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Ridurre il consumo di suolo:ingegneri a confronto all ...

Emilia-Romagna capofila con le regioni del nord. “La legge urbanistica regionale non ha funzionato, serve una nuova legge realmente efficace”.

 

È allarme in Emilia-Romagna: Ostellato primo comune per consumo di suolo pro capite e Ravenna in testa per incremento assoluto nel 2021. La provincia di Modena è la prima in regione per suolo consumato, più di venti i comuni superano il limite del 3% imposto dalla legge regionale

 

L’ultimo rapporto ISPRA sul consumo di suolo sancisce il 2021 come vero e proprio annus horribilis per la nostra penisola. Rispetto agli ultimi dieci anni, infatti, l’incremento di consumo di terreno vergine in Italia ha segnato il record di oltre 2 m2 al secondo, per un totale di quasi 70 km2 di nuove coperture artificiali.   

Il cemento ricopre ormai 21.500 km2 di suolo nazionale, dei quali 5.400 (una fetta di territorio grande quanto la regione Liguria) destinati agli edifici. Un manto di cemento che soffoca la penisola, con gravi conseguenze per la permeabilità del suolo, che invece, di fronte a un quadro di crisi climatica e al conseguente acuirsi dei fenomeni metereologici estremi, è fondamentale per rendere più resiliente il nostro territorio. Si pensi che i danni causati dalla perdita di suolo sono stimati intorno agli 8 miliardi all’anno, una spesa che senz’altro rallenta la ripresa del nostro paese.    

In questo quadro così drammatico, l’Emilia-Romagna è terza sia per incremento di suolo consumato nel periodo 2020-2021 (658 ettari) sia in totale di suolo consumato nel 2021 (oltre 200mila ettari), dopo Lombardia e Veneto.  

Nella classifica nazionale dei comuni peggiori troviamo Ravenna seconda solo a Roma per incremento consumo di suolo nel periodo 2020-2021, con 68,66 ettari di incremento nell'ultimo anno.  

Nella classifica regionale invece, dietro Ravenna troviamo i comuni di Reggio nell’Emilia (35,44 ha) e Ostellato (30,26 ha).   

Se guardiamo invece al consumo di suolo pro capite, l’indice in rapporto alla densità abitativa, troviamo Ostellato (FE) in cima alla lista dei comuni in Emilia-Romagna, con un consumo di suolo annuo di 52,5 m2 per ciascun abitante. Subito dopo si piazzano Polesine Zibello (PR) e Besenzone (PC), che hanno perso rispettivamente 25,5 m2/ab 16,4 m2/ab.  

Ben 13 comuni hanno superato i 10 m2/ab di consumo pro capite nel 2021: erano 8 nel 2020 e 10 nel 2019.  

  

Dati allarmanti e senza precedenti, risultato di un ritmo insostenibile di nuove costruzioni dovuto in parte alle forti pressioni del settore della logistica e dall’altra all’assenza di interventi normativi efficaci per ridurre il consumo di nuovo suolo.  

I dati del rapporto ISPRA confermano anche l’inadeguatezza della legge urbanistica regionale sulla tutela e l’uso del territorio: il corretto recepimento della legge a livello comunale attraverso la stesura e approvazione dei PUG (Piano Urbanistico Generale) imporrebbe la soglia di consumo pari al 3% della superficie consumata al 2017. Rielaborando i dati ISPRA, si trova che tale soglia è già stata ampiamente superata da 21 comuni che hanno prorogato più volte l’approvazione del PUG. “Con questo trend allo scattare del limite del 3% rischieremo paradossalmente di non avere più suolo consumabile” – commenta Legambiente. “Questa è la prova ulteriore di come la legge 24/2017, così come è stata progettata, non ha posto un freno al consumo di suolo”.  

Oltre ai consueti nuovi insediamenti abitativi, preoccupa l’avanzata del settore commerciale, in particolare del comparto della logistica, che in assenza di un quadro normativo più stringente e vincolante rischia di esaurire le scorte di suolo consumabile sottolineate in precedenza.   

