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LAVORO. Il XIX Congresso nazionale della Cgil, “Il lavoro crea il futuro”, che prende il via oggi a Rimini, conclude un lungo percorso che ha avuto inizio lo scorso 30 settembre. […]

Cgil, dal congresso le proposte per cambiare radicalmente questo paese Il segretario generale della Cgil Maurizio Landini - foto Ansa

Il XIX Congresso nazionale della Cgil, “Il lavoro crea il futuro”, che prende il via oggi a Rimini, conclude un lungo percorso che ha avuto inizio lo scorso 30 settembre.

Nella prima fase congressuale, che si è svolta fino al 10 dicembre, si sono tenuti ben 43.211 congressi di base, di cui 37.220 sul posto di lavoro e 6.011 territoriali. Poi è stata avviata la seconda fase, conclusasi il 24 febbraio scorso, durante la quale si sono svolti 1.939 congressi: 1.540 nelle categorie provinciali; 240 nelle categorie regionali; 12 nelle categorie nazionali; 126 congressi nelle Camere del lavoro e Camere del lavoro metropolitane; 20 congressi delle Cgil regionali.

Un percorso di partecipazione e democrazia che ha eletto 986 delegati e delegate (Il 50% sono donne), che da oggi siederanno al Palacongressi di Rimini per il congresso nazionale.

Ogni quattro anni le iscritte e gli iscritti, le delegate e i delegati, il gruppo dirigente diffuso sono coinvolti in un confronto democratico in tutto il Paese, costitutivo per la nostra organizzazione e vitale per l’insieme del mondo del lavoro.
Da molti anni, oramai, i nostri congressi pongono al centro della riflessione la necessità di fare i conti con la frantumazione del lavoro e la perdita di diritti.

Una situazione figlia di leggi che hanno accompagnato la precarizzazione del lavoro e favorita dalle scelte delle imprese e dai servizi, dal pubblico e dal privato. Una frantumazione

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Amnesty International - Italia - Sergio Bassoli - CGIL ...

Il ritorno di Lula alla guida del Brasile ha dato una scossa a tutto il continente americano e l’onda è arrivata anche oltre oceano, in Europa. Sin dalle prime uscite Lula ha indicato due priorità internazionali per il suo nuovo mandato: posizionare il sub-continente latinoamericano come un soggetto politico unito, e la costruzione della pace a livello globale. Ovviamente, le due cose sono strettamente collegate.

Un’America Latina divisa non aiuterebbe a spostare l’asse della politica internazionale verso un nuovo paradigma e un diverso equilibrio geo-politico. Mentre la ripresa del processo di integrazione, dal Messico all’Argentina, darebbe maggiore forza contrattuale alle richieste e alle proposte che l’America Latina, ma in particolare la leadership brasiliana, collocherebbe sui tavoli internazionali e nelle relazioni bilaterali con le grandi potenze.

Il primo alleato di Lula è il grande vecchio uruguayano, Pepe Mujica, che con i suoi 87 anni ha ripreso il suo impegno politico a sostegno dell’amico e hermano Lula, per unire popoli e stati latinoamericani, ripartendo dall’Unasur, dal progetto di libertà di circolazione delle persone in tutto il sub-continente, di moneta comune, di cooperazione industriale e commerciale. I due hanno lanciato la sfida e gli alleati in questa fase non mancano: Messico, Colombia, Argentina, Cile, Bolivia, Venezuela hanno leader e governi che condividono l’ideale della “Patria Grande” di Simon Bolivar, e non hanno tardato a mandare segnali di esser pronti a riprendere questo percorso di cooperazione e integrazione regionale.

L’agenda di Lula prevede un viaggio al mese per riprendere i contatti con i leader di Europa, Asia e Africa, oltre alle visite che riceverà in Brasile, come quella recente del cancelliere tedesco Scholz. Biden ha già avuto modo di capire come sia cambiata la musica in America Latina: il suo appello a fornire armi all’Ucraina ha visto il no di Brasile, Colombia e Messico, a cui ha fatto la proposta di Lula di promuovere una Coalizione di Stati per la Pace.

Questa netta presa di posizione non è frutto di improvvisazione, ma è un lucido disegno politico di rompere lo schema di contrapposizione militare tra Usa e Russia e di scontro economico tra Usa e Cina, schema che sta bloccando ogni ipotesi di soluzione politica al conflitto in Ucraina.

