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MEDITERRANEO. L’associazione sportiva di Ghardimaou è stata sciolta dalla Lega calcio di Bizerta non per sanzione disciplinare o per decisioni della giustizia ma a causa dell’emigrazione clandestina di circa 70 giocatori. […]

 

L’associazione sportiva di Ghardimaou è stata sciolta dalla Lega calcio di Bizerta non per sanzione disciplinare o per decisioni della giustizia ma a causa dell’emigrazione clandestina di circa 70 giocatori. La fine di questo club storico, fondato nel 1922, per mancanza di giocatori è il segno tangibile di come la fuga dalla Tunisia stia investendo tutto il paese. A partire sono soprattutto giovani che lasciano interi quartieri di città come Kairouan o Gafsa svuotati di una generazione, da un giorno all’altro. Partono rischiando la propria vita con il miraggio di una vita migliore in Italia o in Europa. Dalle coste tunisine partono disoccupati, minatori o giocatori di calcio. Nemmeno i naufragi con decine di morti riescono a fermare questa evasione di massa alimentata anche dai profughi provenienti dall’area sub-sahariana. Non tutti i tunisini che lasciano il paese ricorrono a mezzi di fortuna: migliaia di medici, ingegneri, giornalisti, architetti lo fanno con un regolare visto.

I tunisini non credono nel futuro del loro paese e soprattutto nel presidente Kais Saied che lo ha portato sull’orlo della catastrofe.

Come può pensare il governo italiano di fermare questa ondata migratoria con un fantomatico «piano Mattei» per l’Africa che conta solo sui soldi del Fondo monetario internazionale tanto da indurre il ministro degli esteri italiano Antonio Tajani a proporre all’organismo di iniziare lo stanziamento di una tranche dei fondi senza pretendere dal governo tunisino il rispetto delle condizioni legate alle riforme.

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«Le riforme seguiranno», ha detto il ministro degli esteri tunisino Nabil Ammar in visita a Roma il 13 aprile, mentre il presidente tunisino, lo scorso 6 aprile, aveva annunciato di non accettare i diktat del Fmi. Il prestito alla Tunisia di 1,9 miliardi di dollari, di cui si parla dallo scorso ottobre, è condizionato da un piano di riforme per la ristrutturazione di oltre cento imprese pubbliche pesantemente indebitate e dal taglio delle sovvenzioni all’energia e ad alcuni beni di prima necessità, molti dei quali sono diventati introvabili.

Persino l’acqua è razionata a causa della siccità. Il rifiuto delle condizioni poste dal Fmi non è motivato solo dal rifiuto – sostenuto da alcuni consiglieri del presidente – di un sistema di regole imposte dall’occidente, ma dipende anche dai timori che un taglio delle sovvenzioni potrebbe provocare il ripetersi di quella «rivolta del pane» scatenata contro Burghiba nel 1980 quando aveva tagliano le sovvenzioni alle derrate alimentari. Contro la ristrutturazione delle imprese pubbliche invece si è espresso il sindacato che teme la loro privatizzazione. Sebbene non ci sia stata ancora la rinuncia formale al prestito Fmi e il governo tunisino continui a trattare, i tempi stringono: la Tunisia è indebitata per circa l’80 per cento del Pil. La possibilità ventilata dal presidente di trovare una soluzione recuperando i soldi sottratti al governo dalla corruzione dei tempi di Ben Ali, che ammonterebbero a circa 13 miliardi di dinari (l’equivalente di 4 miliardi di euro), non appare praticabile.

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Alla Tunisia sull’orlo della bancarotta restano poche alternative: la possibilità di prestiti bilaterali o la scelta perorata dall’entourage del presidente di un avvicinamento ai Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). La prima, che troverebbe sicuramente il favore dell’Algeria (che ha già proferito offerte), rischia di rendere la Tunisia troppo dipendente dal paese vicino. Per quanto riguarda invece i Brics, i timori riguardano le conseguenze che potrebbero avere forti investimenti della Cina, già ben posizionata in tutta l’Africa.

