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Intervista a David Gaborieau, ricercatore all'università Paris-Cité

«In tutti gli strati del movimento sociale si è alzato il livello di conflittualità»

David Gaborieau è ricercatore all’Università Paris-Cité. Sociologo del lavoro e dei gruppi sociali, è specializzato nell’analisi dei movimenti sociali e del mondo della logistica.

Il movimento contro la riforma delle pensioni è cominciato a fine gennaio, e sembra destinato a durare ancora a lungo. Cosa è successo in questi mesi?
Ci sono state varie fasi. All’inizio, c’è stata una fase che si potrebbe definire «cittadina» (citoyenne). Enormi manifestazioni, con 2, 3 milioni di persone per strada, ma non per forza delle giornate di sciopero a oltranza e di massa. Ha funzionato piuttosto bene, visto che quasi tutte le manifestazioni sono state estremamente partecipate. Tuttavia, è palese che ormai il potere politico non ascolta più questo tipo di mobilitazione. Lo si è visto nel prosieguo logico di questa fase, durante il dibattito all’Assemblée Nationale: c’era una seppur debole speranza che il parlamento prendesse in considerazione le rivendicazioni dei sindacati, aspirazione presto disattesa. Il governo ha ristretto il dibattito in modo caricaturale, utilizzando gli articoli 47-1 e 49-3 della Costituzione, rispettivamente per limitare severamente il tempo della discussione parlamentare e, poi, per impedire il voto sulla riforma. È a questo punto che è iniziata la seconda fase del movimento, in maniera quasi insperata.

In che senso?
La violenza simbolica esercitata dal governo ha rilanciato il movimento sociale. Il caso della gioventù è esemplificativo: fino a quel momento, la gioventù precaria non era riuscita a esprimersi nel quadro della mobilitazione. L’utilizzo del 49-3, invece, l’ha fatta uscire per strada. Il voto di fiducia ha reso palese l’insufficienza della mobilitazione cittadina e il movimento ha quindi cominciato a tracimare un po’ ovunque: cortei spontanei notturni, roghi della spazzatura, blocchi, picchetti. I blocchi in particolare sono stati impressionanti: blocco dei rifiuti, delle piattaforme logistiche, degli assi stradali… Nel momento in cui queste azioni molto dirette si sono scontrate con la repressione della polizia, il movimento è entrato in una terza fase, riattivandosi attorno al tema della violenza della polizia. Questo ha rimesso al centro del dibattito la questione della democrazia, che era sempre stata presente, ma che è emersa in primo piano, quando il movimento ha posto il problema della violenza di Stato.
La connessione coi Gilet gialli, è nelle pratiche: i blocchi, i cortei notturni, il fatto di far scattare queste azioni in reazione all’assenza di dialogo dello Stato
Che legami si possono tracciare tra i Gilets gialli e il movimento attuale?
Il tema delle pensioni, in un certo senso, attrae più consenso rispetto alle questioni che avevano mobilitato i Gilet gialli. Questi ultimi si erano attivati all’inizio per una tassa sulla benzina, ma molto rapidamente si erano concentrati sul funzionamento della democrazia e sulle violenze della polizia. Le pensioni sono un argomento che tocca in modo particolare il basso della classe media e le classi popolari stabili, sono loro che pagheranno il prezzo della riforma, che dovranno lavorare di più, che fanno lavori usuranti, che hanno dei salari bassi – in particolare, le donne, le persone tra i 40 e i 50 anni, popolazioni molto presenti nella provincia francese, cosa che secondo me spiega almeno in parte il successo della mobilitazione nei piccoli centri urbani. Là dove c’è una vera connessione coi Gilet gialli, è nelle pratiche: i blocchi, i cortei notturni, il fatto di far scattare queste azioni in reazione all’assenza di dialogo dello Stato, in tutto ciò c’è una vera continuità coi Gilet gialli. Oggi, nel movimento sociale francese, in senso largo, c’è un’accettazione, un’abitudine a pratiche più radicali che il semplice corteo sindacale. Si ha l’impressione che in tutti gli strati del movimento sociale, si sia alzato il livello di conflittualità.