A tal proposito, il tanto enfatizzato Accordo territoriale tra Città metropolitana di Bologna e Regione Emilia-Romagna approvato lo scorso mese, pur chiudendo in modo definitivo il capitolo relativo al polo logistico di Altedo (BO), non pone infatti uno stop a nuovi insediamenti logistici ed al consumo di suolo. Rispetto alle proposte complessive di logistica nel territorio della Città Metropolitana pari a circa 460 ettari, si continuano a destinare alla logistica circa 392,5 ettari: in pratica tutto quanto previsto in precedenza tranne il polo di Altedo (BO).  

La pianificazione attuale inoltre non tiene conto della presenza di nodi ferroviari: in questo senso è utile avviare il percorso di reintroduzione della norma prevista nel precedente Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale che, salvo limitati casi specifici, limitava a 10.000 m2 la superficie degli insediamenti logistici sprovvisti di trasporto merci su ferro, vincolando impianti di dimensioni maggiori alla presenza dell’infrastruttura ferroviaria.  

“La priorità immediata nella pianificazione urbanistica e periurbana dev’essere il riuso e la rigenerazione urbana” - continua Legambiente - “azioni al centro della Legge d’Iniziativa Popolare in materia di suolo, parte delle 4 leggi che verranno presentate a breve in Regione”. In tal senso, servono azioni concrete di censimento del patrimonio edilizio non utilizzato o abbandonato e un sistema di incentivi per il recupero di tale patrimonio. 

 

ELABORAZIONI LEGAMBIENTE SU DATI ISPRA 2022   

Comuni con aumento pro capite di suolo consumato nel 2021 superiore ai 10 m2/ab (elaborazione su dati ISPRA riferiti all’anno 2021)   

COMUNE   

[m2/ab]   

  

Ostellato (FE)   

52,5  

Polesine Zibello (PR)  

25,48  

Besenzone (PC)   

  16,39   

Castel San Giovanni (PC)   

 15,75  

Montecreto (MO)  

 15,65  

Pievepelago (MO)  

 14,83  

Gossolengo (PC)  

   13,84   

Toano (RE)  

 13,37  

Spilamberto (MO)  

 12,12  

Carpineti (RE)  

    11,013  

Campogalliano (MO)  

    11,005  

Bentivoglio (BO)  

  10,11  

Fiorenzuola d’Arda (PC)  

 10,06  

Primi 10 comuni per l’incremento assoluto di consumo di suolo tra il 2020 ed il 2021 (elaborazione su dati ISPRA riferiti all’anno 2021)   

COMUNE   

Suolo consumato nel 2021  

Suolo consumato al 2021 (ha)   

Ravenna (RA)   

68,66   

7113   

Reggio nell'Emilia (RE)   

35,44   

4886   

Ostellato (FE)   

30,26   

785   

Modena (MO)   

28,04   

4620   

Forlì (FC)   

27,34   

3770   

Castel San Giovanni (PC)   

21,76   

803   

Spilamberto (MO)   

15,57   

527   

Piacenza (PC)   

15,24   

2923   

Fiorenzuola d’Arda (PC)   

15,04   

821   

Cesena (FC)   

13,66   

3563   

 

Classifica frazione del 3% (LR 24/2017) consumato al 2021 calcolato sul suolo consumato nel 2017 [%] (elaborazione su dati ISPRA riferiti all’anno 2021)   

COMUNE   

[%]   

Castel San Giovanni (PC)  

7,571616153   

Gatteo (FC)  

6,918807683   

Ostellato (FE)  

6,88458555   

Gragnano Trebbiense (PC)  

6,363804703   

Torrile (PR)  

6,179632277   

San Giorgio di Piano (BO)   

5,88894522   

Mordano (BO)  

5,619828659   

Bentivoglio (BO)  

5,079447376   

Villanova sull'Arda (PC)  

5,042613636   

Medesano (PR)  

4,330339711   

Granarolo dell'Emilia (BO)  

4,048850686   

Sala Bolognese (BO)  

3,953504722   

Rolo (RE)  

3,918557199   

Ozzano dell'Emilia (BO)  

3,688739244   

Sant'Ilario d'Enza (RE)  

3,662711385   

Spilamberto (MO)  

3,553449225   

Castelfranco Emilia (MO)  