L’Italia segue da vicino la situazione della Tunisia perché teme un ulteriore aumento degli arrivi di profughi, ma la sua politica di contenimento se non di blocco, tante volte sbandierato da Meloni e Salvini, non ha possibilità di realizzarsi. Il sostegno al regime autoritario e xenofobo di Kais Saied – condannato anche dal Parlamento europeo – è cinico e spietato. E la presidente Giorgia Meloni che sfrutta la memoria di Enrico Mattei, il cui operato è incompatibile con l’ideologia della premier, e si reca in Etiopia, dove si fa fotografare in stile coloniale abbracciando bambini neri senza dire una parola sull’eredità nefasta del generale Graziani, mostra solo la sua spregiudicatezza nell’approfittare delle difficoltà di paesi in crisi solo per realizzare i propri interessi

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CRISI UCRAINA. L’ipotesi di una tregua nel conflitto compare sia nelle parole (smentite) del capo della Wagner Prigozhin, sia nell’ultimo numero di «Foreign Affairs» la rivista della diplomazia Usa

Fermare la guerra, il cessate il fuoco  in Ucraina forse non è più un tabù Un negozio di abbigliamento "patriottico" russo con bandiere del gruppo Wagner - foto Ansa

Sarà pure opinabile che il capo dei mercenari Wagner, Yevgeny Prigozhin, abbia davvero proposto – con le stesse espressioni riportate dai media – a Putin di fermare la guerra in Ucraina. Intanto traspare dalle sue parole e dalla sua «postura» il timore evidente di un conflitto infinito per la tenuta della leadership di Mosca. Ma è assai certo che dall’altra parte dell’Atlantico si sollevano forti dubbi se sia il caso di continuare una guerra dove le perdite stanno diventando una catastrofe, con la barbarie dei russi che evocano quanto si è visto nei Balcani e con l’Isis in Medio Oriente, mentre le distruzioni belliche hanno messo in ginocchio le risorse ucraine.

SECONDO LA PRESTIGIOSA rivista americana Foreing Affairs: Stati uniti ed Europa devono sostenere la sovranità dall’Ucraina ma questo obiettivo non implica di recuperare, a breve termine, il controllo di Crimea e Donbass. L’Occidente e l’Ucraina, scrivono Richard Haass and Charles Kupchan, diplomatici di rilievo dei governi americani, hanno già raggiunto il loro obiettivo respingendo il tentativo della Russia di soggiogare il Paese e attuare un cambio di regime. Mosca ha incassato una sconfitta strategica e anche gli altri Stati revisionisti (dei confini) hanno compreso che la conquista militare può diventare assai costosa e potenzialmente fallimentare.

STATI UNITI ED EUROPA hanno alcune buone ragioni per abbandonare la loro politica dichiarata di sostenere l’Ucraina per «tutto il tempo necessario», come ha affermato il presidente Biden. Da una parte è fondamentale ridurre al minimo i guadagni territoriali russi e dimostrare che l’aggressività non paga ma questo obiettivo deve essere commisurato ad altre priorità.

LA REALTÀ È CHE IL SUPPORTO su larga scala e incondizionato nel tempo a Kiev comporta notevoli rischi strategici. La guerra sta erodendo la prontezza militare dell’Occidente ed esaurisce le sue scorte di armi, mentre l’industria bellica non tiene il passo con le necessità dell’Ucraina di mezzi e munizioni. Argomenti per altro già illustrati dal capo di stato maggiore americano Mark Milley in un’intervista al Financial Times del febbraio scorso e comparsi anche nei famosi “leaks” del Pentagono trafugati da un giovane riservista dell’esercito. Ma è anche lo scenario internazionale che si sta complicando a sollevare dubbi sulla tenuta occidentale. Se il conflitto prosegue a lungo si moltiplicano i rischi per i Paesi della Nato di uno scontro diretto con la Russia mentre gli Stati uniti devono prepararsi a una potenziale azione militare in Asia per scoraggiare o rispondere a qualsiasi mossa cinese contro Taiwan e in Medio Oriente (contro l’Iran o reti terroristiche). E il Medio Oriente non sta mandando segnali positivi a Biden con gli accordi tra Arabia saudita e Iran, il ritorno di Assad, alleato di Mosca, nel grembo arabo, le ambiguità di un Egitto tentato in difficili equilibri tra l’Occidente e la cooperazione con Mosca.

