Italia e Usa Nella retorica di Meloni contro i «dazi interni» il messaggio di Draghi viene ribaltato ed evocato per indurre l’Europa ad arrendersi nella disputa commerciale con gli Usa
Meloni tra gli invitati all’assemblea di Confindustria – LaPresse
Ogni finzione rapidamente cade, come un fiore che appassisce. Al detto ciceroniano Giorgia Meloni evidentemente crede poco. Tali e tante sono state le maschere indossate dalla premier da suggerire, piuttosto, una tattica politica fondata su un continuo gioco di mistificazioni al rialzo. All’assemblea di Confindustria la presidente ha dato ennesima prova di abile camuffamento, quando ha esortato l’Unione Europea a rimuovere quei «dazi interni» che ancora ostacolano il completamento del mercato comune.
La premier ha titillato gli imprenditori invocando un radioso futuro di libertà: rimuovere i lacci e i lacciuoli della normativa europea, per lasciare ai capitalisti tutto lo spazio di manovra che reclamano. Quindi, Meloni ha ricordato uno studio del Fondo monetario internazionale, secondo il quale una burocrazia asfissiante e non armonizzata tra i paesi europei crea costi aggiuntivi che impediscono lo sviluppo dei commerci all’interno dell’Unione.
L’idea della premier, tutt’altro che sottintesa, è che invece di proseguire la guerra commerciale con gli Stati uniti, l’Ue farebbe meglio a mettere ordine nel giardino di casa, cancellando il garbuglio di regole che ostacola lo sviluppo degli scambi all’interno dei confini europei.
Meloni non lo cita espressamente, ma è ben studiato l’implicito richiamo a Mario Draghi e al suo rapporto, che per primo aveva posto il problema politico della rimozione dei «dazi interni» all’Unione europea. In verità, Draghi aveva insistito sul punto per rimarcare la sopraggiunta esigenza di rendersi un po’ più forti e autonomi, anche rispetto al vecchio e ormai poco affidabile alleato atlantico.
Ma nella retorica di Meloni il messaggio di fondo viene ribaltato. La ricetta draghiana viene evocata per indurre l’Europa ad abbassare le armi nella disputa commerciale con gli Stati uniti. L’esortazione è chiara: restiamo vassalli, aderiamo al verbo trumpiano del buy American e pensiamo piuttosto a lavare i panni sporchi in casa. Usare persino Draghi pur di compiacere Trump. Il gioco di maschere meloniano si fa ardimentoso.
Ma è nella politica economica che la mistificazione di Meloni raggiunge forse il suo massimo fulgore. La premier, come è noto, deve il suo successo politico all’esaltazione del capitalismo pulviscolare delle piccole e piccolissime imprese nazionali.
Bottegai, commercianti, partite iva e padroncini hanno sempre rappresentato, per la destra di governo, una irrinunciabile base di consenso. Il guaio è che questo italianissimo capitalismo “dei piccoli” è alquanto inefficiente. La sua sopravvivenza è garantita proprio da quelli che ora si usa definire «dazi interni». Vale a dire, una complicata miscela di sussidi, prebende, aiuti e ostacoli alla concorrenza. Se non fosse per questo coacervo di protezioni statali, larga parte dei piccoli padroni italiani sarebbe già stata spazzata via dall’assalto di imprese più grandi e più solide, molte delle quali provenienti da altri paesi dell’Ue.
In effetti, Draghi e gli altri nemici dei «dazi interni» non hanno mai nascosto questa implicazione. Togliere le barriere legali ai commerci e creare finalmente un vero mercato unico significa favorire una più ferrea competizione tra capitali in Europa.
Con la conseguenza che i pesci più grossi e più forti mangiano i pesci più piccoli e più deboli. In sostanza: pura centralizzazione del capitale nel senso di Marx. Con buona pace della vecchia ideologia italiota del «piccolo è bello».
Quando Meloni gioca a fare la draghiana, si guarda bene dal rivelare che togliere i «dazi interni» significa suonare la campana a morto per buona parte del suo elettorato di riferimento. Non la si può biasimare. In fondo, la platea confindustriale ha plaudito la premier con entusiasmo. I grossi proprietari avranno correttamente pensato: la presidente è finalmente diventata dei nostri. Eppure, lì in mezzo ci sono ancora un bel po’ di rappresentanti del piccolo capitale nazionale.
Nell’accodarsi al giubilo generale non devono aver capito che si invocava il loro funerale.
A quanto pare, le mascherate di Meloni funzionano non soltanto con le classi subalterne ma anche coi piccoli padroni che la osannano. Finché il gioco di finzioni dura, non c’è motivo di smettere.