Se Lula e gli Stati latinoamericani, per le loro relazioni storiche e per il loro essere neutrali - che non significa affatto appoggiare Putin e non condannare l’invasione e la violazione della carta delle Nazioni Unite - riescono ad aprire uno spazio negoziale coinvolgendo la Cina e paesi come l’India, il Sud Africa, l’Indonesia, senza rompere con il blocco occidentale, si può veramente aprire il negoziato e sperare nel cessate il fuoco.

Tutti sono consapevoli che la strada è difficile e piena di ostacoli. Molti sono i soggetti in campo che non vogliono che la guerra finisca. Come anche non possono essere disponibile ad accettare un protagonismo internazionale da Lula e dal blocco latinoamericano, che ha come obiettivo il cambio del paradigma finanziario-economico che fa capo a Washington. Ma, forse, il solo fatto di intravedere una via di uscita ad una guerra che può scoppiare in mano ai tatticismi e agli interessi di parte, e trasformarsi in un’apocalisse nucleare, potrebbe far comodo a tutti quanti.

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CUTRO E NON SOLO. Protezione dei confini esterni e lotta ai trafficanti di migranti. Ecco la risposta del presidente del Consiglio Giorgia Meloni alla strage di Cutro. È con la lotta ai responsabili che […]

Alessandro Corso Alessandro Corso

Protezione dei confini esterni e lotta ai trafficanti di migranti. Ecco la risposta del presidente del Consiglio Giorgia Meloni alla strage di Cutro. È con la lotta ai responsabili che andrà risolto il pesante fardello dell’immigrazione clandestina. A Cutro si identificano ancora i cadaveri. Alcuni corpi sono ormai difficilmente riconoscibili. Nel mentre, chi ha scampato la morte resta segregato, in detezione. La fortuna di essersi salvati non vale il pass per la legalità. Per i vivi ci sarà tempo. Bisogna pensare a chi è morto. Ci si inchina di fronte alla tragedia. Palloncini colorati, lettere d’ affetto, dolci croci improvvisate. Si piange, ci si dispera, si chiede giustizia. I resti del naufragio abitano le coste di Cutro. Scarpe, pantaloni, giacche, salvagenti, giocattoli. Le telecamere si soffermano sui resti dei bambini. C’erano erano bambini tra i morti, si dice a voce bassa. Bisogna essere bambino per suscitare un po’ più di compassione.

L’empatia, scrive la filosofa Nussbaum, è la capacità di sapersi mettere nei panni altrui, di sentire ciò che si potrebbe provare al loro posto. Tale viaggio verso l’altro è solo immaginario. Ma immaginare non è tempo perso. Immaginare è atto creativo che apre le porte verso la possibilità di qualcosa di nuovo, di diverso. È la condizione del cambiamento. Per cambiare ciò che sarà, occorre però ricordare quel che è stato. La strage di Cutro è strage annunciata. Il suo esserci è il risultato di un modus operandi e di un atteggiamento verso le politiche di frontiera che è ormai in atto da decenni. Risale a dieci anni prima, il 3 ottobre del 2013, la più famosa strage nel Mediterraneo, quella che ha dato ulteriore risonanza mediatica a Lampedusa, facendola diventare il più grande palcoscenico dello spettacolo del confine. Il confine è diventato ormai da tanti anni luogo privilegiato dello spettacolo che le politiche internazionali hanno messo in atto.

È un teatro, un grande teatro nel quale però, a differenza di quel che il termine vorrebbe suggerire, ogni scena viene vissuta sulla pelle di chi lo abita. Un Truman Show che vale solo dalla prospettiva di chi ha la fortuna di poterne stare fuori, ed è il caso storico e contingenziale, non il merito individuale, a determinare spettatori e attori.
Per chi ci sta dentro, tutto appare molto vivido, forte e chiaro. Per chi opera come medico ed è stato esposto alle ferite da torture di un giovane che è arrivato dalla Libia e ha visto una sorella massacrata di botte, è evidente che tutto ciò che sta accadendo ai confini d’Europa è solo una grande assurdità. Per chi è stato migrante e dopo anni di attesa ha avuto la fortuna di poter lavorare come mediatore culturale, la vista quotidiana di compagni che soffrono ciò che si è vissuto sulla propria pelle, non fa dormire la notte.

Gli incubi dei soprusi e delle percosse tornano alla mente ogni volta. Incubi che visitano anche la gente che questi li ha incontrati, che ha sentito gli odori del gasolio sui corpi nudi, a volte dovendone recuperare i resti dopo giorni in mare, putrefatti, irriconoscibili, sbiancati. Il puzzo di quegli incontri è rimasto dentro e non va più via. Così lo descrive l’ex custode del cimitero di Lampedusa Vincenzo Lombardo, uno dei primi testimoni di migranti morti in mare e recuperati sulle coste di Lampedusa. Il presente di Cutro affonda le sue radici in un passato lontano. Vincenzo parla del 1996 e dei primi morti che Lampedusa si ritrovò ad ospitare prima ancora che l’isola – che fino a pochi decenni prima non compariva su molte cartine geografiche italiane – divenisse fulcro del discorso migratorio internazionale.

Oggi Cutro piange i morti e chiede che ciò che si è verificato non accada più. Richieste antiche di chi abita ai margini d’Europa e vede quel che resta dell’umanità scomparirgli d’innanzi. Le risposte che arrivano dalle istituzioni danno una colpa a chi è partito, insultando la memoria storica di paesi dell’Africa e del Medio Oriente che vertono a fasi alterne in uno stato di privazione della libertà di espressione di parola, di pensiero, di orientamento sessuale, e forse più banalmente – ma questo è il punto cruciale – di movimento libero.

I migranti irregolari hanno avuto negata tale libertà. Mentre lo Stato italiano insieme all’Europa si accinge a dichiarare la sua ennesima battaglia contro gli illegali per proteggere i propri confini, la tela incolore del nostro futuro si è già macchiata di rosso. Il sangue di chi verrà sulle nostre rive a chiedere giustizia è già stato versato prima ancora che una strage si consumi. La storia dell’immigrazione ai confini d’Europa ci avverte che altra morte verrà a farci visita, se non tra le nostre coste, certamente tra le trame della nostra coscienza.

*Docente e ricercatore associato presso l’Università di Oxford

 

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IRAN-ARABIA SAUDITA. La ripresa imminente delle relazioni diplomatiche tra due antichi rivali ottenuta da Pechino è la dimostrazione che il mondo cambia più velocemente di quanto si possa immaginare qui in Occidente

L’accordo-triangolo della diplomazia cinese 

Il triangolo no, non l’avevo considerato: la strofa della canzone potrebbe essere dedicata a Biden, costretto a far buon viso a cattivo gioco. Anche i suoi alleati storici come i sauditi sono amici dei cinesi e grazie a loro fanno pace con i rivali di sempre. Persino quel Patto d’Abramo tra Israele e gli stati arabi del Golfo, un sorta di Nato mediorientale, adesso appare forse un traguardo meno vicino per i sauditi e per i piani di un Netanyahu sempre più in crisi a casa sua.
La ripresa imminente delle relazioni diplomatiche tra due antichi rivali, l’Iran sciita e l’Arabia saudita cuore del mondo sunnita, ottenuta da Pechino è la dimostrazione che il mondo cambia più velocemente di quanto si possa immaginare qui in Occidente. È un mondo che può non piacere, dove ci sono più autocrati che democrazie, ma voltare la testa dall’altra parte non aiuta a sciogliere i nodi. Anzi.

Come sottolineava il ministro degli esteri indiano Jaishankar al New York Times a proposito del conflitto ucraino, «voi occidentali ed europei siete bravi a far diventare i vostri problemi i problemi di tutti, ma quando noi abbiamo un problema nemmeno ci ascoltate». L’India alla fine di questo decennio sarà il Paese più popoloso del mondo e la terza economia dietro Usa e Cina. Né indiani né cinesi hanno condannato la Russia per la brutale aggressione all’Ucraina, né hanno messo sanzioni, approfittando di quelle occidentali per intensificare le forniture energetiche (con lo sconto) da Mosca.
La diplomazia di Pechino è rapida: è l’unica potenza ad aver presentato un piano di pace (sia pur vago) per la guerra in Ucraina e in poco meno di tre mesi ha messo al tavolo Teheran e Riad. È di dicembre il viaggio di Xi Jinping in Arabia saudita dove ospite del principe assassino Bin Salman (mandante dell’omicidio del giornalista Jamal Kashoggi) incontrò anche una trentina di capi di stato e di governo arabi (c’erano anche al-Sisi e Mahamoud Abbas).

È di febbraio la visita in Cina del presidente iraniano Ebrahim Raisi dove ha ricevuto un impulso decisivo l’integrazione di Teheran nella realtà geopolitica eurasiatica con l’ingresso a tutti gli effetti nell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (Sco) deciso lo scorso settembre a Samarcanda: ne fanno parte Russia, Cina, India, Pakistan e quattro repubbliche centro-asiatiche dell’ex Urss, e mette assieme il 40% della popolazione mondiale e circa il 30% del Pil del pianeta. Certo i cinesi sono arrivati a questo risultato con le leve potenti della loro diplomazia economica. La Cina è il maggiore cliente del petrolio iraniano sotto embargo occidentale e considera con estremo interesse che Teheran possiede le seconde riserve al mondo di gas: i giacimenti offshore di South Pars, condivisi in parte con il Qatar, potrebbero fornire l’intero consumo di un anno in Europa. Ma la via occidentale per la repubblica islamica, di fronte alla sollevazione anti-teocratica del movimento «Donna vita e libertà», appare sbarrata, e quindi si presenta la sponda cinese.

Ma é il rapporto tra Pechino e Riad, che vantano un interscambio di 330 miliardi di dollari, quello che brucia di più a Washington ora in apprensione: gli sforzi degli Stati uniti per indebolire e dividere i loro rivali risultano sempre meno efficaci. Nel contempo la politica delle sanzioni a oltranza, della promozione delle «rivoluzioni colorate» o dell’aggressione militare – diretta o per procura – sta sempre più alimentando un «movimento» che ha il suo baricentro in Asia. Cosa sta accadendo lo spiegava un articolo di Foreign Affairs: gli Stati uniti devono abbandonare il loro «narcisismo strategico» con cui chiedono ai loro alleati di schierarsi continuamente su ogni questione. Ce la fanno con gli europei ma già nella Nato c’è la Turchia che con Mosca e l’Iran agisce come le pare. Gli alleati americani del Medio Oriente e del Golfo vogliono partecipare agli accordi con gli Usa ma sentirsi anche liberi di muoversi verso Cina e Russia.

La svolta «cinese» dei sauditi appare quasi epocale. Era il 1945 – la seconda guerra mondiale doveva ancora finire – quando il presidente Usa Roosevelt e il sovrano wahabita Ibn Saud si incontrarono nel canale di Suez a bordo dell’incrociatore Quincy per forgiare il patto di ferro tra Stati uniti e Arabia Saudita da allora sempre rinnovato: sicurezza americana contro petrolio saudita. Quell’accordo è quasi del tutto ingiallito. Un evento negativo per Riad, è stata la mancata risposta Usa all’attacco di droni degli Houthi yemeniti alle raffinerie saudite nel settembre 2019. Adesso nel Golfo avanzano i nuovi equilibri (o squilibri) di un mondo multipolare. Come sottolineava ieri sul manifesto Michele Giorgio, l’Iran ha dimostrato di sapere aggirare l’isolamento regionale, incassando anche le lodi di una settimana fa del capo dell’Aiea Grossi per il ripristino delle ispezioni sul nucleare civile, mentre Riad si ripropone come mediatore nelle crisi mediorientali dove si sono affrontati sciiti e sunniti, dalla Siria al Libano, allo Yemen, in vista della prossima ripresa dei negoziati di pace. Allora vedremo se il «triangolo» cinese funziona

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TRANSIZIONE ECOLOGICA. Il governo di coalizione e di sinistra spagnolo ha deciso qualche giorno fa di dedicare 5000 KM2 dei suoi mari per installarvi turbine eoliche galleggianti, aspirando così a diventare il […]

 Spagna e Italia, due scelte contrapposte Rigassificatore di Livorno - Ansa

Il governo di coalizione e di sinistra spagnolo ha deciso qualche giorno fa di dedicare 5000 KM2 dei suoi mari per installarvi turbine eoliche galleggianti, aspirando così a diventare il principale referente europeo di questa tecnologia e dell’energia elettrica che essa produce. Diversa è l’aspirazione del governo dichiaratamente di destra italiano che invece sogna trasformare il paese in un grande deposito di gas per poi distribuirlo in tutta l’Europa e per questo ha deciso che i mari che lo circondano saranno ulteriormente trivellati per estrarre i pochi metri cubi di gas che ancora contengono, attraversati dai tubi dei nuovi lunghi gasdotti che si intende costruire e per completare l’opera percorsi da navi cariche di gas congelato per rifornire quelle gigantesche, ormeggiate nei porti di Piombino e Ravenna che servono per rigassifigare.

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Due governi e due diversi immaginari decisamente contrapposti che sollecitano un interrogativo: quale dei due governi ha preso la decisione migliore? In altre parole quale dei due progetti garantisce meglio un futuro gradevole di lavoro, diritti e giustizia climatica ai propri popoli? Da questo punto di vista la risposta dovrebbe esse scontata e l’Europa dovrebbe considerare anticaglia pericolosa le decisioni Italiane premiando le scelte spagnole (e quelle portoghesi, perché Lisbona sta facendo le stesse cose) e penalizzando quelle italiane per la loro estraneità alla transizione ecologica. Soprattutto sarebbe utile mettere a confronto le due diverse prospettive delineate coinvolgendo la popolazione europea che di transizione ecologica ed energetica sa poco, bombardata com’è dai tanti messaggi eco furbi delle imprese energetiche impegnate a dare continuità alle fonti fossili, come ad esempio fa “Plenitude” dell’Eni.