LA GUERRA – NOTA Foreign Affairs – sta imponendo costi elevati anche all’economia mondiale. Ha interrotto le catene di approvvigionamento, contribuendo all’inflazione elevata, al rialzo dei prezzi energetici (il petrolio potrebbe arrivare a 100 dollari a fine 2023 secondo Goldman Sachs) mentre i Paesi del Sud del mondo risentono in modo drammatico della carenza di cibo: l’export di grano di Russia e Ucraina rappresenta il 12% delle calorie mondiali e Mosca fornisce all’Africa il 50% dei fertilizzanti. Disordini politici e instabilità sono all’ordine del giorno.

La guerra sta polarizzando pericolosamente il sistema internazionale. Con la rivalità geopolitica tra l’Occidente e l’asse cinese-russo (Brics compresi) si accentua il ritorno a un mondo diviso in blocchi dove la maggior parte del globo preferisce il non allineamento piuttosto che rimanere intrappolato in una nuova era di scontro Est-Ovest. Due terzi dell’umanità, inutile sottolinearlo, vive in stati che non hanno messo sanzioni a Mosca.

In questo contesto né l’Ucraina né i suoi sostenitori della Nato possono pensare che l’unità occidentale sia immutabile. La determinazione americana è cruciale per alimentare quella europea e Washington deve affrontare un aumento di pressioni politiche per ridurre la spesa mentre e ora che i repubblicani controllano le Camere sarà più difficile per l’amministrazione Biden garantire consistenti pacchetti di aiuti per Ucraina. La politica nei confronti dell’Ucraina, con le elezioni presidenziali del 2024 alle porte, potrebbe cambiare.

ED ECCO QUELLO che Foreign Affairs definisce il Piano B, alternativo a una «vittoria totale» che appariva già improbabile mesi fa. Data la traiettoria della guerra, gli Usa la Nato devono iniziare a formulare un finale di partita diplomatico sin da ora. Anche se si intensifica il sostegno a una controffensiva ucraina, Washington dovrebbe avviare consultazioni con i suoi partner europei e con Kiev per un’iniziativa diplomatica da lanciare nel corso dell’anno.

IN POCHE PAROLE si tratta di proporre un cessate il fuoco in cui Ucraina e Russia ritirerebbero le loro truppe e le armi pesanti da una nuova linea di contatto creando una zona smilitarizzata monitorata dall’Onu o dall’Osce. Per rendere efficace la tregua, l’Occidente dovrebbe rivolgersi ad altri paesi influenti, tra cui Cina e India: certo tutto questo complica le trattative diplomatiche ma aumenterebbero le pressioni sul Cremlino. Supponendo che un cessate il fuoco regga, dovrebbero seguire colloqui di pace su due binari: uno tra Russia e Ucraina con mediatori internazionali, l’altro tra Nato e Russia per un dialogo strategico sul controllo degli armamenti.

Questo approccio può essere troppo per alcuni e non abbastanza per altri. Ma a differenza delle alternative e di un massacro senza fine, ha il vantaggio, secondo i suoi ispiratori di oltreatlantico, di fondere ciò che è desiderabile con quanto è realmente fattibile

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COMMENTI. Mai fatti i conti con l’Italia fascista e imperialista. Così dal 2012 Rodolfo Graziani, criminale di guerra in Etiopia e poi presidente onorario del Msi, ha un mega-monumento ad Affile

Il «mal d’Africa» del Presidente del Consiglio Sagome di cartone per contestare il sacrario dedicato a Rodolfo Graziani realizzato ad Affile - foto Ansa

Il 5 maggio 1936, dopo 7 mesi di guerra il maresciallo Pietro Badoglio telegrafava a Roma l’ingresso delle truppe del regio esercito ad Addis Abeba, capitale dell’Etiopia.

Il 9 maggio Mussolini dal balcone di Piazza Venezia annunciava trionfale «la riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma». Nel suo viaggio nella ex-colonia la storia segue come un’ombra lunga Giorgia Meloni, prima Presidente del Consiglio postfascista e figlia politica del Msi, il partito erede della parabola mussoliniana.

