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L'africanista Massimo Alberizzi fa il punto sulla situazione nigeriana, tra strategie internazionali e stop alle riforme per una popolazione bisognosa

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Il colpo di Stato in Niger dello scorso 26 luglio “potrebbe avere conseguenze devastanti per il Paese, la regione e il mondo intero". Sono le parole del presidente Nigeriano Mohamed Bazoum, ora ostaggio dei militari. Sul golpe l’ombra della Russia, che procede così con la nuova colonizzazione del continente africano, conquistando terreno per alimentare i propri interessi, come quello per i giacimenti di uranio nigeriani e non solamente.

Ne è dimostrazione lo stop agli accordi militari con la Francia. Il Niger, ricordiamo, è una ex colonia francese.  Parigi ha evacuato dallo stato africano i suoi cittadini e anche il governo di Roma ha riportato in patria tutti gli italiani che hanno voluto abbandonare il Niger. Lo stesso hanno fatto altri Paesi europei. 

Mentre Il capo della Wagner Prigozhin definisce il colpo di Stato “un movimento di liberazione del Paese”, l’Europa nutre timori per quanto sta accadendo, ma mantiene un atteggiamento all’insegna della prudenza e l’Ecowas, la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale, fallisce la missione di mediazione e pensa ad altre strategie. 

A farne le spese i nigeriani, per i quali era iniziata una stagione di riforme con il presidente Bazoum, in materia di diritti e di lavoro, in un Paese dove la legge contro la schiavitù c'è, ma non viene applicata, come ci spiega nella sua analisi Massimo Alberizzi, già corrispondente dall'Africa per il corriere della Sera e direttore della testata on line Africa-express.info. 

Foto: Bumble Dee / stock.adobe.com

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Per la politologa Nadia Urbinati, presidenzialismo e autonomia snaturano l'assetto istituzionale. Serve una grande mobilitazione per fermarli

 

Quella voluta dalla maggioranza e dal governo è una riforma scellerata, che frantumerebbe il Paese, che cambierebbe la natura della nostra democrazia da parlamentare a plebiscitaria. E che sposterebbe la sovranità dal popolo all’esecutivo. È questo il cuore della riflessione della politologa Nadia Urbinati, che sostiene la necessità di una cittadinanza attiva e responsabile per evitare lo scempio della Costituzione.

 

Uno degli obiettivi del governo è portare a casa una riforma della Costituzione fondata su due tasselli che sembrano quasi uno scambio, presidenzialismo e autonomia differenziata. Il nostro Paese ha davvero bisogno di queste riforme?

No, non ne ha bisogno. È evidentemente a questo proposito che la destra al potere usa la discussione sulle riforme, anche per deviare dai problemi che incontra nella politica ordinaria. Sarebbe meglio che s'impegnasse a

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REDDITO. Non si capisce per quale motivo chi viene privato delle minime forme di sostegno non dovrebbe protestare quando per anni la destra ha fiancheggiato le teorie più bislacche, inventato emergenze ad hoc, costruito nemici alla bisogna

La paura bipartisan delle piazze

L’ultimo spauracchio bipartisan, coltivato in anni di demonizzazione del conflitto sociale e riduzione a talk-show del confronto politico, è «la piazza». I politici di destra e troppo spesso i loro colleghi di centrosinistra lanciano l’allarme di fronte alle scelte anti-sociali del governo: «Attenti, se continuate così vi ritrovate la gente in piazza!». Ma non si capisce per quale motivo chi soffre la crisi e viene privato delle minime forme di sostegno non dovrebbe protestare quando per anni la destra ha fiancheggiato le teorie più bislacche (i No Vax), inventato emergenze ad hoc (la sicurezza), costruito nemici alla bisogna (l’allarme immigrazione).

L’opposizione dovrebbe riconoscere lo scenario nuovo. Sia chiaro, Meloni ha ancora bisogno del rumore di fondo del negazionismo, del razzismo e del trumpismo all’italiana. È un fuoco di sbarramento che le consente di

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AUTONOMIA DIFFERENZIATA. Vent’anni di regionalismo hanno drammaticamente peggiorato la situazione, eppure l’intero sistema politico continua, sia pure con accenti differenti, a cercare nelle regioni la soluzione ai problemi causati dalle regioni

Il regionalismo e l’inadeguatezza delle opposizioni 

Le opposizioni – Partito democratico, Movimento 5 stelle, Verdi e Sinistra – sono favorevoli all’autonomia regionale differenziata, sia pure depurata dagli eccessi del furore ideologico leghista?

