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 Tra il dicembre del 2009 e l’estate del 2012 Maria Luisa Boccia e Alberto Olivetti hanno intrattenuto una fitta serie di conversazioni con Pietro Ingrao che ci ha lasciato un anno fa, il 27 settembre del 2015. Sono state registrate e trascritte per realizzare un volume. Alcuni capitoli sono pronti per la stampa, altri attendono una revisione.

Nel marzo del 2011, frutto di quegli incontri, fu pubblicato Indignarsi non basta presso l’editore Aliberti, che ebbe grande diffusione ed è stato tradotto in diverse lingue.

Gli stralci qui proposti sono invece inediti, risalgono a un incontro seguente della primavera del 2011. Li abbiamo scelti, in occasione dell’anniversario della sua scomparsa, per l’attualità che i giudizi di Pietro Ingrao rivestono riguardo alle discussioni su Parlamento e legge elettorale.

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Stato e democrazia. «Ho potuto verificare, da presidente della Camera, quanto fosse difficile far funzionare il Parlamento. Tuttavia non mi persuade la riduzione a Palazzo a dell’Assemblea, e degli eletti a casta»

 

 

Ci accade ogni giorno di essere presi nelle maglie di una struttura artificiale. E questo sembra esserci “da sempre”. L’ordine ti prende e stringe fin dalla nascita, come se fosse un dato naturale appartenervi. “Stato” è il nome che diamo ad un insieme composito, forse per nulla ordinato e coerente, di regole, istituti, funzioni, dentro il quale svolgiamo le nostre vite.

La norma non realizza una parte insopprimibile della relazione e dell’esperienza umana. Che non può essere rimossa, relegata alla sfera privata. Non può essere cancellata, sia pure come eccedenza e differente dicibilità, nell’agire politico, o in quella sua peculiare manifestazione che è l’atto legislativo. Se non altro come consapevolezza del limite, come dubbio sulla pretesa di imparzialità della legge. Personalmente non mi sono affidato in primo luogo alla scrittura di norme. Quando dico “volevo la luna”, nomino l’esigenza di un salto, prima di tutto nel linguaggio e nelle relazioni. Nella politica è questo che mi coinvolge: nella vita umana le leggi contano, e dunque l’attività legislativa è importante, non può essere sottovalutata. Ma c’è un di più nella politica che è comunicazione, relazione. Una relazione che assume le forme più strane, particolari. Questo in me si è unito spesso con… come lo vogliamo chiamare? ma sì, chiamiamolo amore per la natura. I cieli, le inclinazioni del tempo che scorre, l’alzarsi della luna nelle notti di estate: mi ha sempre trascinato, mi ha dato molta emozione.

Sono stato immerso, incollato alla politica, nel suo farsi quotidiano, ma ho sempre avvertito chiaramente una riserva interiore. Lo testimonia la poesia che amo terribilmente… c’è un di più che la politica non esaurisce in sé stessa. E dal quale, tuttavia, non può prescindere.

Non credo alla separazione tra sfere distinte, segnate da confini definiti: privato e pubblico, interiorità ed esteriorità, individuo e collettivo, società civile e Stato. Non è così nella vita di ognuno di noi e la politica non può non intrecciarsi alla complessità dell’essere umano. Anche se non potrà mai comprenderla e darne conto, per intero.

Conosco bene la realtà del sistema istituzionale e dunque so quanto siano fondate le ragioni della critica. So quanto di tecnico e separato vi è nel Parlamento, e quanto questo contrasti con il suo ruolo costituzionale, di esercizio della sovranità popolare. Ho potuto verificare, soprattutto da presidente della Camera, quanto fosse difficile far funzionare il Parlamento, quale luogo effettivo di formazione delle scelte, di mediazione e di sintesi per le decisioni. Tuttavia non mi persuade la riduzione a “Palazzo” dell’Assemblea elettiva, e degli eletti a “casta”: un mondo separato, chiuso nei suoi privilegi e nei suoi meccanismi di autoconservazione.