Settori tradizionalmente poco sindacalizzati si sono resi protagonisti, come gli spazzini o gli autisti. Come mai? Che cosa significa?
È uno dei dati più interessanti di questo movimento: il modo in cui dei settori emergenti del mondo operaio cercano delle forme di mobilitazione. Dico ‘cercano’, poiché la forma ‘classica’ dello sciopero a oltranza, esteso su delle settimane o dei mesi, è estremamente complicata da attuare per dei lavoratori precari e poco sindacalizzati. Innanzitutto, bisogna comprendere che i settori che conosco meglio, cioè quello dei rifiuti e quello della logistica, hanno un punto in comune: sono tantissimi. Gli operai della logistica in Francia sono circa 1 milione, un quarto del totale degli operai, tanti quanti quelli dell’industria manifatturiera. È un dato strutturale, prodotto dall’evoluzione stessa del capitalismo. È inevitabile che questo dato si rifletta nel movimento sociale di oggi, ed è fondamentale includerli nella mobilitazione. Questo però implica un obbligo a far evolvere certe abitudini: questi operai sono diversi dalle generazioni precedenti, non hanno gli stessi percorsi, le stesse pratiche quando si mobilitano. È importante ascoltarli, prendere in considerazione le invenzioni che creano, accettare le pratiche che sviluppano, le quali, molto spesso, consistono nel blocco dei flussi.

Gli spazzini in particolare hanno sviluppato delle forme di blocco sorprendenti, con un livello di sviluppo tecnico molto elevato. Sono riusciti a far scattare degli scioperi paralizzanti con dei tassi d’adesione piuttosto bassi, attorno al 20-30% in media, ma organizzandosi molto bene, facendo sciopero ciascuno a turno, qui in un centro di raccolta, là in un deposito, altrove in un inceneritore, alternando i cicli di sciopero e di ripresa del lavoro, andando a cercare sostegni all’esterno per bloccare certi luoghi strategici in certi momenti precisi, sono riusciti a produrre questi enormi, impressionanti cumuli di spazzatura che hanno sepolto i marciapiedi parigini. Così facendo, sono riusciti a parlare al movimento sociale nel suo insieme, a fargli capire che per bloccare i flussi, in questo caso quello dei rifiuti, bisogna organizzarsi in un certo modo, con una certa tempistica, con un certo tipo di sostegno dall’esterno. Soprattutto, hanno fatto capire a tutti, fuori da ogni ambiguità, che anch’essi sono un settore strategico

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PETROLIO, OPEC E USA. La disputa tra Washington e Riad è evidente

Produzione tagliata. Nessuno obbedisce più agli Usa 

Pur di stringere con re Ibn Saud l’accordo «petrolio in cambio di sicurezza», il presidente Usa Roosvelt nel lontano febbraio 1945 rinunciò per due giorni all’amatissimo sigaro, detestato come l’acol dall’inflessibile monarchia wahabita. A cosa dovrebbe rinunciare oggi Biden per farsi obbedire dal tenebroso principe assassino Mohammed bin Salman? Riad con l’Opec e la Russia ha tagliato di oltre un milione di barili la produzione giornaliera di greggio puntando su un deciso aumento dei prezzi: esattamente il contrario di quello che gli americani chiedono dall’anno scorso alla monarchia saudita, un tempo il maggiore alleato Usa nella regione insieme a Israele.

Agli americani sulla politica energetica, ma anche sul resto, non obbedisce più nessuno, tranne gli europei che con l’aggressione di Putin all’Ucraina hanno sanzionato la produzione russa sia di gas che di greggio. Altri stati dell’Opec come Kuwait, Emirati Arabi Uniti – membro del Patto di Abramo con Israele – e l’Algeria hanno seguito la strada dell’Arabia saudita, mentre la Russia prevede di continuare a tagliare la produzione fino alla fine del 2023. Gli analisti si aspettano forti rialzi. La banca d’affari americana Goldman Sachs ha alzato le stime di prezzo del Brent a 95 e 100 dollari al barile rispettivamente per il 2023 e il 2024. Si tornerebbe così ai livelli dell’agosto scorso. I riflessi si vedrebbero anche sull’aumento dell’inflazione per i rincari dei carburanti e dei trasporti e il rischio è di vedere, dopo una breve tregua, di nuovo crescere i costi della borsa della spesa e quelli di bollette di luce e gas.

La disputa tra Washington e Riad è evidente. Nell’ottobre del 2022 la Casa Bianca aveva accusato l’Arabia Saudita di essersi schierata con la Russia perché, nonostante la crisi energetica, Riad sembrava agire dalla parte di Mosca. Poi i sauditi si sono irritati perché l’amministrazione Biden ha pubblicamente escluso nuovi acquisti di greggio per ricostituire le scorte strategiche statunitensi. In precedenza la Casa Bianca aveva assicurato all’Arabia Saudita tutto il contrario.