3,436072269   

Calderara di Reno (BO)  

3,406724426   

Rottofreno (PC)  

3,341228547   

Castenaso (BO)  

3,284539191   

Ravenna (RA)  

3,05250606   

 

Dati per provincia – incremento di consumo di suolo 2020-2021 (elaborazione su dati ISPRA riferiti all’anno 2021)   

PROVINCIA   

Incremento 2020-2021 [consumo di suolo annuale netto in ettari]   

Suolo consumato al 2021 [%]   

Modena   

134,83   

11,0   

Ravenna   

113,95   

10,2   

Piacenza   

102,96   

7,6   

Reggio nell’Emilia   

95,58   

11,1   

Bologna   

63,18   

8,9   

Ferrara   

56,07   

7,1   

Forlì-Cesena   

50,69   

7,3   

Parma   

41,02   

7,6   

Rimini   

2,88   

12,4   

REGIONE ER   

661,16   

   

   

--

Come i famigerati banchi a rotelle, queste infrastrutture si riveleranno ridondanti nei prossimi anni, con tanti interrogativi su chi pagherà i costi, prevede il think tank Ecco.

Nelle elezioni 2022 le forze in campo sono chiamate a esporre la propria visione sui cambiamenti climatici. Lo sviluppo di nuove infrastrutture energetiche è strettamente legato alla politica del clima. Dare una risposta nel breve periodo alla crisi russa non sottrae la politica dallo spiegare come conciliare l’emergenza con la transizione energetica. Non farlo – facendo leva sul consenso di quanti, esasperati dall’immobilismo italiano, sono a favore delle infrastrutture a prescindere – nei fatti moltiplicherà i costi dell’energia, questo in particolare nel settore del gas.

Questa la premessa dell’analisi che ECCO, think tank italiano specializzato sulla questione clima energia, ha pubblicato nei giorni scorsi sulla questione rigassificatori e che riproponiamo qui.

Snam – si spiega  – ha già comprato due rigassificatori per una spesa di oltre 700 milioni di euro alla quale si dovrà aggiungere il valore del gas per tutta la durata dei contratti sottoscritti con i nuovi fornitori. Eppure, se gli impegni sulla transizione verranno rispettati, le rinnovabili sostituiranno oltre l’80% delle attuali importazioni russe al 2035.

“Il dibattito ‘rigassificatori sì o no’, non è politica ma più una conversazione da bar“, osservano gli analisti di ECCO. La politica deve spiegare come si conciliano queste nuove infrastrutture con gli obiettivi di decarbonizzazione, e cosa si pensa di fare in futuro della nuova infrastruttura, dei contratti e delle relazioni commerciali con i nuovi fornitori, in particolare nel caso in cui le forniture dalla Russia non cessino e riprendano come un elemento sostanziale per ristabilire la pace in Europa, fino al raggiungimento degli obiettivi di RepowerEU.

Nuove infrastrutture gas significano ritardare lo sviluppo delle rinnovabili? O credere che l’efficienza sia un complemento d’arredo? Se non è così, a chi spetta pagare i costi di questa ridondanza di infrastrutture – agli azionisti, ai contribuenti o ai consumatori? Oppure si pensa di esportare gas in Europa nel prossimo decennio, come se la Germania non avesse i nostri stessi o più ambiziosi obiettivi? Quali sono le garanzie che l’infrastruttura gas sia l’opzione più efficace a gestire la crisi rispetto ai tempi di realizzazione e allo sviluppo di alternative?

Anche in termini di riempimento degli stoccaggi – prosegue l’analisi –  sembra che nessuno si stia occupando del rischio economico per i consumatori. È in corso un massiccio intervento dello Stato per l’acquisto di gas sulle piattaforme internazionali a prezzi elevatissimi, di cui gli operatori di mercato non si sarebbero fatti carico, finanziato con un prestito di 4 miliardi di euro del Tesoro a una sua controllata, il Gestore dei Servizi Energetici (Gse) che in coordinamento con Snam gestisce l’operazione. In quanto tale, il prestito non incide (per ora) sui saldi di finanza pubblica, ma è di fatto debito per i consumatori e i contribuenti.