La rappresentanza, di questo sono convinto, non è mai mera delega. È una relazione attiva, quali che siano concretamente le sue modalità. Ed è qui il problema. Se è una relazione costruita sullo scambio di interesse, o sul messaggio mediatico. O, viceversa, su una condivisione di esperienze, un dialogo sulle idee, in qualche modo un patto tra soggetti, diversamente coinvolti nella politica. Nella Costituzione è scritto che il parlamentare rappresenta la nazione, senza vincoli di mandato. Nella storia politica di cui sono stato partecipe sono stati i partiti a dare costrutto pratico, materiale, alla rappresentanza.

Crisi dei partiti di massa e crisi della rappresentanza sono due facce della stessa medaglia. O restituiamo sostanza e trasparenza alla relazione tra rappresentanti e rappresentati, e le Assemblee elettive tornano ad essere un luogo di confronto che conosce momenti di conflitto e momenti di mediazione e sintesi, oppure si acuirà la divaricazione tra procedure del consenso e sedi della decisione. Da un lato la personalizzazione della politica, affidata a poche figure di leader e al loro messaggio, dall’altro una miriade di tecnici, concentrati su questioni settoriali, nei vari gabinetti e vertici di concertazione corporativa.

È davvero singolare che mentre si invoca ad alta voce una semplificazione della politica ed un rapporto più diretto ed immediato dei cittadini con chi li governa, lo Stato si dilata. Cresce e si articola attraverso un insieme di apparati e organismi più o meno informali, in ogni modo sottratti ad ogni forma controllo e di trasparenza democratica. Ognuno di noi ne ha esperienza diretta.

Lo Stato è un prisma di specchi nel quale si rifrange ogni giorno, sui diversi aspetti della vita, una particolare modalità del potere politico. E né come individui, né come gruppi sociali possiamo fronteggiare questa influenza, senza le necessarie mediazioni. A questo sono servite le istituzioni della rappresentanza, sociale e politica. Francamente non vedo altri strumenti, altre forme politiche che possano svolgere questa funzione, in modo più efficace.

Nella Costituzione è il Parlamento, non il governo, a rappresentare la sovranità popolare. E’ vero, nei fatti ha prevalso una diversa, perfino opposta, concezione politica. Ma i guasti che ha prodotto, di inefficienza e degenerazione, sono ormai cronaca quotidiana. Sono stato sempre convinto che la prima riforma è il monocameralismo. Una platea di mille membri non può funzionare. Più alto è il numero, più cresce a dismisura la lentezza e l’inefficienza dell’istituzione. Se riduci il numero dei parlamentari ed hai una sola sede rappresentativa la selezione dei deputati corrisponderà più a criteri politici che non ai mille rivoli degli interessi corporativi e delle clientele locali. Non è la sola riforma da fare. Anche la legge elettorale deve essere adeguata alla centralità dell’istituzione rappresentativa. Il modo in cui si formano le Assemblee elettive orienta le scelte dei partiti, il loro modo di organizzarsi, di scegliere i propri dirigenti, di rivolgersi all’opinione pubblica e costruire partecipazione e consenso.

Democrazia è parola che uso con sobrietà. Tanto più oggi. Ma non so ridurre la democrazia a mera procedura di legittimazione dei governanti. Se guardo al modo in cui ho agito politicamente la valorizzazione dell’istituto rappresentativo è un punto fermo. Sono stato Presidente della Camera in anni cruciali di transizione. Ho visto affermarsi culture e pratiche di frantumazione e scomposizione del sistema politico ed istituzionale. Si avvertiva già con forza la spinta verso il decisionismo e la governabilità assieme a quella, apparentemente opposta, alla proliferazione di sottosistemi, al peso crescente degli apparati e delle burocrazie. Mi sono convinto che non dipendevano da condizioni contingenti, ma avevano radici profonde.

Per capire ho ritenuto necessario studiare, ho rinunciato alla Presidenza della Camera e sono andato a presiedere il Centro studi per la Riforma dello Stato. Vorrei fosse chiara qual è stata la ragione di fondo che mi ha spinto: il coinvolgimento delle classi popolari nella formazione delle scelte, costruendo l’indispensabile raccordo tra la loro azione politica e le istituzioni. Come si può realizzare questo coinvolgimento, se non si assicura trasparenza e libertà di confronto nelle Assemblee elettive? Come possono, altrimenti, esercitare un effettivo potere, a fronte della concentrazione e specializzazione dei poteri economici e finanziari, militari e burocratici, tecnologici e dell’informazione? In quel breve testo, Indignarsi non basta, riflettevo sulla mancanza di un comune collante politico.

