da "il Manifesto" del 19 gennaio 2020: una analisi socioeconomica del prof. Ardeni (presidente, fra l'altro, dell'Istituto Cattaneo) che sarà molto utiile per interpretare correttamente il risultato delle elezioni del 26 gennaio.
Tra una settimana, gli elettori di quella regione non più «rossa» sono chiamati al voto. Come sappiamo, questo sarà un momento di passaggio che segnerà non tanto il destino dell’attuale governo – quali che siano i risultati – quanto perché ci aiuterà a capire in che direzione andrà il nostro sistema politico, come stanno cambiando gli orientamenti, i valori e i bisogni della società italiana. La regione con la più alta percentuale di stranieri in Italia, dove gli «over 65» sono quasi un quinto della popolazione (erano il 16% 40 anni fa). Una regione dove in un quarto dei comuni la popolazione è in calo, l’87% vive in zone urbane, e dove, però, un terzo dei comuni ha meno di 5 mila abitanti (con solo l’8.1% dei residenti). E sono i comuni piccoli quelli a maggiore presenza di anziani, minor presenza di stranieri e anche i più «periferici». Una regione ricca, con bassa disoccupazione, dove il 40% dell’export va all’estero (nel 1980 era solo il 15%), con un reddito pro-capite tra i più alti in Italia, anche se non ugualmente distribuito né sul territorio né tra le classi. SE BOLOGNA È LA PROVINCIA più ricca, e con Parma e Modena è tra quelle con reddito sopra la media regionale, le 4 province romagnole, assieme a Piacenza, sono parecchio sotto (un quinto meno di Bologna). Una regione dove il 70.7% dei residenti ha reddito inferiore ai 26 mila euro (a Bologna città sono il 63.7% mentre a Rimini sono il 77.7%), cui però va solo il 42% del reddito totale, con una disuguaglianza pur inferiore al resto del paese ma che è più alta nelle zone più ricche (a Bologna e Parma l’8% dei residenti ha reddito superiore ai 55 mila euro annui). Una regione, come il resto d’Italia, dove nei poli urbani si concentrano i redditi più alti e le classi
L'Europa dovrà raggiungere la neutralità climatica entro il 2050; tutte le politiche Ue dovranno tenere conto degli obiettivi del Green Deal. Fondo da 7,5 miliardi di euro, all'Italia circa 360 milioni-
15 gennaio 2020
Via libera dal Parlameento europeo al piano Ue per la neutralità climatica entro il 2050, che ha approvato il Green Deal della commissione Von Der Leyen e spinge per obiettivi più ambiziosi. L'Europarlamento aveva adottato il Green Deal europeo, così come presentata dal Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, nel corso di un dibattito in Plenaria a dicembre 2019.
Gli eurodeputati, nella risoluzione adottata con 482 sì, 136 no e 95 astensioni, chiedono un obiettivo di riduzione delle emissioni del 55% entro il 2030 invece che il 40% attualmente previsto.
Politiche coerenti
"Il Parlamento ha sostenuto a stragrande maggioranza la proposta della Commissione sul Green Deal e accolto con favore il fatto che ci sarà coerenza tra tutte le politiche dell'Unione e gli obiettivi del Green Deal. L'agricoltura, il commercio, la governance economica e le altre politiche devono ora essere visti e analizzati nel contesto del Green Deal", ha dichiarato Pascal Canfin (Renew Europe, Francia), presidente della commissione per l'Ambiente del Parlamento europeo.
Quanto costerà
Il nuovo Fondo per la 'transizione giusta' da 7,5 miliardi di euro, presentato dalla Commissione Ue, destinerà all'Italia circa 364 milioni di euro. Tuttavia l'Italia, essendo contributore netto al bilancio europeo, dovrà versare circa 900 milioni per il fondo stesso.
Le cifre del Green Deal varato dalla Commissione saranno pubblicati a breve, con la ripartizione Paese per Paese. La 'quota' dell'Italia nell'ambito del nuovo fondo per la 'transizione giusta' sarebbe di 364 milioni di euro ai quali si aggiungerebbe il cofinanziamento dello Stato portando l'ammontare dell'impegno finanziario per assicurare la copertura degli effetti economici e sociali negativi della conversione ecologica della produzione di energia e dell'attivita' produttiva a 1,3 miliardi.
Se si tiene conto di tutti i 'pilastri' dell''operazione verde' (oltre al fondo per la 'transizione giusta' con 7,5 miliardi, InvestEu, che dovrebbe mobilitare 45 miliardi di investimenti, e gli strumenti di prestito per il settore pubblico presso la Bei e garantito dal bilancio Ue, che dovrebbe mobiitare 25-30 miliardi di investimenti)), l'Italia potrebbe contare su 4,9 miliardi di euro. La quota italiana del fondo per la 'transizione giusta' è leggermente più bassa di quella francese e un po' più alta di quella spagnola.