Mai fare la spesa quando si ha fame, insegnano i dietologi. Forse dovremmo tenerne conto anche nel settore dell’energia e in generale in quello delle infrastrutture. Il rischio di reazioni avventate alla crisi dei prezzi dell’energia in termini di dimensione, durata temporale e mancata attenzione ai costi delle azioni rischia di danneggiarci quanto o più già facciano i prezzi”, scrivono dal think tank.

Lo stesso vale per la decisione, anch’essa avventata e a forte rischio di autolesionismo, di investire in un sistema europeo e italiano che non faccia più affidamento sul gas russo a tempo indeterminato. Quanto è credibile – chiedono gli analisti di ECCO – che decidiamo domani – magari a situazione internazionale normalizzata – di operare quella chiusura dei rubinetti che né l’Europa né gran parte dei suoi Stati membri hanno avuto il coraggio o l’interesse di attuare fino a oggi, nemmeno sull’onda dello shock dell’invasione dell’Ucraina? Eppure, su questo assunto stiamo costruendo la strategia per la sicurezza energetica, con tutti i costi e rischi conseguenti.

Un conto – osserva il think tank – è diversificare dal gas russo anticipando lo sviluppo delle rinnovabili e l’efficienza energetica, che sono misure comunque necessarie per raggiungere i nuovi obiettivi di decarbonizzazione europei e il cui valore dell’investimento, oltre a contribuire a ridurre la dipendenza dal gas russo nel breve, si mantiene in uno scenario coerente con la strategia di lungo periodo, un conto è lo sviluppo di nuova infrastruttura gas che al contrario verrà resa ridondante nei prossimi anni dalle politiche di decarbonizzazione.

I due rigassificatori galleggianti (Floating Storage Regasification Unit o FSRU) che Snam ha acquistato arriveranno, secondo le dichiarazioni del Governo, quando almeno il primo – e più insidioso – degli inverni a rischio sarà già terminato. L’acquisto – sottolinea l’analisi di ECCO –  è avvenuto in assenza di informazioni pubbliche su come queste infrastrutture saranno gestite e ripagate: saranno considerate rete e ripagate in tariffa? Saranno cedute a operatori terzi per la loro gestione? Saranno finanziate direttamente con le tasse? Ciò che è certo è che il decreto (poi legge) “aiuti” ha istituito un fondo di garanzia per le eventuali perdite di Snam e una corsia preferenziale per l’autorizzazione delle opere necessarie.

Un’infrastruttura fatta per durare decenni si presume abbia prospettive altrettanto lunghe di utilizzo. Tuttavia, è difficile supporre questo per i nuovi FSRU. In primis, poiché l’Italia è impegnata al 2035 a dismettere sostanzialmente l’utilizzo del gas per la produzione termoelettrica (che oggi vale circa un terzo dei consumi) come da decisione in sede G7.

In secondo luogo, poiché il Governo si è posto l’obiettivo 2030 per la penetrazione delle rinnovabili elettriche di oltre il 70% seppure, su questo punto, l’industria dell’energia ritenga fattibili valori oltre l’80%. Si tratta di politiche che comportano una riduzione d’uso di gas termoelettrico da un minimo di 15 miliardi di metri cubi l’anno a circa 25 miliardi, valore quest’ultimo paragonabile all’intero import pre-crisi dalla Russia. Una tendenza a cui si aggiungono le politiche di efficientamento degli edifici e l’elettrificazione dei sistemi di riscaldamento e produzione del calore, nonché lo sviluppo di biogas che non avrà bisogno di porti.

I consumi italiani di giugno 2022 del gas per usi residenziali e industriali si sono ridotti rispetto a un anno prima di quasi il 10%. Se non fosse per l’eccezionale siccità, e la conseguente indisponibilità di energia idroelettrica, la riduzione di volumi complessivi tendenziale sarebbe già superiore a quanto l’UE può chiederci secondo il piano di risparmio approvato a fine luglio 2022.

Tutto questo, in un contesto di ridondanza della capacità di importazione via tubo. Solo il TAP oggi funziona a pieno regime tra i gasdotti di interconnessione verso l’Italia. E se è vero quindi che l’Italia si inserisce in un’infrastruttura gas europea ormai molto interconnessa, occorre anche ammettere che è semmai la sicurezza energetica europea, più che quella italiana, che investimenti avventati e costosi per le tasche italiane stanno mirando a proteggere.