Cambiano ovviamente le modalità con cui i poteri agiscono per dividere e frantumare, ma il deficit di rappresentanza ha un peso rilevante nella perdita di coesione sociale. In questo trovo conferma di una mia convinzione di fondo. Se la democrazia non si organizza e non si dota di poteri effettivi anche i conflitti sociali cambiano natura, muta e si restringe il senso di cosa è politica. Non dimentico quanto fosse acuta, drammatica, la preoccupazione nel Pci che si riproducesse la frattura tra le classi popolari e le classi dirigenti, che la rivolta sociale assumesse le forme del “sovversivismo”. Se il Pci ha avuto una funzione nella storia politica di questo paese è stato quello di aver lavorato tenacemente a costruire legami tra le classi popolari e le istituzioni democratiche. Non sempre ci siamo riusciti, ma non è arretrando da questo sforzo che si troveranno alternative ai nostri limiti e sbagli.


 

 

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Referendum. Per la sinistra è una battaglia che chiede a tutti un impegno senza risparmio, senza tatticismi con generosità e slancio. Ogni incertezza si tradurrebbe in perdita di credibilità politica

Il referendum costituzionale è appuntamento politico di prima grandezza. Renzi ha visto giusto attribuendogli un ruolo essenziale per il suo governo. Ora sondaggisti, consiglieri, autorevoli opinionisti lo hanno convinto che il plebiscito può essere un boomerang, che la vittoria del No è possibile, anche se tuttaltro che certa.

Renzi, rimangiandosi precedenti ricatti, afferma che si voterà nel 2018 e resterà a capo del governo anche in caso di vittoria del No. Deve aver capito che potrebbe non essere più così.
Comunque sia ora si può votare No senza passare per eversori e ha ragione Smuraglia, perché non propagandare le ragioni del No anche nelle feste de l’Unità?

Le modifiche della Costituzione insieme alla nuova legge elettorale (Italicum) delineano una svolta istituzionale, imperniata sul rovesciamento del fondamento parlamentare della nostra repubblica, mettendo al centro il governo e in particolare il suo capo, giustificata con la governabilità ad ogni costo, contrapposta alla rappresentanza degli elettori.

Banche d’affari, potentati della finanza e dell’economia nazionale ed internazionale appoggiano la svolta di Renzi, perché il rapporto con la globalizzazione diventa subalternità ai suoi fondamenti, a partire dal Ttip. Resta solo la contrattazione di qualche zero virgola di tolleranza, come sta cercando di fare Renzi, nella speranza che le modifiche istituzionali necessarie per prendere decisioni impopolari passino prima di essere costretti ad adottarle.

La centralizzazione delle decisioni, compreso l’esproprio delle regioni, prepara le condizioni per fare i conti con le resistenze all’omologazione, in cambio dell’essere ammessi nei salotti buoni, salvo scoprire che contano meno della stanza dei bottoni di Nenni.

In America Bernie Sanders ha sfiorato la candidatura presidenziale e condizionato il programma elettorale dei democratici perché la tensione sociale e politica accumulata in questi anni negli Usa ha incontrato una critica serrata al dominio e alle perversioni della finanza, una critica alla disuguaglianza, un’attenzione verso chi non ha speranze, soprattutto i giovani che chiedono un futuro. L’età dei protagonisti non è la discriminante, in Italia lo capiremo quando sarà passata la moda tardofuturista.

In Italia hanno affascinato velocità: per arrivare dove non si sa, semplificazione, pressoché inesistente, rottamazione, cioè sostituzione di gruppi dirigenti con altri non di migliore qualità. Il M5Stelle deve molto a Renzi, se occorre rottamare chi può farlo meglio di chi non c’era? Per questo in epoca di rottamazione c’è chi ha preso forza e chi è in difficoltà crescenti come Renzi.

Il referendum si vince se soggetti molto diversi riescono a mobilitarsi per il NO. E’ ovvio che non sarebbero in grado di dare vita ad una coalizione alternativa, il compito è far vincere il NO. Per di più le modifiche della Costituzione non dovrebbero essere costitutive di un programma di governo, o meglio è Renzi ad avere introdotto questa anomalia.

Le forze contrarie alle modifiche della Costituzione partono da punti di vista diversi. E’ tanto vero che l’astro nascente di Forza Italia Stefano Parisi, intelligentemente, copre le contraddizioni della destra, prima compartecipe e ora per il No, con la proposta di un’Assemblea Costituente.

Per questo non c’è un unico comitato per il No. Punti di partenza e motivazioni sono troppo diversi. Se il governo non avesse forzato, ricorrendo a scorciatoie regolamentari, imbarcando transfughi pur di avere la maggioranza, ricattando un parlamento senza legittimazione, non ci sarebbe stato bisogno di ricorrere al referendum, ultima possibilità di bloccare una modifica della Costituzione inaccettabile, tanto più per la connessione stretta con l’Italicum, tanto simile al Porcellum.

Il referendum è l’unica possibilità contro lo stravolgimento della nostra Costituzione. Ora si ammettono errori nelle modifiche, ma si trascura di chiarire le correzioni le faranno il Senato e la Camera futuri, non eletti dai cittadini. E’ il merito che conta. Su quello si vota. Le modifiche della Costituzione sono inaccettabili e vanno respinte in quanto tali. Le conseguenze politiche ci saranno certamente, ma il quesito non è sul futuro di Renzi, anche se è diventato presidente del consiglio con lo sgambetto a Letta.

Se vincerà il No occorre approvare una nuova legge elettorale per la Camera e il Senato, rispettosa della parità di voto, tale da riconsegnare agli elettori la scelta dei loro rappresentanti e di affidare la formazione di un governo ai programmi, ad un accordo quando è necessario, perché la mediazione sociale e politica non è una bestemmia ma il modo per rafforzare la capacità autonoma del paese di stare nella scommessa globale. Esattamente il contrario dei premi di maggioranza, delle élites dominanti che impongono le loro soluzioni.

La sinistra che ruolo vuole svolgere? Il referendum è un punto dirimente per il futuro e ciascuno dovrebbe offrire il suo impegno senza risparmio e senza tatticismi. Sarebbe paradossale che mentre nel Pd penetra il No ci fosse un impegno inadeguato delle sinistre. Ora siamo al voto finale: o No, o Si. Comportamenti incerti porterebbero a una caduta di credibilità, altri ne beneficerebbero.

La sinistra può svolgere un ruolo importante e preparare il futuro se si impegnerà con generosità e slancio, senza farsi continuamente la domanda su come finirà. Quando si tratta di battaglie dirimenti si fanno perché è giusto farle, non perché si possono vincere, essendo chiaro che vincere è l’obiettivo.

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Intervista a Luca Mercalli

L'ecologia scomoda. Chiude il programma che il sabato sera faceva un milione di spettatori parlando di ambiente. E' stata lanciata una petizione per chiederne la riapertura.

Dopo '610' di Lillo e Greg (Radio Due), il 'caso Fornario' e la sostituzione della Berlinguer, viale Mazzini chiude il programma che il sabato sera faceva un milione di spettatori parlando di cambiamento climatico. L'amarezza del conduttore Luca Mercalli: «Non c'è più spazio per un'informazione ambientale di qualità»

11 agosto 2016 - Daniele Castellani Perelli su L'Espresso

Fonte: http://espresso.repubblica.it/visioni/cultura/2016/08/09/news/rai-tre-cancella-scala-mercalli-trattavamo-argomenti-scomodi-per-il-governo-1.279984 

FIRMA LA PETIZIONE: https://www.change.org/p/direttore-rai-3-riapriamo-scala-mercalli

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Libia. Per quanto ci riguarda la posizione per noi è chiara ed è quella espressa dalla Rete Disarmo: no ad interventi militari e no alla concessione delle basi militari italiane per i raid

Ieri la ministra della difesa Roberta Pinotti – a un question time chiesto dal Pd – ha annunciato che l’Italia «è pronta a concedere l’uso delle basi e dello spazio aereo nazionale» per gli aerei americani o della coalizione anti-Isis chiamati a intervenire dal governo libico contro l’Isis. Gli americani hanno già iniziato a bombardare Sirte da due giorni e forse stanno già utilizzando le nostre basi.

Nell’intervento la ministra -per l’utilizzo delle basi- non ha fatto riferimento al bisogno di autorizzazione parlamentare poiché la risoluzione 2259 dell’Onu già concernerebbe questa possibilità. Senonché, ora siamo a un punto di pericolosa accelerazione con davanti a noi 30 giorni (e forse più) di bombardamenti americani e l’utilizzo delle nostre basi. Non ce la si può cavare con un question time e una comunicazione della ministra alle commissioni esteri e difesa che ci sarà oggi. Il parlamento italiano ha il dovere di riunirsi anche nei prossimi giorni e votare sull’impegno del nostro paese in questa vicenda.

Siamo ad un punto di passaggio pericoloso. L’avvio dei raid americani può avere effetti disastrosi, accendendo la miccia di una escalation di cui è difficile prevedere l’esito. E c’è una questione più concreta e drammaticamente importante: quei raid (e sappiamo quanti morti innocenti hanno fatto i droni americani in Afganistan e in Iraq) mettono a repentaglio la vita di 7mila civili tenuti in ostaggio in una zona di Sirte da un migliaio di combattenti dell’Isis. I precedenti dovrebbero invitare alla massima cautela. Non è la prima volta che in Libia si gioca una partita geopolitica assai complicata, con la Francia coinvolta in una guerra a sostegno di Khalifa Haftar che agisce in proprio, fuori dal controllo del governo centrale di Al-Sarraj. E proprio la risoluzione 2259 chiede ai paesi di evitare «il sostegno a istituzioni parallele».

Proprio quello che sta facendo la Francia con le milizie di Haftar: un elicottero francese pochi giorni fa è stato abbattuto (con tre soldati francesi morti) durante una di queste azioni «parallele». La partita geopolitica ha per oggetto il controllo di risorse ed aree di interesse: per la Francia l’obiettivo principale è la Cirenaica con i suoi pozzi petroliferi. L’Italia non ne sta uscendo bene. Un anno fa la ministra Pinotti ha ventilato l’ipotesi di mandare 5mila soldati in Libia, salvo fare marcia indietro qualche giorno dopo l’altolà di Renzi e della comunità internazionale.

Ora ci apprestiamo a dare le basi di Sigonella e Aviano per i raid senza aver valutato le conseguenze non solo per la Libia, ma anche per il nostro paese. Abbiamo lasciato campo libero a Francia e Usa che ci stanno portando su una china non proprio rassicurante. Più che una missione è un’omissione: il Parlamento viene tenuto all’oscuro. Domani dovrebbe chiudere i battenti, ma vanno riaperti subito per discutere di una avventura da valutare con la necessaria documentazione e con la massima trasparenza nei confronti dell’opinione pubblica e dei cittadini.

Per quanto ci riguarda la posizione per noi è chiara ed è quella espressa dalla Rete Disarmo: no ad interventi militari e no alla concessione delle basi militari italiane per i raid. Va bloccato il traffico delle armi verso quell’area e va rilanciata l’idea della convocazione di una nuova conferenza internazionale di pace, capace di un negoziato vero con gli attori locali, al riparo degli interessi e dell’offensiva geopolitica dei paesi occidentali, della Russia e delle altre potenze regionali. Questo è quello che vorremmo dire in parlamento, che chiediamo di riunire al più presto. Perché se c’è la guerra, le istituzioni repubblicane non possono andare in ferie.

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Centinaia di corpi seminudi ammucchiati per terra, in quello che sembra un hangar o un caravanserraglio, mani legate dietro la schiena, lo sguardo perso senza luce di chi, sconfitto, chiede pietà ma non s’aspetta altro che violenza. Giovanissimi e inermi i soldati che si sono arresi, che hanno rifiutato di sparare sulla folla, che hanno ceduto alle promesse di fraternità dei manifestanti pro-Erdogan nella lunga notte del golpe tentato e fallito, e che ora invece vengono bastonati, diventano la colonna infame della vendetta del Sultano.

In queste ore il presidente turco trionfante aggiunge alla lista di proscrizione tutti i nemici, o quelli che considera tali o a malapena orientati verso la predicazione dell’autoesiliato Gülen, l’ex sodale e potente islamista ora diventato capro espiatorio di ogni malefatta. Da ieri agli arresti, oltre a 650 civili e a più di 6 mila soldati, ci sono anche 8mila agenti di polizia a quanto pare non sufficientemente fedeli, nonostante che la polizia sia stata la guardia pretoriana del regime contro i soldati golpisti. Ai quali si aggiungono 130 generali dello stato maggiore turco finiti in galera insieme a 800 magistrati (di cui due di Corte costituzionale). Più che un repulisti, una vera decimazione e deportazione.

Si riempiono le galere, è il tempo delle sparizioni, della tortura, delle confessioni estorte. E il popolo aizzato e in trionfo chiede il ripristino della pena di morte, che il governo di Ankara aveva eliminato come richiesto dall’Ue per l’ingresso del paese nell’Unione.

Un ingresso sempre rimandato – un tempo perfino sostenuto dal carcere dal leader kurdo Ocalan imprigionato dal 1999, ma come prospettiva di soluzione “europea” della questione kurda – e alla fine abbandonato da Bruxelles. Mentre Stati uniti, Paesi europei e Nato hanno preferito delegare al «nostro» Sultano atlantico il lavoro sporco di destabilizzare la Siria – in rovine – così diventando il santuario dei ribelli anche jihadisti.

È il buio della specie. Queste immagini di deportazione evocano inevitabilmente l’universo concentrazionario e di sterminio che l’Occidente raffinato ha allargato soltanto 70 anni fa nel cuore d’Europa, i fili spinati dell’ultima guerra fratricida balcanica. Così come la declinazione ordinaria di ogni colpo di stato – nonché occidentale – che si rispetti, dalla Grecia, al Cile, all’Argentina.

Fermiamo la mano del boia, delle deportazioni, delle sparizioni e delle torture. Delle esecuzioni a sangue freddo come quella del vice-sindaco di un municipio di Istanbul. Siamo al disprezzo dell’umanità. Ogni civiltà invece si misura sul rispetto del vinto. I governi europee, l’Ue, gli Stati uniti e la Nato sono stati tutti a guardare nella notte del tentato golpe, aspettando partecipi la sua riuscita. Perché non c’è F-16 che si levi in volo da Incirlik senza che i comandi centrali della Nato lo sappiano. Abbiamo assistito come spettatori interessati, per prendere le distanze solo dopo il fallimento del golpe. Il rischio è che staremo a guardare anche adesso lo spettacolo dei campi di concentramento che apre un nuovo sipario di dolore nel sud ferito del nostro Continente. Fermiamo il Sultano.

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Continuiamo il dibattito sui risultati elettorali delle amministrative di giugno e sulle prospettive della sinistra, riprendendo un intervento di Andrea Ranieri su il manifesto del 6 luglio.

Movimento 5 Stelle . La centralità della cittadinanza, agita fra i più poveri e i più deboli, ha arricchito il populismo del M5S. Resta la peggiore delle loro ambiguità, quella sui diritti dei migranti

Non si va molto lontani nell’affrontare la difficoltà della sinistra di alternativa a raccogliere il consenso del popolo, che volta finalmente le spalle a Renzi e al Pd, se la crescita del movimento che ha raccolto questo consenso, il Movimento 5 stelle, viene fatta oggetto, più che di analisi e di riflessione, di veri e propri esorcismi. Tali sono le liquidazioni della vera e propria insurrezione elettorale di Roma e di Milano sotto la categoria della «rivolta plebea» , o mettendo in uno stesso sacco, sotto la voce populismo i movimenti di rottura dei vecchi e insostenibili assetti politici che emergono in tutta Europa e non solo.

I populismi hanno in comune di aver costruito un campo in cui trovano posto e si unificano le diverse insoddisfazioni verso lo stato di cose presente, nella società degli individui, che ha perso un fattore di riferimento, un tempo si sarebbe detto una classe sociale, che permetta di leggere in maniera unitaria le diverse contraddizioni che l’attraversano. La rivolta contro la casta è stato ed è il cemento unificante di populismi per altri aspetti molto diversi tra loro. La lotta contro la casta si è accompagnata in molti paesi al razzismo e alla xenofobia; altri hanno visto la casta come la interprete subalterna nei proprio paesi degli interessi di quell’1 per cento che domina l’economia mondo, e che in Europa si esprime nelle politiche di austherity monetarista.

Il movimento 5 stelle ha tenuto, nel bene e nel male, l’Italia lontano da questi due modelli. La denuncia del degrado della politica, della autoreferenzialità e della disonestà della casta è rimasto il momento pressoché esclusivo del suo messaggio, che gli ha permesso di tenere insieme spinte molto diverse tra loro. In ciò facilitato dalla evidente natura castale della Lega e della destra italiana e dai residui castali e dai personalismi che ancora attraversano il campo della sinistra alternativa in formazione. E ha dovuto confrontarsi con il nemico più pericoloso, il populismo di governo del premier Renzi, che a sua volta ha assunto la lotta alla vecchia politica da rottamare come il dato centrale della costruzione del suo consenso. Con un elemento comune e con una differenza non da poco. Il dato comune è una narrazione tutto sommato tranquillizzante della fase.

L’idea cioè che ridotti i costi della politica, della burocrazia, della intermediazione sociale, l’economia e la società possono ripartire senza toccare i meccanismi di fondo che la crisi hanno generata e gli stili di vita e le modalità di consumo dei cittadini. La differenza è che, mentre per Renzi questa riduzione avviene attraverso una contrazione degli spazi di democrazia, ridotta al puro momento elettorale, per i 5stelle – e questo è stato il cuore della loro campagna elettorale a Roma come a Torino – la riduzione della casta deve avvenire attraverso il potenziamento delle strumenti e delle forme della cittadinanza attiva, e costruendo regole che evitino il riformarsi del professionismo politico.

E hanno costruito per questo una organizzazione capillare di ascolto e di proposta che per anni ha battuto i luoghi abbandonati dalla sinistra, le periferie urbane, in cui hanno dovuto confrontarsi con la crescita delle disuguaglianze, del degrado ambientale, e con le persone che in maniera singola e associata per salvare il loro territorio stanno cambiando le loro stesse modalità di consumare, di lavorare, di vivere. E hanno collegato la loro azione puntuale sul territorio al rifiuto del jobs act, della buona scuola renziana, alla rivendicazione del reddito di cittadinanza.

La centralità dell’idea di cittadinanza, agita fra i più poveri e i più deboli, ha arricchito di un’attenzione nuova alle contraddizioni sociali e alle disuguaglianze il loro populismo originario. Il fatto stesso che nel formare le loro giunte abbiano attinto a persone non certo allineate col loro movimento, ma che hanno costruito la loro storia politica e professionale confrontandosi con questi temi, è il frutto di questa loro capacità di stare nel sociale e di viverne le contraddizioni.

So benissimo tutte le possibili obiezioni che si possono muovere a questa analisi ottimistica della possibile evoluzione del 5 stelle – i miti e i riti della Casaleggio e associati, il non aver sciolto le ambiguità della loro collocazione internazionale, il semplicismo di molte delle loro ricette economiche, e più grave di tutte le loro ambiguità, sui diritti dei migranti – ma credo che una sinistra che abbia come obiettivo primario, come ci ricorda Ada Colau, la ripoliticizzazione della società, perché nella società degli individui vincono sempre gli altri, debba considerare queste contraddizioni come più vitali e cariche di futuro di quelle che attraversano il campo del cosiddetto centro sinistra e del Pd.

Su queste contraddizioni bisogna lavorare, prendendo al meglio il loro messaggio, e non facendone una caricatura che rende più facili gli esorcismi. È quello che hanno fatto, con molta intelligenza politica, Montanari, Urbinati, Zagrebelsky e altri esponenti di Libertà e Giustiza nell’appello rivolto ai 5 stelle perché si impegnino in maniera ancora più convinta nella battaglia contro la riforma della Costituzione e l’Italicum. E di confermare per questa via la loro differenza dal populismo decisionista renziano, proprio nel momento in cui i sondaggi dicono che potrebbero essere proprio loro i professionisti della politica a cui il meccanismo perverso dell’Italicum potrebbe affidare la stanza dei bottoni da cui decidere sul nostro futuro.

Quanto al Pd «mai dire mai». Se Renzi perdesse il referendum dalla sua probabile dissoluzione potrebbero sprigionarsi forze, energie, intelligenze utili a ridefinire un progetto di economia e di società.

Ma quel che resta della sua sinistra politica deve avere chiaro che per poter esercitare un ruolo in questo senso ha un’unica possibilità. Quella di schierarsi da subito e senza ambiguità per il no alla riforma costituzionale. Altrimenti sia che Renzi perda o che Renzi vinca si confermerà la sua già palese irrilevanza.

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