La fossa del Leone «Sono un figlio di Sant’Agostino, un agostiniano» – così il nuovo papa si è presentato al mondo. E in quel «figlio» c’è una nota di intimità maggiore che nella semplice […]
Il neoeletto Papa Leone XIV, il cardinale Robert Francis Prevost, saluta dalla loggia centrale della Basilica di San Pietro
«Sono un figlio di Sant’Agostino, un agostiniano» – così il nuovo papa si è presentato al mondo. E in quel «figlio» c’è una nota di intimità maggiore che nella semplice indicazione di appartenenza a un ordine. Una filiazione è certo qualcosa di più intimo per un religioso, eppure è anche qualcosa di più universale e laico, in questo caso. Si può essere frati agostiniani, come lo fu Lutero, ma si può essere filosofi agostiniani, come lo furono con diversa profondità Cartesio e Pascal, Arnauld e Leibniz, Husserl e Edith Stein.
Perché i libri di Agostino hanno forgiato la lingua della filosofia, in Europa, per mille anni ancora dopo la sua scomparsa. Le sue opere – Dialoghi, Soliloqui, Commentari, scritti esegetici, polemici, mistici – hanno forgiato la lingua universale della ricerca umanistica, il latino, fin nell’intima logica e grammatica delle lingue moderne che ne sono eredi. Ma i suoi tre capolavori – le Confessioni, La trinità, La città di Dio – hanno anche definito le materie della metafisica: l’anima, Dio, e il mondo. Ne hanno disegnato i pilastri, tracciando i domini delle “metafisiche speciali”: la psicologia e la morale, la teologia, la filosofia della storia. Il loro latino ha plasmato il nostro pensiero filosofico molto più che la nostra teologia biblica: ma la parola biblica, in compenso, Agostino l’ha fatta esplodere in una foresta di simboli, facendoci comprendere, nel XIII libro delle sue Confessioni, che la sola lettura proibita è quella priva d’ispirazione.
E che se ne fa, un papa, della filosofia e dell’ispirazione? Molto, credo. In primo luogo ha un antidoto formidabile contro il letteralismo di tutti i fondamentalisti, miscredenti e cinici compresi. Dove lo spirito vivifica, la lettera uccide: e non si dice per metafora, in un momento in cui Netanyahu e i suoi ministri perpetrano un genocidio delirando sulla Bibbia. Da sempre i nomi di dio, scritti sulle bandiere, diventano parole assassine. Ma anche senza arrivare a questo estremo, pensate alle teorie del “creazionismo” che circolano in misura sorprendente fra i connazionali di Leone XIV, se è vero che quasi la metà degli americani crede che le pagine della Genesi siano un trattato di paleoantropologia, e se ci sono scuole sciagurate che insegnano la teoria del Disegno Intelligente invece che la biologia standard e l’evoluzione. E se è vero che fu un gesuita (Teilhard de Chardin) a sdoganare l’evoluzionismo nel mondo cattolico, fu Agostino un millennio e mezzo prima a ridere della stoltezza di chi si chiede cosa facesse Iddio “prima” di creare il mondo – come se potesse esserci un tempo senza mondo, e il tempo non fosse, come lo spazio, una dimensione del mondo. Che è un bell’anticipo sulla relatività leibniziana, e poi einsteiniana…. Ma veniamo a esempi più cruciali! I goti di Alarico mettono a sacco Roma nel 410: poco dopo, Agostino comincia a scrivere La città di Dio.
E mentre il mondo antico rovina in se stesso, lui all’angoscia risponde con un faro di luce e nuova intelligenza della parola “creazione”. Vuol dire che il mondo è generazione continua del nuovo, da che vi appare l’uomo, questo essere inquieto che vi introduce tutto ciò che prima non c’era, nel bene e nel male: le città e le guerre, la legge e il crimine, il lusso e la miseria, la Divina Commedia e l’intelligenza artificiale. Insomma, la storia. Altro che immagine mobile dell’eternità, il tempo, con l’orologio circolare del cielo. Altro che pallide copie dei loro modelli e dei, le nostre vite. Il tempo fa di ogni evento qualcosa di irreversibile, di ogni vita qualcosa di irripetibile, di ognuno un unicum. Fa dell’esistenza una cosa piuttosto seria, come la responsabilità che ne portiamo, del nostro stesso morire e dar morte. Essere o non essere. In ogni punto e momento, decidere chi siamo. Ciò che facciamo di noi stessi, degli altri, del creato. Noi, cause di tutto il male, ma cause deficienti, perché intrise di nulla, abituate a prender l’io per Dio.
Un papa agostiniano andrà al fondo di ogni parola. Non gli dorrà il “consumismo”, ma l’inconsistenza, l’incoerenza, la dispersione delle nostre vite, l’imperdonabile distrazione con cui le gettiamo, sordi al richiamo di una vocazione. Non distoglierà lo sguardo dalla nostra aiuola feroce per rivolgerlo al cielo, perché le due città sono rimescolate, e quella di Dio è «peregrina in terra» – una delle prime frasi di questo papa. E veniamo a quella pace “disarmata e disarmante” che a molti è parsa la sua, la nostra terra promessa. “Credere per capire”, il motto per eccellenza agostiniano, fa della fede una ricerca di intelligenza, e della morale una spietata indagine sui doppifondi dell’anima e sul più diabolico dei suoi poteri, quello di mentire a se stessa e di rimuovere il vero. Si mente anche armando le parole, arruolandole. La verità è disarmante, quando è intera. Un papa agostiniano non dovrebbe mai dire mezze verità. Perché sono le più vili di tutte le menzogne. Una conferma cogente, proprio in questi giorni di vertici e stragi, che viene anche dal suo appello di ieri al corpo diplomatico accreditato alla Santa Sede: «Basta produzione di armi» per «sradicare le premesse di ogni conflitto e di ogni distruttiva volontà di conquista».