L’Italia rischia quindi di fare investimenti onerosi, privi di una valutazione economica (non risultano criteri pubblici per valutarli né alcuna preoccupazione del Governo rispetto all’efficienza della spesa) per scongiurare un rischio di razionamenti ma ignorando che la domanda di gas è destinata a ridursi. Implementando le politiche europee al 2030, la domanda di gas è attesa in calo del 30-40% rispetto ad oggi.

Poco dovrebbe tranquillizzarci il fatto che i rigassificatori galleggianti possano essere rimossi e rivenduti, perché il danno economico di rivendere un asset quando la sua utilità si sarà ridotta anche per qualunque altro acquirente sarà ineludibile. Interessante, da questo punto di vista, osservare che il Governo tedesco ha sì acquisito la disponibilità di impianti di rigassificazione, ma l’ha fatto noleggiandoli, non acquistandoli.

Alla irrecuperabilità dei costi di asset fisici che potrebbero rivelarsi presto ridondanti, si aggiunge quella legata ad accordi commerciali di lungo termine che il Governo afferma di aver intrapreso (a proprio nome? A nome delle partecipate? Garantendone il rispetto con risorse pubbliche?). Esistono clausole d’uscita da questi accordi se la crisi si risolverà (e si risolverà se l’Italia e l’Europa faranno ciò che è da tempo stabilito con il REPowerEU)? Quanto impattano queste clausole in termini di rischio per i contribuenti e per i clienti di energia?

Purtroppo, le criticità non finiscono qui. C’è anche qualcosa di peggio, che esula dalla saggezza del sopra citato dietologo. Infrastrutture sbagliate e ridondanti rischiano di alimentare e protrarre politiche anch’esse sbagliate. Infatti, non è inverosimile che al momento di ammettere, tra qualche anno, che i due FSRU ormeggiati a Piombino e Ravenna non serviranno più, chi ha interesse alla loro operatività, o anche solo a non attribuirsi l’imbarazzo politico della loro dismissione, faccia con successo pressioni perché l’economia del gas prosegua, arrecando danno al clima e ritardando la transizione verso un sistema energetico emancipato dalla volatilità di prezzo e dall’insicurezza delle fonti fossili.

Per mitigare questi rischi – ausoicano gli analisti di ECCO –  serve per quanto possibile limitare le rigidità delle decisioni già prese e riconsiderare quelle da prendere in una prospettiva più lunga che tenga conto delle politiche del clima. Ora che i rigassificatori sono stati comprati, serve chiarirne il regime di utilizzo nel modo più trasparente possibile e accelerare la loro integrazione nei piani di sviluppo di Snam per valutarne, seppur tardivamente, l’utilità secondo i processi di governance esistenti, eventualmente interrompendo l’installazione della seconda nave se le valutazioni di Arera e Governo fossero negative.

Valutazioni che non possono prescindere dalla coerenza rispetto alle politiche del clima. Un aspetto a cui “l’agenda Draghi” non ha dato la priorità necessaria e che dovrebbe essere recuperato anche dai suoi promotori e dal futuro nuovo Governo.

Nonostante le solite promesse anche stavolta la realtà è amara: il prossimo anno ci saranno 150 mila supplenti tra gli insegnanti. Mancano all'appello anche 10.000 Ata e oltre 200 dirigenti scolastici. Alla retorica sulla scuola eroica della pandemia non è seguito nessun cambio di rotta

nuovo evento caricato da  il 11-08-2013 3739 SCUOLA LICEO GINNASIO

 

Sette concorsi avviati, di cui ben cinque portati a termine. Eppure a settembre la scuola riparte con 150 mila supplenti in cattedra su un totale di 850 mila: quasi uno su cinque è dunque precario. Ma la percentuale sale drammaticamente ai due terzi nel sostegno, proprio laddove più ci sarebbe bisogno della continuità didattica. 