Dietro a tutto questo c’è un poderosa evoluzione geopolitica di una parte di mondo, sempre più multipolare, che non segue le direttive di Washington. Si tratta della presa d’atto che vent’anni di iniziative americane e occidentali in Medio Oriente, dalla guerra in Afghanistan a quella in Iraq, alla Libia, alla stessa Siria, sono finite in un disastro. Svanite le illusioni delle primavere arabe del 2011, andati in frantumi gli accordi di Obama con Teheran sul nucleare (cancellati da Trump), abbandonati e traditi i curdi, relegati i palestinesi in un’inaccettabile doppio standard che vìola regolarmente da decenni ogni risoluzione Onu, a Washington non resta che qualche sceicco, un generale, Al Sisi, che per tenere in piedi l’Egitto ha bisogno dei soldi sauditi e un alleato scomodo nella Nato come Erdogan, che fa di tutto pur di tenere in scacco l’Alleanza e mostrarsi ben intenzionato con Putin, senza mettere sanzioni a Mosca e mediando accordi sul grano indispensabili per non affamare il Sud del mondo.

Erdogan davanti a una folla di seguaci della destra dei Lupi Grigi, alleati del partito Akp e radunati in vista delle elezioni del 14 maggio, ha appena dichiarato senza mezzi termini che si «prepara a impartire una lezione agli Stati Uniti» e ha attaccato direttamente Biden perché l’ambasciatore Usa in Turchia ha fatto visita al rivale, il repubblicano Kemal Kilicadaroglu. Come è noto la leadership turca imputa agli Usa di avere partecipato con la rete di Fethullah Gulen (in esilio dal ’99 in Usa) al fallito colpo di stato nel luglio 2016. E allora a congratularsi con Erdogan per lo scampato pericolo fu Putin non gli alleati Nato della Turchia.

Sia chiaro: gli Stati Uniti non hanno certo mollato il Medio Oriente. La quinta flotta Usa è in Barhein, i contingenti di soldati americani sono dovunque, dal Qatar alla Siria all’Iraq, dove a venti anni dalla guerra del 2003 la Federal Reserve controlla ancora tutte le entrate petrolifere irachene. Senza contare che in Israele, nonostante un assetto sempre più illiberale, affluiscono copiosamente gli aiuti militari americani. Ma è evidente che i recenti accordi tra Arabia saudita e Iran, così come quelli che hanno sdoganato il siriano Assad nel mondo arabo, hanno incrinato la presa americana sul Golfo. Qui gli americani hanno un interesse principale: controllare i flussi energetici che vanno verso l’Asia e la Cina. A questo non vogliono rinunciare ma la missione è assai più complicata che imporre agli europei di sganciarsi dalla Russia e da quel North Stream 1 e 2 che era apertamente nel mirino degli Usa sin dal 2021, ben prima dell’invasione russa dell’Ucraina e dell’attentato. Certo il futuro non è roseo. Gli accordi tra Teheran e Riad sono tra due stati che hanno in comune la difesa di un ordine sociale oscurantista e patriarcale: un orizzonte nero come il petrolio

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COMMENTI. Il Papa affidato le sue intenzioni alla “rete mondiale di preghiera”. Una intenzione al mese, per tutto l’anno. Aprile è il mese dedicato alla preghiera “Per una cultura della nonviolenza”. […]

La primavera della nonviolenza: la preghiera del Papa, l’utopia di Lennon

 

Il Papa affidato le sue intenzioni alla “rete mondiale di preghiera”. Una intenzione al mese, per tutto l’anno. Aprile è il mese dedicato alla preghiera “Per una cultura della nonviolenza”.

In tutte le chiese cattoliche, durante le messe, si pregherà così: “Preghiamo per una maggiore diffusione di una cultura della nonviolenza, che passa per un sempre minore ricorso alle armi, sia da parte degli Stati che dei cittadini”.

Papa Francesco scrive correttamente “nonviolenza”, parola unica, come stabilito da Aldo Capitini per tradurre bene in italiano il “satyagraha” di Gandhi, la forza che è insita nella Verità. Nonviolenza, dunque, per usare le stesse parole di Francesco, come “stile di una politica per la pace”. Ora il Pontefice si augura che la cultura della nonviolenza (storicamente quella sperimentata e teorizzata da L. Tolstoj, M.K. Gandhi, K.A. Ghaffar Khan, M.L. King, e nella tradizione cattolica da Gesù, Francesco d’Assisi, e poi nei tempi moderni da Giovanni XXIII e Madre Teresa di Calcutta) si diffonda sempre più e per questo ha dato vita al Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, per promuovere la pace in tutti gli ambiti dell’esistenza pubblica e sociale. Ma la cultura della nonviolenza, per trovare spazio, deve contrastare la cultura della violenza, delle armi, della guerra.