In realtà i conti mai fatti con quella storia non sono esclusiva dell’estrema destra ma chiamano in causa la società italiana nel suo complesso. Ancora oggi strade, piazze e monumenti in tutto il Paese sono intitolate e dedicate alla guerra imperialista del fascismo senza che nessun governo e nessuna istituzione abbia pensato di intervenire almeno per spiegare cosa significhino storicamente via dell’Amba Aradam o via Addis Abeba piuttosto che Largo Ascianghi.

Che il passato coloniale sia stato un enorme rimosso della nostra Repubblica, transitata dal fascismo alla democrazia senza un suo simbolico processo di Norimberga ed anzi auto-rappresentatasi con il falso mito degli «italiani brava gente», lo mostrò l’incredibile ostracismo di stampa e mass-media contro il più grande (nonché partigiano) storico del colonialismo italiano, Angelo Del Boca. Memorabile la sua polemica con Indro Montanelli (che negò fino all’inverosimile in nome della sua «memoria personale» al seguito delle truppe di occupazione) sull’uso delle bombe all’iprite e dei gas asfissianti da parte del regio esercito la cui aviazione nella sola «battaglia dello Scirè» del febbraio-marzo 1936 sganciò 200 tonnellate di esplosivo.

Crimini di guerra confermati dai documenti e che non rimasero episodi isolati. Dopo l’occupazione di Addis Abeba stragi di civili e partigiani continuarono senza sosta tanto che l’ufficio militare del ministero dell’Africa Italiana al 10 giugno 1940 registrò: 76.906 ribelli etiopi uccisi, 4.437 feriti e 2.847 prigionieri.

Quella storia parla molto non solo del regime fascista ma anche dell’Italia del dopoguerra e di come la «continuità dello Stato», come ci ha insegnato Claudio Pavone, influenzò lo sviluppo storico della democrazia nel nostro Paese.

Le operazioni di polizia erano coordinate da Rodolfo Graziani, gerarca fascista nominato vicerè d’Etiopia, criminale di guerra e ministro delle Forze Armate dell’esercito collaborazionista di Salò. Nel dopoguerra sarà processato e rapidamente scarcerato, diventando presidente onorario del Msi nel 1952. Diverrà celebre il suo «abbraccio» pacificatorio ad Arcinazzo con Giulio Andreotti durante un comizio elettorale dell’esponente democristiano. Nel 2012 nella cittadina di Affile è stato inaugurato in suo onore un mausoleo finanziato dall’allora giunta regionale del Lazio guidata da Renata Polverini e di cui faceva parte l’allora assessore ai trasporti Francesco Lollobrigida, oggi fedele colonnello del governo Meloni.

A seguito di un attacco contro Graziani ad opera della Resistenza etiope, il 19 febbraio 1937, i comandi italiani ordinarono uno sterminio di massa (14.294 ribelli uccisi e passati per le armi e 50.000 case incendiate) culminato con la strage dei monaci coopti di Debrà Libanòs ed eseguito da reparti guidati da Pietro Maletti. Decenni dopo ritroveremo suo figlio Gianadelio Maletti, che seguì le orme paterne nella carriera militare, condannato per favoreggiamento nell’ambito dell’inchiesta sulla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969.

L’Etiopia potrebbe raccontare a Giorgia Meloni la storia di un altro dei suoi padri fondatori del Msi: Alessandro Lessona, posto da Mussolini alla guida del ministero per l’Africa Orientale Italiana. Nel dopoguerra superata indenne la fase dell’epurazione sarà membro e poi senatore del Msi nel 1963. Nell’aprile 1969 si dimise dal partito e aderì al Fronte Nazionale di Junio Valerio Borghese (altro Presidente onorario del Msi) poco prima del tentativo di golpe del 7-8 dicembre 1970.

Così, mentre evoca un chimerico «Piano Mattei» per l’Africa, Meloni potrebbe cogliere l’occasione per ripensare a quei padri fondatori e a «quelle persone che non ci sono più» cui dedicò la vittoria elettorale del settembre scorso. Continuerà invece (e con lei l’opinione pubblica nazionale) a non farlo, forte del disinteresse del Paese alla conoscenza del proprio passato e confidando nel nostro mesto spirito dei tempi che richiama il celebre aforisma di Karl Kraus: «Quando il sole della cultura è basso i nani hanno l’aspetto dei giganti»

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Vi invio una nota elaborata da me su uno spunto di Massimo Scalia, Gianni Mattioli, Vincenzo Naso e Gianni Silvestrini sulla opposizione del Governo al passaggio alle rinnovabili, Aggiungo anche il link all’articolo originale  dei quattro “innovatori”

(V. . https://italialibera.online/politica-societa/non-abbandonate-il-futuro-lettera-aperta-a-schlein-e-conte-per-un-progetto-ecologista/ )

Un caro saluto e un invito alla mobilitazione! Mario Agostinelli

Ecco il curriculum di Roberto Cingolani, ministro della ...