Un inizio simbolico: poco più di una settimana prima delle elezioni politiche. Quella politica che continua a non saper risolvere un’equazione che pure parrebbe semplice: un prof titolare in cattedra per ogni materia e ogni classe. Sembra incredibile: per due anni la scuola, la sua comunità educante, ha resistito all’onda d’urto della pandemia. Un argine, nonostante le mille mancanze, difficoltà che si è vista costretta ad affrontare, a partire da una dad organizzata in emergenza e dalle croniche carenze d’organico. Tutti hanno riconosciuto questo sforzo, tutti hanno promesso, ma alla fine il risultato è sempre lo stesso: la scuola ricomincia nel segno del “senza”. E anche le frasi sono sempre le stesse, con il ministro Bianchi che annuncia: a settembre tutti i docenti saranno in cattedra.

 

 

In realtà, per i 7,4 milioni di studenti – 100 mila in meno rispetto allo scorso anno a causa della denatalità: altro tema su cui occorre riflettere e che non riguarda solo la scuola – non sarà affatto così e questo nonostante che nel 2021 siano stati assunti 60 mila insegnanti. I conti sono presto fatti. Il Mef ha autorizzato, attraverso concorsi che vanno dalla scuola dell’infanzia alle superiori, 94.130 assunzioni. Tuttavia, sebbene il numero non sia sufficiente a coprire le cattedre vacanti (soprattutto al Nord), alla fine non si arriverà alla copertura del 50% dei posti e i motivi sono quelli denunciati più volte dai sindacati: innanzitutto l’alto numero di bocciati in prove a quiz di stampo puramente nozionistico e talvolta anche sbagliati. Ma, anche, graduatorie esaurite in tante discipline, soprattutto al Nord: una delle ragioni per la quale i sindacati chiedevano una procedura straordinaria per immettere subito in ruolo i precari storici, quelli che insegnano da tanti anni e che, non si capisce perché, dovrebbero dar prova di saper insegnare attraverso un test. Si tratta di uno dei tanti abbagli prodotti dall’ideologia meritocratica.

A completare questo quadro drammatico, ci sono anche altri dati. Restano prive di dirigente titolare 236 sedi scolastiche (Il Mef ha autorizzato solo 361 assunzioni sulle 589 richieste dal ministero) e mancano all’appello 17.588 Ata, visto che ne sono stati assunti solo 10.116 unità a fronte di 27.704 posti liberi.

Un caso su tutti: Modena

Allarmi su questa situazione piovono un po’ da tutti i territori ed è impossibile darne conto esaustivamente. Claudio Riso, segretario generale della Flc Cgil di Modena, racconta che nella provincia i precari saranno “oltre i 3.000,superando anche il dato dello scorso anno, quando i docenti precari sono stati poco più di 2.700. Dopo le immissioni in ruolo sono infatti rimasti liberi, sui diversi ordini di scuola, 1.250 posti che saranno coperti con assunzioni di personale a tempo determinato. Altri 1.000 posti a tempo determinato sono destinati poi al delicatissimo ruolo di insegnante di sostegno: quasi nessuno dei docenti che dovrà ricoprire questo incarico, importante e difficile, sarà però in possesso della necessaria specializzazione.  Come accade ormai da anni, avremo quindi un migliaio di giovani docenti precari che, con molta buona volontà ma senza nessuna formazione specifica, lavoreranno sui casi più delicati e complessi".

"Un altro migliaio di supplenze – tra posti interi e spezzoni orari – saranno quelle che deriveranno poi dall’adeguamento degli organici. Si superano quindi i 3.000 docenti precari, e ne deriva che nelle scuole modenesi più di un docente su quattro non è di ruolo, con tanti saluti alla continuità didattica”, commenta il dirigente sindacale.

Ma non è solo una questione di docenti. Ancora Riso spiega come “su 88 istituti scolastici della provincia di Modena ben 24 sono senza un direttore dei servizi generali e amministrativi e dovranno ricorrere ad assistenti amministrativi che si faranno carico di ricoprire tale ruolo come facenti funzione”. Non solo: “Quasi tutte le segreterie, che tengono in piedi la macchina amministrativa, sono al collasso: poco personale, quasi sempre precario, poco o addirittura per nulla formato per gestire il complesso lavoro da fare”.