È un programma impegnativo, che punta direttamente alla riduzione degli armamenti, dunque delle spese per la difesa, sia collettiva che personale. Meno armi per gli eserciti, meno armi nelle case. Sarebbe già un bel passo in avanti: un obiettivo politico realistico, non un’utopia irenica.

Le parole che il Papa ha usato nel video che accompagna l’intenzione di preghiera sulla Nonviolenza, sono ben ponderate: “ogni guerra, ogni scontro armato, finisce con l’essere sempre una sconfitta per tutti; anche nei casi di legittima difesa, l’obiettivo è la pace. Una pace duratura può essere solo una pace senza armi”.

Per capire il pieno e profondo significato delle scelte di preghiera del Papa, bisogna scorre anche le altre intenzioni, mese dopo mese, e ne esce un mosaico che dà bene l’idea che Francesco ha della nonviolenza. Nel corso dell’anno si prega per gli educatori alla fraternità anziché alla competizione, per le vittime di abusi, per l’abolizione della tortura, per gli emarginati, per l’inclusione delle persone con disabilità. Il mese di novembre il Papa lo riserva alla preghiera per se stesso, per essere aiutato nella sua missione.

Passando dal sacro al profano, è significativa la coincidenza che esattamente 50 anni fa un altro leader pacifista, laico, scelse il mese di aprile per lanciare il suo messaggio nonviolento.

Era il primo aprile del 1973 quando John Lennon, in una affollatissima conferenza stampa a New York, annunciò la nascita di un paese concettuale, Nutopia: uno stato senza terra, né confini, né passaporti, senza esercito, solo persone, basato esclusivamente sulle leggi cosmiche. La bandiera di Nutopia è un fazzoletto bianco, e l’inno è una traccia muta con 5 secondi di silenzio  Lennon, come suo ambasciatore, chiese l’immunità diplomatica e il riconoscimento alle Nazioni Unite del paese di Nutopia e del suo popolo, formato da tutti coloro che vogliono farne parte.

C’è un filo culturale e spirituale che lega l’idea di Nutopia alla rete mondiale di preghiera: la diffusione della cultura della nonviolenza, da John Lennon a Papa Francesco, oggi coinvolge credenti e atei, religiosi e laici.

Per Gandhi la preghiera è una forza di azione nonviolenta: “Credo che la preghiera silenziosa sia spesso una forza più potente di ogni atto. La preghiera è come ogni altra azione, porta frutto, che ce ne accorgiamo o no, e il frutto della preghiera sincera è assai più potente della cosiddetta azione.  Propriamente compresa e applicata, la preghiera è lo strumento d’azione più potente”. Le vie della nonviolenza sono infinite.

* Presidente del Movimento Nonviolento

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INTERVISTA. Antonio Casilli, autore di «Schiavi del Clic»: «Dietro questa tecnologia c'è un'enorme quantità di lavoro sui dati fatto da grandi masse di persone. C’è un filo rosso che lega chi allena ChatGpt e i suoi utilizzatori. Ci sono tante persone che lo fanno gratis, mentre dalle Filippine al Kenya c’è chi lo fa quasi gratis»

 

Nel comunicato del garante della Privacy che blocca l’assistente virtuale ChatGpt c’è un passaggio illuminante in cui si osserva che l’illecita raccolta dei dati personali avviene in mancanza di una «base giuridica» e «allo scopo di addestrare gli algoritmi sottesi al funzionamento della piattaforma».

L’«addestramento» è stato effettuato dagli utenti di questo software che, stimolati dalla stupefacente operazione di marketing basata sull’immaginario apocalittico della sostituzione del lavoro, e persino degli esseri umani, da parte dei robot nelle ultime settimane hanno lavorato gratuitamente, e probabilmente inconsapevolmente, allo sviluppo di ChatGpt bombardandolo con le richieste più singolari e divertenti. Ciò ha permesso alla società OpenAI che ha lanciato anche ChatGpt, fondata a San Francisco nel 2015, di raccogliere fondi da decine di miliardi di dollari, e investimenti cospicui da parte di Microsoft.

Oltre alle questioni legate alla privacy, e all’intelligenza artificiale presentata con una dose di pensiero magico, c’è il «machine learning», i sistemi di apprendimento macchinico attraverso i quali un’altra forza lavoro diffusa nel Sud globale preleva e raffina i dati che permettono di migliorare il rendimento di un software adattandolo ad altri contesti e prodotti. Al centro di questo sistema c’è la forza lavoro, la merce più preziosa per il capitalismo digitale, quella che alimenta l’inesausta produzione di dati sia a monte che a valle di un’intelligenza che è artificiale nella misura in cui è prodotta dall’interazione con gli umani. È pronta a produrre volontariamente il valore quando è stimolata da un hype pubblicitario pazzesco.