La domanda pare legittima, alla luce della mozione presentata il 25 luglio scorso in Senato. A partire dal corretto (e, di questi tempi, coraggioso) riconoscimento della diseguaglianza territoriale che segna l’Italia, la mozione si proponeva, infatti, di impegnare il governo a: (1) definire i livelli essenziali delle prestazioni (lep) relativi a tutti i diritti costituzionali prima di trasferire le competenze in materia alle regioni; (2) assicurare il coinvolgimento del Parlamento nella definizione, attuazione e verifica delle intese raggiunte tra lo Stato e le singole regioni sui trasferimenti di competenze; (3) modificare la Costituzione per escludere alcune materie dal regionalismo differenziato (istruzione, ambiente, beni culturali, commercio con l’estero, sicurezza del lavoro, salute, infrastrutture di trasporto, comunicazione, energia, previdenza complementare, coordinamento della finanza pubblico, credito); (4) intervenire a sostegno delle regioni svantaggiate attraverso piani di sviluppo e perequazione infrastrutturale; (5) prevedere, in modo costituzionalmente corretto, l’accesso delle regioni speciali al regionalismo differenziato; (6) istituire un fondo di perequazione per i territori con minor capacità fiscale per abitante da ripartire tra le regioni sulla base dei costi standard associati ai lep; (7) prevedere verifiche obbligatorie e costanti sull’attuazione delle intese al fine di garantire l’effettività dei principi di solidarietà territoriale e coesione sociale; (8) monitorare gli effetti della differenziazione anche sulle regioni che non accedono al regionalismo differenziato, prevedendo la possibilità di sospendere o cessare le intese, con atto del Parlamento, per motivi d’interesse nazionale.

Ora, se è indubbio che l’adozione delle misure proposte avrebbe l’effetto di scongiurare i maggiori pericoli legati al processo di differenziazione in atto – suscettibili di culminare nella «secessione dei ricchi» denunciata, per primo, da Gianfranco Viesti –, altrettanto indubbio è che le opposizioni non chiedono al governo di rinunciare a spingere ulteriormente sul pedale del regionalismo: si limitano a chiedere di farlo con maggiore prudenza. Anche qualora le loro proposte fossero approvate, il risultato non sarebbe la riduzione, e nemmeno il congelamento, del regionalismo attuale, ma il suo incremento. Le regioni acquisirebbero comunque nuove competenze, sia pure in materie meno rilevanti, rafforzando la propria posizione nei confronti dello Stato.

Può essere comprensibile l’intento di muoversi sul terreno della tattica parlamentare, ma colpisce la persistente forza esplicata dall’ideologia regionalista in tutti gli schieramenti politici. A distanza di oltre vent’anni dalla spregiudicata riforma con cui l’Ulivo decise di ampliare le competenze regionali, nessuna delle promesse allora formulate si è concretizzata. «Avvicinare le istituzioni ai cittadini» – come si diceva e si continua a dire con vuota formula retorica – avrà il benefico effetto di renderle più attente ai bisogni degli elettori, più controllabili democraticamente e più efficienti perché in virtuosa competizione reciproca, a beneficio del funzionamento dell’intero sistema istituzionale. Il risultato, al contrario, è stato segnato da istituzioni regionali più permeabili al condizionamento dei poteri territoriali, come dimostrano i casi di Formigoni in Lombardia e Galan in Veneto, meno democratiche perché totalmente in balìa dell’iper-presidente eletto una volta ogni cinque anni, complessivamente meno efficienti perché contrapposte in una competizione tra diseguali a vantaggio delle più forti.

Se nel 2001 eravamo un Paese segnato da forti diseguaglianze territoriali, oggi lo siamo a un livello che non ha pari nell’Unione europea: sono italiane alcune delle regioni più ricche e alcune delle regioni più povere d’Europa. Nessun altro Paese Ue tradisce in modo così marcato il principio di uguaglianza, che pure sarebbe l’architrave della nostra Costituzione.