Infine, direttamente collegato al capitolo organici, quello delle classi pollaio: “Anche quest’anno avremo classi, in particolare negli istituti superiori, con punte di 27/29 alunni. È il frutto della ‘logica della calcolatrice’, che pur di risparmiare su risorse e personale consente di sforare limiti e capienze massime”.

Insomma, sarà pur vero che sulla scuola tra fondi del Pnrr e quelli per la pandemia sono arrivati una pioggia di soldi (oltre 20 miliardi), ma senza personale, difficile pensare che la comunità educante, nonostante il suo impegno, possa assolvere pienamente al suo compito.

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Il conflitto in Ucraina è scoppiato il 24 febbraio scorso, da allora l'attenzione dei media e della politica è andata scemando. Con le elezioni alle porte e nonostante gli effetti si facciano sentire ovunque, il tema della pace sembra non essere più in agenda e, invece, dovrebbe essere centrale. Una conversazione con Salvatore Marra, responsabile delle politiche europee e internazionali della Cgil

 

“Aormai sei mesi dallo scoppio, la guerra è passata in secondo piano per il mondo dell’informazione e della politica ma i suoi effetti sono tutt’altro che svaniti. Le ricadute sulla popolazione ucraina sono terrificanti e, sia in Europa che nel resto del mondo, le conseguenze più ampie del conflitto si fanno sentire: dall’aumento dei prezzi di molti beni di prima necessità al caro energia ma anche, più in generale, agli equilibri e agli assetti geopolitici mondiali in fibrillazione”. Salvatore Marra è il responsabile delle politiche europee e internazionali della Cgil che dal 24 febbraio scorso non ha mai smesso di unire azioni di solidarietà verso la popolazione colpita dalla guerra alla richiesta di un cessate il fuoco e di una trattativa di pace. Con lui Collettiva è tornata a fare il punto non solo su cosa è accaduto in questi 180 giorni ma anche su quali possibili scenari ci troveremo davanti.

L’ultimo carico di aiuti umanitari raccolti dal sindacato per la popolazione ucraina è partito da meno di 72 ore (lunedì 22 agosto), nel frattempo tregua e negoziati sembrano essere ancora lontani. 6 mesi di guerra e non un passo avanti da parte delle diplomazie occidentali, al massimo forse qualche passo indietro?
Registriamo connessioni sempre più profonde tra i vari conflitti ai quali si sono aggiunte, non ultime, la questione di Taiwan e le fortissime tensioni tra Cina e Stati Uniti, seguite alla visita sull’isola da parte della portavoce della Camera statunitense Nancy Pelosi. Le esercitazioni militari congiunte sino-russe, seppure già previste, inviano segnali molto chiari su cosa ci aspetta nel futuro. A ciò si aggiunge l’aggravante del nucleare. In Italia siamo in campagna elettorale e ci sono forze politiche che chiedono esplicitamente nei loro programmi un ritorno a questo tipo di energia, eppure, come dimostra ciò che sta accadendo nella centrale di Zaporizhzhia, non esiste energia nucleare sicura, anzi il disastro nucleare è alle porte e, sorprendentemente, questo non agita a sufficienza la diplomazia europea. Preoccupa che in questo momento le uniche intese che abbiano aperto una qualche timida strada di dialogo siano state favorite dalla Turchia e non dall’Unione Europea.

 


Il prossimo 25 settembre si andrà al voto ma nella campagna elettorale non si parla molto di guerra e ancora meno si parla di pace. Resta la corsa al riarmo e, in alcuni programmi, come già ricordavi, si torna a invocare l’energia nucleare.
È paradossale: sembra che ci si preoccupi di più per i presunti rapporti tra alcune forze politiche e Mosca che per il cessate il fuoco e lo stop al conflitto armato. Chiaramente il tema della disinformazione e delle ingerenze estere sulla stampa italiana e sulla propaganda politica esiste ed è tutt’altro che un’invenzione tanto da essere menzionato anche nel rapporto Inge del Parlamento europeo. Abbiamo relazioni ufficiali che descrivono quali sono interferenze e finanziamenti soprattutto verso le formazioni politiche di destra ed estrema destra in Europa. Il punto vero, però, non è questo ma il fatto che le forze politiche dovrebbero concretamente dichiarare cosa hanno intenzione di fare in politica estera per garantire la pace. Al contrario il tema della pace è molto marginale, se non quasi del tutto assente dal dibattito, dalla campagna elettorale e dai programmi di governo.