Probabilmente Stefano Cingolani, fisico, esperto e manager multiforme, si era già  “recato” sul Sole dove aveva acclarato il verificarsi del fenomeno della fusione che
prometteva per il prossimo decennio sulla Terra, senza contare che si trattava di fenomeni e condizioni assai differenti. (v. Infatti, l’enorme gravità della stella
consente di compenetrare in abbondanza e con naturalezza - alla distanza di 150 milioni di Km da noi - atomi di idrogeno che si trasformano in elio e non di dover
creare apparati artificiali improbabili di enorme potenza soltanto per fondere per una frazione di secondo isotopi rari dell’idrogeno, come il trizio e il deuterio. Insomma,
un impreciso diversivo pur di non affrontare il precipitare del cambiamento climatico.

“Ritornato” come se niente fosse sulla Terra si è distinto nel dilazionare i tempi di passaggio alle rinnovabili insediandosi nella capitale in veste di Ministro per la
Transizione Energetica. Risultato: il PNIEC è dopo un lustro ancora in revisione e la rincorsa al gas da ogni dove, gradita a Draghi, e, poi suggellata da Meloni e dal
suo “vicepremier” Descalzi, è stata avviata nei suoi uffici.

Dobbiamo molto a lui se una strategia energetica di fuoriuscita dal fossile - nonostante i favori che il PNRR attribuisce all’Italia - non è nemmeno confrontabile con quella elaborata in Spagna o nei paesi nordici e se il conto terrificante delle emissioni di CO 2 dovuto alle guerre in corso (un giorno di combattimenti in Ucraina equivale alle emissioni della provincia di Bologna v. https://magazine.unibo.it/calendario/2023/02/24/la-guerra-in-ucraina-un-anno-dopo) non lo turba affatto nel trasferirsi nella funzione di amministratore delegato di Finmeccanica, la massima industria bellica italiana.

Quindi, il fisico più inviso agli ambientalisti risulta il politico più affidabile per Meloni e Descalzi, determinati al punto di offrirgli un banco di prova per una politica
economica estera dove i pagamenti avvengono spesso tramite il commercio di armi.

Sull’incredibile ritardo accumulato sulle rinnovabili è apparsa il 13 Aprile su “Italia Libera” una lettera a Schlein e Conte, inviata da quattro ambientalisti protagonisti
della svolta antinucleare italiana (v, https://italialibera.online/politica-societa/non-abbandonate-il-futuro-lettera-aperta-a-schlein-e-conte-per-un-progetto-ecologista/)

che invito a leggere e che andrebbe spedita all’intera area (non solo PD e M5S) che sostiene un futuro di ecologia integrale.

Gianni Mattioli, Vincenzo Naso, Massimo Scalia e Gianni Silvestrini rivendicano di essere stati tra i protagonisti di un percorso di transizione ecologica
nato in Italia prima che in altri Paesi, ma che ora ha bisogno di un “aggiornamento”, di un obbligo rispetto all’accelerazione dei drammatici fenomeni innescati dal global warming.

Non si può che condividere la richiesta di un impegno serio e possibile nelle fonti rinnovabili, rispetto al “bacino” dei 180 GW che già tre anni fa risultavano a Terna come richieste di allaccio alla rete e che avrebbe ottenuto ad oggi una quasi totale indipendenza dal gas russo.

Mentre “uno dei vicepremier –si legge nella lettera - si balocca su proposte tempestive e altamente attendibili come il “ponte sullo stretto” o il nucleare da fare “a
Baggio”, sua residenza, mentre l’altro si fa espropriare gli interventi più importanti di politica estera dal ceo dell’Eni, Claudio Descalzi, che, in verità, più che sembrare, è il
vero dominus dell’Amministrazione Meloni. Infatti, si trascurano i suoi risibili obiettivi - 15 GW di rinnovabili entro il 2030, a fronte dei 100 GW della Total e
di 50 GW della Bp - mentre propone l’Italia, forte della sua posizione nel Mediterraneo, come hub del gas per tutta l’Europa del Nord. Subito accompagnato
dal cinguettio omofono di Giorgia Meloni, in nome della sovranità energetica nazionale”.

E’ del tutto da condividere il dar vita ad un grande progetto per la riconversione ecologica dell’economia e della società, come da decenni richiedono in tutto il mondo
i movimenti ambientalisti, per la pace e per la giustizia sociale.
È un impegno gigantesco, che necessita della partecipazione diretta dei cittadini, in forme di rappresentanza diretta, indiretta, partecipativa, associativa e sindacale, già
in atto peraltro in alcune situazioni europee, che rimonti l’attuale disgusto per la politica così impietosamente misurato dalla costante crescita dei non votanti alle
elezioni.

Si può e si deve fare: ne va sempre più drammaticamente del futuro nostro, dei figli e dei nipoti. Una risposta come quella realizzata a Civitavecchia, di cui sono stato
testimone, ha costruito l’alternativa rinnovabile alla centrale a turbogas lungo la costa tirrenica ed innescato nuovi progetti anche manifatturieri con grandi benefici per il
lavoro, la sua riqualificazione e la salute del territorio.
Intanto, anche sulle spinte qui illustrate, nel Paese si incomincia ad avviare un percorso il più possibile largo e partecipato, - con lo slogan in prima approssimazione
“voi bloccate le rinnovabili, le rinnovabili bloccano i vostri uffici”- per un appuntamento di mobilitazione a inizio giugno sul tema del fermo delle rinnovabili
nel nostro Paese.
Finalmente anche l’Italia unisce le forze per impedire - come insidiosamente si palesa anche in alcuni incoerenze che spuntano nella stessa Commissione UE – che la
guerra, il pericolo nucleare e la crisi climatica rendano invivibile il Pianeta che abbiamo ottenuto in prestito.

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Gli eredi del Pci sposano il capitalismo nella sua variante liberista e globalista, proprio quando aggrava le diseguaglianze e rapina le risorse naturali

 Opere di Ottmar Hörl - Ap

Un’Italia conservatrice e reazionaria coesiste da sempre con un’Italia democratica e di sinistra. La contrapposizione destra-sinistra è un tratto peculiare della nostra storia. Vale la pena tuttavia riflettere su come sia stato possibile che la sinistra abbia consegnato, praticamente senza combattere, le chiavi del governo alla destra postfascista.

La fuga dalle urne di milioni di elettori e la sconfitta del Pd nelle ultime elezioni sono il risultato di una politica che da molto tempo ignora le sofferenze delle fasce deboli, la rabbia della piccola borghesia, l’insicurezza del ceto medio. Da quando Elly Schlein ha cominciato a parlare di disuguaglianza, precariato, diritti, ambiente, pace, si respira aria nuova. Tuttavia è bene dirci con franchezza che le parole non bastano a dare la sveglia a un partito che ha perso la connessione sociale, prima che sentimentale, con il suo popolo. E non basta affidare alla nuova leader il compito di ricostruire una prospettiva politica e strategica. Senza uno sforzo eccezionale e collettivo non sarà possibile riannodare i fili interrotti con il movimento e con il paese.

Si sente dire spesso che l’impasse della sinistra derivi dalla forza dirompente con cui il pensiero liberista si è imposto a partire dagli anni ottanta del secolo scorso. Non si sottolinea abbastanza, invece, che è stato l’arretramento ideale e politico della sinistra a rendere particolarmente devastante l’impatto delle politiche liberiste sui rapporti sociali e di potere. A un certo punto, per gli epigoni del Pci, il capitalismo diventa il sistema economico par excellence, smette di essere una realtà sociale «storicamente determinata», quindi modificabile. «Abbiamo una banca!», l’annuncio di Piero Fassino, suggella bene questo passaggio, svela il taglio netto con il proprio passato, l’adesione ad una visione del mondo e della società che non ci appartiene.

E’ calato il sipario su una ricca elaborazione culturale e politica – dei comunisti e dei socialisti, ma anche dei cattolici democratici – che aveva portato alle grandi riforme degli anni Sessanta e Settanta: la scuola media unica e obbligatoria, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, il servizio sanitario nazionale, l’edilizia residenziale pubblica, la riforma fiscale e, ancora, lo statuto dei lavoratori, il nuovo diritto di famiglia, l’aborto, il divorzio, e altro. Riforme vere, che rispondevano a bisogni reali e, in alcuni casi, sperimentavano l’ introduzione di «elementi di socialismo» nel corpo stesso del capitalismo.

L’aspetto paradossale della vicenda è che la conversione degli eredi del Pci avviene negli stessi anni in cui i processi di globalizzazione avanzano in modo impetuoso e il capitalismo, nella sua variante liberista e globalista, aggrava le diseguaglianze sociali, accelera la rapina delle risorse naturali e la crisi climatica, travolge ogni cosa, imponendo il culto della crescita infinita.

Così, nel momento cruciale dello scontro, gli strati popolari restano privi di un’efficace difesa, esposti allo sfruttamento, alle logiche alienanti del capitale e a tecniche sempre più sofisticate di seduzione e manipolazione delle coscienze. La sinistra alza bandiera bianca, non contrasta il peggioramento delle condizioni materiali delle fasce deboli e il diffondersi di forme esasperate di individualismo e di consumismo. Assiste passivamente al configurarsi di una società neo-feudale, modellata sulle differenze di nascita e sulla consistenza patrimoniale dei vari gruppi sociali (moderne caste), dominata da una aristocrazia economica mille volte più ricca e potente di quella esistente ai tempi dell’Ancien Régime. L’affermazione della narrazione populista e sovranista trova terreno fertile nell’indebolimento della partecipazione democratica e nelle assurde e incomprensibili divisioni tra le forze di sinistra.

A questo punto, di fronte ad una destra che fa della chiusura nazionalista e della xenofobia il suo programma di governo, è necessario rimettere in pista il partito, fargli giocare un ruolo autonomo e unitario, ridare senso alle lotte sociali e politiche. Il conflitto è l’unica risposta possibile, è l’arma più efficace per respingere l’offensiva reazionaria ed affermare una politica che coniughi transizione ecologica ed equa redistribuzione della ricchezza.

L’identità di sinistra si ricostruisce tenendo insieme prospettiva e quotidianità, agendo giorno dopo giorno per la «decrescita di tutto ciò che inquina e distrugge e la crescita di tutto ciò che salvaguarda e rigenera» (E. Morin, Svegliamoci!, Mimesis, 2022, pag.46). Il Pd, in particolare, sarà giudicato da come, d’ora in poi, sarà in grado di affermare una diversa idea di lavoro, di ambiente, di giustizia. E da come segnerà una presenza non episodica nelle periferie degradate, sul problema del disagio abitativo e dell’assenza di servizi essenziali.

Essere socialisti ed ecologisti nel terzo millennio significa portare avanti una battaglia politica e culturale contro l’illusione che possa esserci uno sviluppo illimitato in un mondo con risorse naturali limitate ed agire di conseguenza

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SCENARI. In un quadro difficile, scelte e incapacità del governo lo aggravano. Vedi l’implementazione del Pnrr e l’incremento dell’avanzo primario per controllare il debito
Def, crudo neoliberismo e politiche di tagli al welfare Illustrazione di Pedro Scassa

La Melonomics si conferma come una prosecuzione della politica economica di Draghi, con marcate accentuazioni in chiave di austerity, perfettamente coerenti con le attuali scelte europee, sempre più subordinate agli interessi degli Usa, e alla politica monetaria restrittiva della Bce.

Il richiamo alla prudenza del ministro Giorgetti va interpretato come un appiattimento su quelle direttrici. Mentre sul terreno dei diritti civili e sociali il governo ha da subito messo in atto una serie di misure, condite da dichiarazioni fascisteggianti – da non sottovalutare – che lo avvicinano di più all’area orbanista, con un incrudelimento delle politiche antimigratorie, di cui il recente varo dello stato di emergenza è fulgido esempio di nequizia.

RIMANENDO NEL CAMPO della politica economica le scelte e gli atti del governo si modulavano finora lungo due indirizzi. L’uno, rappresentato dal neoliberismo nella sua forma più cruda, accentuando le politiche privatistiche e antiwelfare, motivate culturalmente – si fa per dire – dal rilancio in ogni campo di celebrazioni del merito.

L’altro, costituito da un insieme di neocorporativismo e di sbriciolamento distributivo, secondo la nota retorica dello sgocciolamento dalla vasca dell’opulenza, una trickle down economy all’italiana. Da quanto emerge il Def sposta il vacillante equilibrio tra questi due aspetti decisamente a favore del primo. Basta scorrere i titoli dei punti che lo compongono per accorgersene.

NON SI PREVEDE alcuna reale politica di bilancio per contrastare la contrazione dell’economia e l’immiserimento della popolazione, accentuati dalla guerra – di cui non si intravede, non a caso, né fine né tregua – dall’incremento dell’inflazione e dall’aumento dei tassi che la Bce persegue indefessamente. Si dirà che gli spazi per una simile manovra sono scarsi.

La soglia “psicologica” dell’1% di crescita promessa dalla Meloni non è raggiunta per quanto riguarda il “tendenziale” a legislazione vigente. Il Def la inchioda allo 0,9%, ma le stime di autorevoli istituzioni sono più basse, a cominciare dal Fmi che prevede per l’Italia un rialzo del Pil dello 0,7%, entro un quadro che riporta la crescita mondiale ai valori del 1990, con possibilità di peggioramento.

È vero quindi che il governo Meloni si muove in un quadro difficile, ma scelte e incapacità lo aggravano pesantemente, come si vede anche nell’implementazione del Pnrr.
MA SOPRATTUTTO lo si vede nell’incremento dell’avanzo primario, cioè del risparmio al netto delle spese per interessi, che, nel 2024 sarà pari a circa 6 miliardi, per crescere a 26 e 45 miliardi nei due anni successivi. La paura dell’incremento del debito pubblico, alla vigilia della discussione del nuovo patto di stabilità europeo, partita già sotto cattive stelle, deprime la spesa sociale e per investimenti pubblici.

LA REDAZIONE CONSIGLIA:
Istat, giù il potere d’acquisto delle famiglie, su i profitti delle imprese

La cancellazione della Fornero – cavallo di battaglia della destra “sociale” – è così passata in cavalleria. Mentre si prevede la finalizzazione nella legge di Bilancio di fine anno di un ulteriore aumento delle spese militari di circa 1,8 miliardi, dall’1,38% del Pil all’1,48%, con l’obiettivo voluto dalla Nato di raggiungere il 2%.
NÉ I TRE MILIARDI che sbucano dal mantenimento del deficit tendenziale al 4,5%, in luogo del previsto 4,35% e che verranno utilizzati, con un futuro provvedimento, per ridurre il cuneo fiscale, risolvono alcunché sul fronte delle troppo basse retribuzioni.
Mentre la riforma fiscale annunciata, con la ulteriore riduzione del numero delle aliquote, premierà i ceti più forti, distruggendo ogni barlume di progressività.

Lo riconosce persino la Confindustria – che di suo però non vuole mettere assolutamente nulla – quando osserva che gli effetti sulla busta paga saranno modesti (41 euro al mese per redditi fino a 25mila euro annui).

Se si considerano i tagli per pensioni e sanità già avvenuti, quelli ulteriori che verranno, specie in campo scolastico e sanitario anche in conseguenza dell’autonomia differenziata – se il progetto governativo passerà – si può prevedere che il taglio del cuneo fiscale non compenserà perdite ed esborsi di reddito di un lavoratore medio. Il comunicato del governo insiste sui pericoli di una spirale salari-prezzi.
A FRONTE DI UNA enorme questione salariale, cui la risposta dei tre sindacati confederali appare finora debole e inadeguata. Eppure di fronte ad una inflazione del carrello della spesa che viaggia su due cifre e un aumento nel 2002 dei salari dell’1,1%, ci sarebbe spazio per un incremento di almeno il 5% delle retribuzioni senza innescare alcuna spirale, come riconosce anche il Cer.
Ma questo più che argomento istituzionale è tema di lotta sociale

 
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