Ma a guardare bene la scommessa spagnola e quella portoghese sembrano predicare nel deserto, quello in cui si è arenato il progetto europeo della transizione ecologica. Sono tanti e ripetuti i segnali che inducono questo pessimismo. La scelta di qualche giorno fa di rinviare a data da destinarsi la messa al bando nel 2035 le auto a combustione è indicativa in questo senso. Si sapeva che l’Italia per le stesse ragioni per cui aspira a essere l’Hub europeo del gas puntava a questo risultato e che attorno a sè avrebbe radunato i paesi più arretrati della Ue sul piano tecnologico e dell’innovazione, come è quello dei Paesi ex sovietici.

Ma è una totale sorpresa che a questo schieramento arretrato e conservatore si unisse la Germania, al cui governo ci sono i Verdi, oltre che l’Spd. Il segnale suona come il definitivo arenamento della scommessa Europea sul progetto NextGenerationUe. La stessa operazione il governo Meloni proverà a ripeterla quando la Commissione Europea tenterà di far approvare la direttiva sulla riqualificazione energetica del patrimonio abitativo, che chiede agli stati membri di portarlo almeno nella modestissima classe E.

Ed invece ci si guarderà bene di aprire questo confronto fra le diverse interpretazioni della transizione ecologica, facendo in modo che ogni stato la interpreti come vuole. Ognuno per conto suo col bel risultato di rischiare di fallire gli obiettivi climatici sia al 2030 che al 2050. Un altro pessimo segnale che il sogno europeo sta andando in pezzi, ormai travolto da una guerra che alimenta i peggiori nazionalismi

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STRAGE DI CUTRO. Nei commenti immediatamente successi alle sciagure c’è un copione unico: un vacuo dibattito caratterizzato dalla tesi secondo che i migranti sono vittime di una figura che ne determina le decisioni e ne organizza il viaggio spesso stimolandolo: gli scafisti o i «mercanti di carne »

C’è una sola possibilità: tornare a Mare Nostrum 

Ormai ogni decina di anni ha luogo nel Mediterraneo in prossimità delle coste italiane una strage di migranti. La prima fu quella di Portopalo del Natale 1996, con 280 vittime. La seconda fu quella della Kater i Rades nel 1997, quando una imbarcazione albanese fu speronata da una nave militare italiana che causò la morte di oltre cento migranti. I protagonisti erano profughi che fuggivano dall’Albania in guerra civile. Il cui governo aveva deciso di chiudere le frontiere in uscita, su richiesta esplicita del governo «democratico» italiano che aveva deciso sciaguratamente il blocco navale.

Quindici anni dopo nel 2013 c’è stata la tragedia di Lampedusa con il naufragio di una nave libica carica di migranti avvenuto a poche miglia dalla costa: la strage più grave di tutte con 368 morti. E ora abbiamo la strage di Cutro della quale sappiamo tutto tranne ciò che aiuta a capire.

Nei commenti immediatamente successi alle sciagure c’è un copione unico: un vacuo dibattito caratterizzato dalla tesi secondo che i migranti sono vittime di una figura che ne determina le decisioni e ne organizza il viaggio spesso stimolandolo: gli scafisti o i «mercanti di carne ». L’altro assunto è che non si può far entrare tutti e che bisogna difendere le frontiere nazionali dall’invasione di una immigrazione incontrollata. Il tutto accompagnato dalla ipocrita proposta di soluzione secondo la quale « bisogna aiutarli a casa loro»

All’inizio di questo secolo il compito di controllo venne assegnato a una agenzia della Ue, Frontex, con sede a Varsavia e in attività a partire dal 2004, destinataria di enormi finanziamenti dal bilancio dei paesi dell’Unione. I mezzi a disposizione di Frontex servirebbero a «garantire la protezione delle frontiere esterne dello spazio di libera circolazione della Ue»: cioè a bloccare i migranti.

Nel progressivo incremento delle politiche di chiusura qualcosa cambiò dopo la strage di Lampedusa con l’istituzione in Italia del programma di intervento ‘Mare Nostrum’ stimolato dal clima di commozione – «mai più» – e da una riflessione meno convenzionale sui motivi che spingono la gente a partire: si trattò di una scelta politica in controtendenza ma in linea con

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