 

Se il conflitto dovesse proseguire ancora a lungo, quale scenario possiamo prevedere?
Lo scenario purtroppo è già abbastanza chiaro. Il prezzo della guerra lo pagano sempre i più poveri, non certamente gli oligarchi russi né le élite ucraine. Sono le persone più vulnerabili e più emarginate in Russia, in Ucraina e nel mondo a subire gli effetti drammatici della guerra. La crisi dovuta alla mancata esportazione del grano dall’Ucraina la pagano le persone meno abbienti in Africa oppure la paghiamo noi che viviamo di salari in Europa, perché i prezzi di alcune materie prime sono aumentati in modo esponenziale. Dedicare più soldi nei bilanci degli Stati Nato al riarmo sicuramente si traduce, come già avvenuto anche in Italia, in tagli alla spesa sociale e socio-assistenziale. Per questo è imperativo fermare il conflitto armato, in Ucraina e negli altri Paesi del mondo dove si stanno riaccendendo focolai di guerra, e la corsa al riarmo che ne consegue il prima possibile.

Come veniva ricordato poco fa la guerra in Ucraina si inserisce in un contesto geopolitico complesso. Lo dimostra la vicenda di Taiwan. È arrivato il momento di tornare a ragionare pacificamente anche di questo tema: di nuovi equilibri geopolitici mondiali?
La strategia della tensione ormai è evidente. Non ci sono molti tentativi di sedersi a un tavolo per discutere di un’agenda globale per la pace, anche a livello di Nazioni Unite. La Cgil, insieme al sindacato europeo e a quello internazionale, lo chiede ma questa domanda non c’è a livello governativo. Argomento pressoché assente purtroppo anche nei programmi elettorali dei partiti italiani. Rimettere al centro del dibattito il tema della pace, invece, non è semplicemente un vezzo ma una necessità come confermano numerosi indicatori. Facciamo un esempio: in Ucraina, nel silenzio più generale e approfittando del conflitto in corso, il Parlamento ha adottato il progetto di legge 5371, che ha abolito i diritti del lavoro per il 94% dei lavoratori del Paese e questo nonostante i numerosi richiami della Confederazione Internazionale dei Sindacati, della Confederazione Europea dei Sindacati e dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro. È chiaro che noi, come organizzazione sindacale, dobbiamo denunciare quanto sta accadendo e nei prossimi mesi; anche in vista del Congresso del sindacato mondiale che si terrà a novembre a Melbourne, la Cgil chiederà che al pari del clima e di altre emergenze mondiali venga organizzata una conferenza Onu per promuovere e preservare la pace. Contemporaneamente continueremo a portare aiuti umanitari alla popolazione vittima della guerra. Solidarietà e diplomazia devono camminare insieme, però, soprattutto a livello politico altrimenti la strada imboccata ci condurrà - ahinoi - verso un ulteriore inasprimento dei conflitti e delle tensioni.

Energie PER l'Italia | Facebook

Il gruppo di ricercatori “Energia per l’Italia” si rivolge alle elettrici e agli elettori, chiamati al voto in un momento critico per il futuro del Paese. Siamo in una “tempesta perfetta” nella quale le difficoltà sociali ed economiche della pandemia non ancora risolta si sommano all’emergenza climatica e alla crisi energetica, resa ancor più drammatica dalla guerra scatenata dalla Russia nel cuore dell’Europa. In questo momento nel quale le italiane e gli italiani sono ancora preoccupati per la propria salute fisica, ma ancor più per le bollette di gas e luce e per i rincari del cibo, nel quale gli agricoltori vedono sparire i raccolti e le aziende energivore sono costrette a fermare gli impianti, nel quale i giovani vedono sfumare il loro futuro, siamo chiamati a votare avendo ben chiari i programmi dei partiti che si candidano a governare.

Invitiamo elettori e politici a ragionare sulle seguenti proposte: