontanei, sindacati, ecc. ecc.) sembrerebbe invece persino esser cresciuto nel corso degli ultimi anni? Perché non dichiaravano soluzioni politico-istituzionali credibili ma solo un lungo elenco di denunce e di proteste (assolutamente giuste, in sé considerate).
La gente, anche se ti è vicina, non ti vota se non hai da proporre soluzioni politico-istituzionali credibili.
3) Esiste per la nostra sinistra una soluzione politico-istituzionale credibile, e magari autorevole, e cioè un governo di centro-sinistra ragionante e solidamente strutturato, senza il Pd? Non esiste. E perché? Perché non sono alle viste soluzioni alternative di nessun tipo. Qui, anche da questo punto di vista, mi guardo intorno, e all’interrogazione si mescola qualche punta di stupefazione.
Può la sinistra italiana costruire un governo di centro-sinistra, – o qualcosa che seriamente gli equivalga, – con il Movimento 5Stelle? E’ evidente per me che non può.
Per almeno tre buoni motivi:
a) Il Movimento 5 Stelle in realtà non è un movimento vero e proprio (come, ad esempio, Podemos in Spagna), e tanto meno un partito: è il prodotto, senza dubbio indovinato, della ditta Grillo-Casaleggio, che all’occorrenza, come abbiamo visto recentemente, si trasmette addirittura per via ereditaria; dove di conseguenza il comando, discende esclusivamente dall’alto; e non consente nessuna democrazia interna (c’è bisogno di fare esempi?); e non manifesta in realtà nessuna simpatia neanche per le forme esterne, generali, della democrazia;
b) Il Movimento 5Stelle rappresenta l’espressione pura e semplice, e, se si vuole, più diretta e autentica, di quell’inquieto disagio di massa, prodotto inevitabile e perciò estremamente diffuso della crisi della democrazia rappresentativa e del sistema dei partiti in Italia; è, culturalmente e idealmente, più vicino alla Lega di Salvini e all’Ukip di Farange che non ai resti della vecchia sinistra (tant’è vero che, laddove si può, si predispongono a scambiarsi voti al ballottaggio nel nome del comune odio al sistema); i candidati e le candidate che lo rappresentano sono uomini e donne partoriti direttamente dalla crisi della massa, parlando la lingua balbettante e informe dei loro consimili, e perciò sono così popolari (qualche risorgente simpatia elitista? Ebbene sì);
c) La combinazione “disagio incontrollabile della massa – comando indiscusso e indiscutibile dei Capi” (non ci vuol molto a capire che fra le due cose corre una relazione), ricorda, naturalmente con i necessari ovvii punti di differenza, esperienze consimili già avvenute in Italia, ma, anche in questo caso, anche in Europa. Altro che Michels e Pareto! Ci vorrebbe un novello Giovanni Gentile, magari al livello degradato dei nostri tempi (ma forse oggi basta Grillo), per spiegare e apologizzare un fenomeno come questo. Naturalmente questo discorso non esclude che una quantità anche notevole di italiani onesti e disgustati dal sistema politico italiano abbiano aderito al M5S. Per questi elettori il ragionamento sarebbe diverso. Ma il voto no.
4) Dunque, se le cose stanno così, siamo di nuovo alla presunta inevitabilità dell’alleanza sinistra-Pd per preconizzare e

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Per proseguire il dibattito sul risultato del primo turno delle amministrative e "le sorti" della sinistra pubblichiamo, dopo la lettera di Jacopo Lorenzini, l'intervista di Daniela Preziosi a Sergio Cofferati apparsa sul Manifesto del 8 giugno. Il microfono è sempre aperto, aspettiamo le vostre riflessioni.

 

Intervista. L'ex pd: ai ballottaggi non possiamo dare indicazioni perché non abbiamo una politica delle alleanze. Per il congresso non possiamo aspettare fino al referendum. Dobbiamo essere un riferimento politico per chi abbandona Renzi

Sergio Cofferati vuole fare due premesse. La prima: «Il costante calo dei votanti alle amministrative, e cioè le elezioni storicamente più partecipate, ha l’effetto di ridurre il consenso con il quale il sindaco viene eletto. Pochissimi sindaci passano al primo turno. Dopo il ballottaggio, dove la partecipazione scende, ci saranno sindaci di città importanti che verranno eletti con un suffragio intorno al 20 per cento degli aventi diritto. Saranno sindaci deboli. E per questo avranno vita complicata». La seconda premessa: «Una cosa simile può accadere contemporaneamente al governo nazionale: con l’Italicum potremmo avere un partito che vince al ballottaggio con un numero basso di voti. Uno scenario inquietante. Mi preoccupa che il presidente del consiglio non se ne preoccupi affatto».

Le amministrative per Renzi sono una battuta d’arresto?
Assistiamo al fenomeno dei voti persi dal Pd, ma non solo. Ci sono anche quelli sostituiti. A Roma il luogo di maggior successo del Pd è Parioli, il quartiere della borghesia; a Milano il Pd regge nel centro storico e arretra nelle periferie. È la conferma che c’è una sostituzione di voti. Non sto parlando di Verdini, parlo dei soggetti sociali che votano Pd. La quantità di voti può restare la stessa, ma il Pd cambia natura perché cambia insediamento sociale. Cambiano le domande che vengono da chi lo vota.

E però questi soggetti sociali in fuga dal Pd non si travasano sui sindaci di sinistra, tranne poche eccezioni. Perché?
Perché la sinistra ha uno spazio potenziale ampio, ma al momento non ha una proposta politica né una struttura organizzativa. Quanto alle eccezioni, sono lodevoli: Cagliari, Brindisi, Caserta, Sesto Fiorentino.

Un momento: a Cagliari Zedda guidava una coalizione di centrosinistra, in molte altre città grandi invece avete promesso liste di ’sinistra sinistra’.
A Cagliari è stata riconfermato il centrosinistra perché ha governato bene. C’è stato un giudizio positivo sulla coalizione e sulle politiche dell’amministrazione, oltreché su Zedda. Le esperienze arancioni, dove hanno funzionato, andavano riproposte.

Scusi, anche a Milano è di nuovo avanti il centrosinistra. Un centrosinistra che a lei non piace e che in molti hanno scomunicato.
Milano è tutta un’altra storia. Lì l’esperienza arancione si è interrotta. Sala non c’entra niente con quella storia. Alle primarie c’erano due candidati di sinistra che si sono eliminati a vicenda. Il sindaco Pisapia prima ha lasciato candidare Maiorino poi gli ha contrapposto Balzani. È stata la sua scelta sbagliata di mettere in contrasto due suoi assessori ad aver affossato la storia arancione. E a non aver garantito la continuità della sua giunta.

Torniamo al Pd che perde voti e alla sinistra che non li guadagna.
Sinistra italiana doveva definire la sua proposta politica e, in essa, il problema delle alleanze. Un problema che c’è: dobbiamo essere una forza che si candida a governare. E nessuno pensa di poter governare da solo si è proceduto a tentoni nascondendo quello che presumibilmente è elemento di dissenso interno, e cioè quali possono essere le alleanze praticabili e a come le si costruisce, con quali discriminanti. Ma se non nasce in fretta la proposta politica, rischiamo di non essere attrattivi. E va definito subito anche il progetto organizzativo. Se vuoi fare un congresso devi avere gli iscritti. Ma oggi la campagna di adesione si basa sostanzialmente sulla rete. Non va bene: la tecnologia è strumento importante ma non può essere la soluzione su cui si fonda il nuovo soggetto. Bisogna fare le tessere guardando in faccia gli iscritti.

Fare una campagna di tesseramento mentre si va alle comunali con coalizioni di partiti concorrenti a sinistra sarebbe stato complicato.
E perché? Con gli alleati si fa l’alleanza, a casa tua parli con i tuoi iscritti. Senza iscritti e senza congresso restiamo in una fase delicata di democrazia sospesa. Questo tempo va ridotto. Conosco la fatica di questo lavoro. Ma il fatto che non sia iniziato è inquietante. A settembre c’è la campagna referendaria. Come si farà il congresso a dicembre se prima di ottobre non ci saremo dati il tempo di iniziare la discussione?

Ma ha senso per voi fare un congresso prima di un referendum che potrebbe cambiare tutta la scena politica?
Non si può aspettare il referendum per decidere che fare. Ci dobbiamo essere per offrire un riferimento a chi nel Pd decidesse di cambiare collocazione.

Nelle città però i delusi dal Pd però non vi hanno votato.
Ripeto: perché non siamo stati in grado di dare loro un riferimento nella politica nazionale. Sono delusi da Renzi per ragioni di politica nazionale.

Ai ballottaggi i candidati sindaci di sinistra non danno indicazioni di voto. Le piace questa scelta?
Io penso che bisogna sempre votare. Ma la mancanza di indicazione è inevitabile: nasce dalla mancanza di progetto e di una politica delle alleanze.

Nessuna indicazione anche nella sua Bologna dove lo spareggio è fra Pd e Lega?
Bologna non fa eccezione. Anche se non ho dubbi su cosa faranno quelli che hanno votato Martelloni. Spero che partecipino al voto.
Ma una forza politica che non sceglie ai ballottaggi non rischia di mettersi fuori gioco e rassegnarsi a non avere un ruolo politico?
Noi oggi siamo fuori gioco. E non scegliere è un segno di debolezza. Ma è inevitabile. Per questo spero che ora Sinistra italiana, o come si chiamerà, provi ad accelerare i tempi. L’anno prossimo si vota a Genova, la città dove abito e dove c’è una giunta arancione. Non vorrei che ci ritrovassimo ancora in questa condizione. Anzi: mi piacerebbe che Genova proseguisse la sua esperienza arancione. Con Marco Doria.

Vorrebbe che Sinistra italiana invitasse subito Doria ad andare avanti?
Vorrei che mettesse in campo il suo progetto per dare forza alla prosecuzione a esperienze di governi di sinistra e centrosinistra. A Milano non è successo, per fortuna è successo a Cagliari. Aiutateci a salvare il soldato Doria.