Vent’anni di regionalismo hanno drammaticamente peggiorato la situazione, eppure l’intero sistema politico continua, sia pure con accenti differenti, a cercare nelle regioni la soluzione ai problemi causati dalle regioni. La fatica con cui le opposizioni stentano a prendere con nettezza le distanze dal regionalismo differenziato, facendosi scudo di formulette inadeguate con i lep e i costi standard (basti dire che là dove, come in sanità, i lep esistono da anni la disuguaglianza territoriale è, ciononostante, la regola), è indicativa di un deficit di visione politica di cui la destra continua beatamente ad approfittare

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INCONTRO A CAMALDOLI. L’incontro di Camaldoli, nell’80-esimo dell’omonimo Codice, potrebbe essere l’inizio della rigenerazione dello statuto della politica e di classi dirigenti adeguate

Coltivare i semi nel campo progressista Monsignor Zuppi - AP Photo/Domenico Stinellis

L’incontro di Camaldoli, nell’80-esimo dell’omonimo Codice, potrebbe essere l’inizio della rigenerazione dello statuto della politica e di classi dirigenti adeguate. La prolusione del Presidente della CEI, come pure l’introduzione del prof Tiziano Torresi, ha attinto alla celebrata fonte per proporre, non ad un partito, ma a tutti coloro che si fanno carico del governo della comunità, «lezioni di stile» su senso e missione della Politica.

La presenza del nostro Presidente della Repubblica ha certificato la dimensione costituzionale dell’evento.

Mons. Zuppi si è rivolto, in primo luogo, all’intero e differenziato universo dei cattolici, nel loro agire politico sparsi e, spesso, sconnessi, come tecnici amorali, dall’ispirazione cristiana. Ma ha inteso parlare a tutti gli uomini di buona volontà attivi nell’amministrazione della cosa pubblica. Inequivocabili le sue parole: da Camaldoli, «La presenza politica rinasceva nel grembo della cultura. Uno dei problemi di oggi è invece proprio il divorzio tra cultura e politica, non solo per i cattolici, consumatosi negli ultimi decenni del Novecento, con il risultato di una politica epidermica, a volte ignorante, del giorno per giorno … Cioè, il tradimento della politica stessa!».

«Il divorzio tra cultura e politica» non ha reso soltanto la politica misera, ha impoverito anche la cultura: «La responsabilità è iniziativa … non umiliandosi con la vita concreta fa illudere di essere dalla parte giusta anche se si finisce fuori dalla storia», afferma Matteo Zuppi. Gli intellettuali, fuori da una prassi di insostituibile fertilità epistemica, sono catturati dagli specialismi dei saperi, funzionali al primato della tecnica sulla politica e sulla società. Certo, «l’esperienza insegna che il lavoro culturale, anche indipendente dalla politica, è fondamentale». Ma per avere senso politico deve «umiliarsi con la vita concreta».

Oggi, come allora, la rigenerazione morale e intellettuale della politica si deve misurare con un nodo decisivo, enucleato nella prolusione dalla messe dei temi del Codice: «L’uso sociale della proprietà privata». Allora, era condizione imprescindibile per dare dignità al lavoro, incidere sulle disuguaglianze, promuovere la democrazia. Oggi, è anche presupposto per affrontare l’emergenza antropologica e la conversione per l’ecologia integrale. Oggi, come allora, «l’infiacchimento della democrazia è sempre un cattivo presagio per la pace» perché «l’urgenza della pace e la scelta per la democrazia» si tengono per mano.

A differenza di 80 anni fa, per fortuna, non abbiamo l’onere, oltre che l’onore, di scrivere una Costituzione. Tuttavia, l’obiettivo è comunque «costituente» in quanto, allora come oggi, è in gioco la centralità della persona. Allora, la Politica era assoluta. Oggi, la sfida è la ricostruzione del primato della Politica sulla Tecnica, sul Mercato in primis, data l’insostenibilità sociale, ambientale, spirituale e geo-politica dell’impianto liberista.

Sarebbe irresponsabile archiviare l’evento di Camaldoli come rito di grande spessore spirituale e culturale. È stato un evento deliberatamente e compiutamente politico. Sono stati piantati semi di speranza. Vanno coltivati. Il destinatario principale della sollecitazione etica e culturale è l’universo cattolico. Ma la portata del messaggio, data l’identità del messaggero, è universale.

Quindi, è responsabilità primaria della classe dirigente dell’intero spettro politico interpretare la sfida. È, insieme, responsabilità delle classi dirigenti delle organizzazioni di lavoratrici e lavoratori e delle associazioni della cittadinanza attiva.

Il versante progressista, in tutte le sue articolazioni, dovrebbe reagire. Le leadership di Pd e M5S, innanzitutto, dovrebbero coordinarsi per chiamare a raccolta le migliori energie intellettuali disponibili, in particolare giovani, per avviare un’opera comune di interpretazione autonoma della fase, di tratteggio di una visione e di conseguente elaborazione programmatica. Dovrebbero costruire luoghi di educazione al dialogo, di confronto sistematico, anche in forma di rivista periodica. Il cimento oggi non è meno impegnativo di allora

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