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Gli affezionati lettori di questo giornale conoscono bene quello che, da molti anni, è divenuto quasi un genere letterario: articoli, interventi, appelli che, periodicamente, in vario modo, proponevano una qualche ricetta per la rinascita o la ricostruzione di una “sinistra” nel nostro paese. Si trattasse di un nuovo partito, di una “lista unitaria”, o di una “rete”, questi appelli si sono quasi sempre rivelati assai caduchi o hanno prodotto risultati effimeri.
Ma da qualche tempo c’è una novità: non se ne leggono più, se ci avete fatto caso. Sono spariti: semplicemente, sembra che, per una sorta di sfinimento, nessuno abbia più nulla da dire a tal proposito o creda veramente che si possa inventare o dire qualcosa di originale. Appare benvenuto dunque il richiamo che Norma Rangeri ha riproposto su queste pagine: non appare più comprensibile, anzi appare persino intollerabile, il silenzio tombale che circonda questo tema.
Le varie forze residue, più o meno (molto meno che più) organizzate, si limitano a vivacchiare: con l’estremo paradosso che l’ultimo dei progetti falliti, quello di Liberi e Uguali, ha prodotto nondimeno un piccolo gruppo parlamentare che si è rivelato, inopinatamente, decisivo per il governo in carica ed esprime anche dei bravi ministri e sottosegretari. Ma “LeU”, ahinoi, è una sigla che vive solo nei sottotitoli dei telegiornali.
La “crisi della sinistra” è divenuta così un insopportabile piagnisteo: tutti a lamentarsene, tutti a celebrarne la “morte”, nessuno che muova un dito o tiri fuori una qualche idea. E dire che, guardando un po’ in giro, anche solo in Europa, il quadro non è poi così funereo.
Si potrebbero citare molti dati, ma basta scorrere i risultati delle elezioni in vari paesi europei, per scoprire che, accanto ad un partito socialista più o meno in salute, c’è spesso una formazione politica alla sua sinistra che ottiene percentuali dignitose, e che spesso è decisiva per gli equilibri di governo: non solo la Spagna o il Portogallo, ma – ad esempio – tra i casi più recenti, la Finlandia.
Per non citare poi le situazioni che hanno visto sì una sconfitta, ma sulla base di una forza elettorale ragguardevole: la Grecia, con Syriza al 31,5% e poi, naturalmente la Gran Bretagna, dove il Labour Party di Corbyn è stato sconfitto con il 32,1% dei voti (dopo essere passato, è bene ricordarlo, dal 30,4% del 2015 al 40,0% del 2017).
Non c’è che dire: è in Italia che la situazione è veramente patologica. Capirne le origini e le cause esula dai limiti di un articolo. E in ogni caso, sebbene utile, questo esercizio retrospettivo, o recriminatorio, non ci esime dalla fatidica domanda sul “che fare”, qui e ora, partendo da un assunto: ossia, che i partiti non si inventano dal nulla, nascono dalla combinazione tra l’emergere di nuove fratture sociali e culturali, “dal basso”, e un forte esercizio di una leadership unificante, “dall’alto”.
Podemos non sarebbe nato senza il movimento degli Indignados ma nemmeno senza il ruolo di Iglesias e del gruppo dirigente che si è mosso insieme a lui. E così per Tsipras e Syriza, in Grecia: una grave crisi sistemica, ma anche una forte capacità aggregante di una nuova leadership. In Italia, evidentemente, entrambe queste condizioni sono mancate: dobbiamo limitarci a prenderne atto o si può fare ancora qualcosa?
Tra i tanti elementi su cui riflettere possiamo qui richiamare un solo aspetto: in Italia viviamo, da un quarto di secolo, all’interno di quella che, giustamente, Miguel Gotor, nel suo ultimo libro (L’Italia del Novecento, Einaudi) ha definito la “Repubblica dell’antipolitica”: una pervasiva, egemone conformazione dello “spirito pubblico”, ma anche scelte sciagurate dei gruppi dirigenti (nel ceto politico, ma certo non solo), che hanno prodotto una crescente destrutturazione del sistema politico e alimentato una sistematica denigrazione dell’idea stessa di partito.
“Rifare” un partito, ma anche solo riformarlo o rilanciarlo, in questo clima, è davvero un compito improbo: e così si continua, da più parti, a rimestare l’acqua nel mortaio dei cosiddetti “contenuti”, a sottolineare le innegabili differenze che dividono l’area della sinistra, ma non si affronta mai il toro per la corna: l’esistenza o meno di un partito degno di questo nome, che abbia la necessaria massa critica, che abbia precisi confini organizzativi e rigorose procedure democratiche interne: e che perciò stesso permetta che la discussione politica avvenga in modo ordinato e produttivo. Aspettarsi che, da una pletora confusa di opinioni e di interviste, emerga un qualche accordo preventivo e che solo dopo si possa pensare al partito, significa restare impaludati nella condizione di paralisi in cui ci troviamo.