 

 

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2 giugno. I pacifisti scrivono, Mattarella tace

Celebrare con la sfilata delle Forze Armate la Festa della Repubblica sta diventando sempre di più un esercizio retorico e anche un po’ tronfio. Il 2 giugno è una ricorrenza civile, non una festa militare. Le Forze Armate hanno già la loro «giornata» (il 4 novembre) e la Costituzione della nostra Repubblica recita all’articolo 11: «L’Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle crisi internazionali».

Festeggiare la Repubblica all’insegna dell’esibizione militarista non è mai un bel segno: lo fanno di solito – per la loro festa nazionale – i Paesi con un forte imprinting nazionalista e soprattutto i regimi autoritari. Quest’anno, per cercare di prevenire le critiche, alla parata del 2 giugno verranno fatti sfilare qualche decina di sindaci con la fascia tricolore.

Una sorta di gadget civile prima di vedere sfilare mezzi militari e battaglioni armati. Forse i sindaci avrebbero fatto meglio a rimanere nei loro municipi, aprendo le porte i cittadini e regalando loro una copia della Costituzione, che continua a rimanere la carta d’identità della nostra comunità. Meno male che ci hanno risparmiato i marò (come sembrava invece fino a qualche giorno fa): sarebbe stata una strumentalizzazione inaccettabile.

Dal 2010 ad oggi abbiamo buttato al vento più di

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Le parole d’ordine della propaganda per il Sì al referendum sono smentite dall’analisi del testo delle riforma. Che il presidente del Consiglio fa difendere da un giurista già consigliere di Bossi e tifoso della devolution di Berlusconi

Ha mantenuto la promessa di essere demagogico Matteo Renzi, che ieri a Bergamo ha aperto la campagna elettorale del Sì quando mancano quattordici giorni alle elezioni amministrative e quattro mesi almeno al referendum costituzionale.
La comunicazione è assai ben studiata, si vede la mano del consigliere americano. Il discorso del presidente del Consiglio rimanda ai volantini diffusi dal Pd nei banchetti che raccolgono le firme per il Sì, alle schede sulla riforma pubblicate ieri dall’Unità e al materiale di propaganda diffuso dal sito Bastaunsi. Nel complesso sono tre i punti di attacco.

La riforma semplifica. La formula viene tradotta in altri slogan. «Chi vince governa per cinque anni». Un merito, nel caso, che si dovrebbe attribuire alla legge elettorale. Che, però, malgrado il super premio di maggioranza non può escludere cambi di orientamento dei deputati nel corso della legislatura (quel trasformismo che oggi consente al governo Renzi di andare avanti) e dunque non può impedire crisi di governo. «Basta ping pong delle leggi». Non è così perché i senatori-consiglieri regionali continueranno a votare le leggi (anche quelle costituzionali) e almeno quattro dei sei nuovi e diversi procedimenti legislativi prevedono un passaggio al senato.

La riforma favorisce la partecipazione. È vero il contrario, a partire dal fatto che

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Ripubblichiamo qui, traendolo da Ravenna & dintorni , l'editoriale di Federica Angelini perché pone in modo chiaro e diretto un problema che interroga innanzitutto la sinistra anche nella nostra città e, in genere, nella nostra regione.
Lo facciamo nella speranza di aprire un dibattito capace di approfondire gli argomenti sollevati che riguardano il rapporto pubblico-privato ed il futuro dei servizi pubblici. Si tratta di tematiche che sono rilevanti nel dibattito politico anche nazionale, ma cruciali per il soddisfacimento di bisogni ed interessi primari dei cittadini.

Hera, che modello si sta difendendo?
di Federica Angelini

La vicenda dei rifiuti non ha solo a che fare con un disservizio importante. Da come si uscirà da questa vicenda, e forse in qualsiasi modo se ne uscirà, potrebbe scaturire una riflessione sempre presente nel dibattito politico che per una volta potrebbe portare a conclusioni un po' diverse dal solito gioco delle parti forse anche dentro lo stesso .Pd.
Una riflessione politica che ha a che fare con il ruolo del pubblico e del privato, con la forma di Hera a maggioranza pubblica, ma una maggioranza divisa tra tanti soci di territori anche molto diversi, gestita come un'azienda privata. Vedere il sindaco che sbraita e chiede le scuse o il segretario del Pd tuonare (Mai più) rischia di apparire più come una dichiarazione di impotenza che altro.
In teoria, ci hanno detto in questi anni Hera è anche nostra. Ma la verità è che ormai questo essere anche nostra rischia di ridursi ai dividendi che produce ogni anno il pacchetto azionario in mano a Ravenna Holding (si noti bene, non al Comune di Ravenna, che ne è sì il socio principale ma non l'unico) e poco altro. La guida, l'indirizzo politico, dove sono? E a cosa servono?
il problema si pone in modo quanto mai articolato in previsione della grande gara quindicennale

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