Questa situazione sta avendo un significativo effetto collaterale, ossia il fatto che, agli occhi di molti, il Partito democratico, nonostante le condizioni in cui versa e gli esiti disastrosi e fallimentari dell’idea stessa di partito che fu alle origini della sua fondazione, sia oggi visto come l’unica possibile carta su cui ancora puntare.
Ma, lo sanno bene tutti, anche dentro il Pd, che, così com’è, è solo parte del problema, non certo la soluzione.
Ora Zingaretti, nella sua ultima uscita, ha annunciato un “congresso” da cui possa sorgere un “partito nuovo”. Le premesse non sembrano molto promettenti. I messaggi lanciati sono piuttosto confusi, a cominciare dall’ennesimo, stucchevole appello all’”apertura” verso la “società civile”; ma quello del “partito aperto” non era già uno dei miti fondativi del Pd? Ci si vuole finalmente chiedere perché non ha funzionato allora, e perché dovrebbe funzionare oggi?
E’ vero che le modifiche statutarie approvate nel novembre scorso permettono oggi di svolgere un “congresso”, con il voto degli iscritti su “tesi”, o documenti politici; ma se davvero si vuole andare verso un “partito nuovo”, occorrono alcune fondamentali pre-condizioni, che soltanto possono rendere credibile questo processo di “rifondazione”. La più importante delle quali riguarda, e non sembri riduttivo, proprio le procedure democratiche: bisogna stabilire chiaramente chi e come decide sull’esito del processo.
Non può essere questo Pd, che ha vissuto una profonda mutazione, ad auto-riformarsi: bisogna che un processo “ricostituente” attinga forze ed energie dall’esterno, in grado di ridefinirne davvero il profilo e l’identità. Sarà possibile? Se ne dovrà riparlare più in dettaglio, quando capiremo se l’operazione “congresso” potrà avere quel respiro politico e culturale che oggi latita. Nel frattempo, fuori dal Pd, è bene interrogarsi sul da farsi: si aspetta di vedere cosa accade in casa d’altri?
Il referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari, se ci sarà, visto il balletto delle firme, sarà una trappola. Ci si chiederà di scegliere tra questo Parlamento umiliato e chi vuole ridurlo ancor peggio. E non avremo molto spazio per far valere le nostre ragioni.
È difficile infatti interloquire con chi ritiene che i problemi del parlamentarismo oggi si possano ridurre al numero dei suoi membri. Ci si attarderà a discutere con toni accesi e spreco di energie su questioni irrisorie, mentre si avverte l’urgenza assoluta di affrontare temi vitali per la democrazia parlamentare.
Così sentiremo politici irridenti sostenere le fatue ragioni della necessità di risparmiare sui costi della democrazia o la moralità di tagliare “poltrone”. I più sofisticati ricorderanno come queste motivazioni ripetute a suffragio della bontà della riforma sono false e rivelano anche una cattiva coscienza. Ma intanto ci avranno costretto a perdere tempo, mentre monta la marea.
Che i mali del Parlamento siano altri è ben noto a tutti, in primo luogo a chi, politici e giornalisti, si confronta sul nulla nei dibattiti televisivi. Eppure basterebbe che qualcuno affermasse ciò che è già evidente per smontare il castello di carte, basterebbe affermare che non sono i numeri a determinare la crisi del Parlamento, ben più complesso e profondo è il collasso nel quale siamo immersi. Basterebbe avere il coraggio di dire-il-vero (parresia), che è il modo migliore per il governo di sé e degli altri. Una lezione dimenticata.
E allora elenchiamoli alcuni dei veri problemi e cominciamo col dire che il Parlamento non è in crisi per un problema di numeri. Essi sono solo una variabile dipendente, che dovrebbero essere determinati con riferimento alle effettive funzioni esercitate. Questo è il vero problema del Parlamento italiano che ha perduto il suo ruolo autonomo nell’ambito del complessivo assetto dei poteri. Negli Stati Uniti il Senato è composto da 100 membri, il Inghilterra la Camera dei Comuni da 650, in Germania il Bundestag da oltre 700. La differenza con il Parlamento italiano è che in quei paesi la discussione parlamentare ha un suo rilievo, i singoli rappresentanti discutono, si assumono le responsabilità per cui sono stati eletti e poi, responsabilmente, votano. Non hanno vincoli di mandato, ma sanno bene che – oltre che al partito di appartenenza – dovranno rispondere politicamente agli elettori.
Basta pensare al ruolo determinante (anche dal punto di vista spettacolare) esercitato della Camera dei Comuni che in tutta la vicenda della Brexit ha dettato l’agenda, confrontandosi senza alcun timore reverenziale con il Governo. Per non dire del Congresso degli Stati Uniti (435 membri) che non ha avuto remore nel porre sotto accusa il Presidente eletto Trump, sospettato di avere abusato dei propri poteri. Non voglio generalizzare e so bene che i rapporti tra Parlamento e Governo sono diversi da paese a paese, dipendendo dalla forma di governo adottata e delle diverse tradizioni nazionali. Mi sembra però di poter tranquillamente affermare che nessuna democrazia occidentale si sia spinta così avanti nel processo di
Scongiurato, il pericolo di escalation fra Usa e Iran? In ogni caso i movimenti per la pace si rianimano, dopo la debolezza dimostrata a partire dalle bombe Nato sulla Libia nel 2011. Il 25 gennaio sarà una giornata mondiale di protesta lanciata da molte organizzazioni statunitensi. Negli Usa sono in corso sit-in in diverse città anche in questi giorni. Anche in Italia si scende finalmente in piazza.
10 GENNAIO. Vicenza, dalle 18,30 presidio dei No dal Molin e del Bocciodromo davanti alla caserma Ederle (e giovedì 16 assemblea nell’anniversario del sì all’ampliamento della base Usa in Italia, «un paese a completa disposizione»); Roma, l’Assemblea unitaria delle sinistre di opposizione e altri gruppi invitano al sit-in dalle 15,30 a piazza Barberini «contro la guerra, per la revoca del programma di acquisto degli F35, il ritiro delle truppe italiane dagli scenari di guerra, l’uscita dalla Nato». Pordenone, dalle ore 20, assemblea pubblica «Il Friuli non è una rampa di lancio», presso Casa del Popolo-Torre. Brescia, Potere al popolo organizza un presidio dalle 18 a piazza della Loggia: «No all’uso delle basi italiane per le guerre, no alle bombe atomiche in Italia, via dalla Nato».
11 GENNAIO. Roma, presidio di Statunitensi per la pace e la giustizia e Rete No War dalle 14,30 alle 16 a via Veneto angolo via Bissolati. A Milano manifestazione degli iraniani in Italia davanti alla stazione.
12 GENNAIO. Sigonella, dalle ore 14 alle 17 manifestazione regionale organizzata da Spazi sociali Catania e altri, con corteo «per chiudere la base militare e smantellare il Muos». Camp Darby (Pisa), alle 11 di fronte alla base Usa presidio «contro le aggressioni Usa in Medioriente, per la chiusura delle basi militari straniere in Italia». Napoli, presidio contro la guerra all’Iran, dalle 10,30 a largo Enrico Berlinguer organizzato da Rete contro la guerra e il militarismo e Santa Fede liberata.
4 GENNAIO 2020, ore 17.30 di fronte al nostro bellissimo DUOMO!
FAENZA NON SI LEGA!
Vogliamo far trovare anche a Faenza un muro di sardine, in risposta a chi ha la presunzione di venire a liberarci. Sardine significa rispetto, identità, partecipazione, testimonianza, per questo si è scelto il 4 pomeriggio per dire a voce forte che ci siamo e che per prima cosa abbiamo rispetto per la festa del 5, dei faentini che saranno alla Not de Bisó e dei tanti volontari che ne rendono possibile la realizzazione con il loro lavoro gratuito. Essere una sardina significa essere diverso da chi strumentalizza una festa di tutti per farne la propria passerella elettorale.
*Le sardine hanno un altro stile. Uno stile fondato sul rispetto, non sulla provocazione*.
Questo è solo l'ultimo dei milioni di motivi per gridare tutti insieme che FAENZA NON SI LEGA!?゚ミ゚?゚フネ
Essere una sardina significa anche essere solidali?゚ミ゚! Chiediamo a tutte le SARDINE FAENTINE di portare un pesce in scatola (meglio se ?) che raccoglieremo e doneremo alla Caritas di Faenza, la quale provvederà a distribuirlo ai più bisognosi.
Ma soprattutto, SIATECI! Con l'allegria e la gioia di scendere in una piazza meravigliosa per ricordare i valori VERI della nostra costituzione!
Portate amici, bimbi, parenti! Le sardine, più sono e più fanno paura agli squali ?゚ミ゚?
Confidiamo nel vostro aiuto, ma ne siamo certi, che anche in migliaia lasceremo una piazza pulitissima e senza alcun problema d'ordine, perché le sardine non sporcano il mare dove nuotano!! Lo rendono solo più vario e colorato! ?゚フネ Portate striscioni, sardine di cartone, e tutto quello che vi viene in mente per arricchire il nostro mare!