La forza lavoro è il lato oscuro del capitalismo digitale. O meglio, diciamo in chiaroscuro. Perché il suo ruolo non è del tutto ignoto. Alcuni ricercatori di OpenAI lo hanno parzialmente raccontato in uno studio di 60 pagine pubblicato il 23 marzo scorso in cui descrivono anche il lavoro fatto per migliorare l’algoritmo. Il lavoro sul «modello linguistico» è stato realizzato attraverso test ostili che hanno tentato di costringere l’Intelligenza Artificiale relazionale a esprimersi in maniera pericolosa, controversa o illegale. Questi tipi di test sono usati per limitare l’attività dei software e impedirgli di riprodurre atteggiamenti pregiudiziali, violenti o anche razzisti che vengono trascinati nel corso della «mietitura dei dati» in quantità mai vista e realizzata anche a partire dalle piattaforme digitali più comune.

«Davanti a una raccolta dati di queste dimensioni va fatta una constatazione. I dati non possono essere usati allo stato grezzo – osserva Antonio Casilli, professore all’Institut Polytechnique de Paris e autore di Schiavi del clic. Perché lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo? (Feltrinelli) – Hanno bisogno di essere filtrati, selezionati e arricchiti. Chi fa questo lavoro di selezione sono esseri umani malpagati per fare il data work. Nel caso di ChatGpt c’è stato prima un lavoro di pre-addestramento tra le Filippine, la Turchia, l’India, il Sudafrica e il Kenya. Di quest’ultimo caso ha parlato il Time il 18 gennaio scorso. A noi utenti è toccato il post-addestramento in cui abbiamo fornito una serie di dati personali».

In che modo?
Quando ChatGpt ti dà una risposta appare un pollice elevato e uno abbassato che permettono di dire se la risposta è di buona o cattiva qualità. Tu stesso stai annotando dati che vengono immessi in un data base e usati per riaddestrare l’intelligenza artificiale. C’è un filo rosso che lega chi addestra questo assistente virtuale in tutto il mondo e i suoi utilizzatori. Solo che ci sono tante persone che lo fanno gratis, mentre altrove altre lo fanno quasi gratis, per pochi centesimi o dollari. Del resto lo dice l’acronimo stesso di ChatGpt. La “P” significa «pre-trained», cioé «pre-addestrati». Dietro questa tecnologia c’è un’enorme quantità di lavoro sui dati fatto realizzato da grandi masse di persone».

Più che la sostituzione degli esseri umani da parte dei robot qui stiamo parlando di esseri umani che lavorano per le aziende che producono «intelligenza artificiale». È così?
Sì, nello studio sulla scheda di sistema GPT-4, OpenIA di cui stiamo parlando ha pubblicato una prima stima del numero di posti di lavoro che sarebbero stati esposti a un’intelligenza artificiale, l’80 per cento sarebbero stati trasformati o forse addirittura eliminati da ChatGpt e altre tecnologie. In realtà stiamo assistendo a tutt’altro processo: tanti più posti di lavoro cerchi di sopprimere nell’ambito del lavoro formalmente inquadrato, tanto più saranno creati micro-lavori ultra-precari nel mondo per fare esistere tecnologie come ChatGpt. Anche questo software si trova alla fine a precarizzare il lavoro che c’è e che ci sarà sempre

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CUBA. C’è un Paese che qualche mese fa ha ratificato con un referendum il nuovo Codice delle famiglie. Una normativa decisamente avanzata su diritto di famiglia, diritti riproduttivi, lotta alla violenza […]

Nuovo diritto  delle famiglie,  l’esempio «lontano» 

C’è un Paese che qualche mese fa ha ratificato con un referendum il nuovo Codice delle famiglie. Una normativa decisamente avanzata su diritto di famiglia, diritti riproduttivi, lotta alla violenza di genere negli spazi domestici, diritti delle bambine e dei bambini, genitorialità. E con un processo di partecipazione che ha coinvolto la popolazione in un dibattito senza precedenti. Nel 2018 il governo indice una consultazione popolare per un nuovo progetto di Costituzione.

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Cuba si gioca la sua Carta fondamentale

All’elaborazione dei 224 nuovi articoli contribuisce la comunità LGBTIQ+, che riesce a incidere nella definizione dell’agenda con nuovi: la democratizzazione delle relazioni sessuali e sentimentali, la pluralità delle identità di genere, il ruolo della socializzazione e dell’educazione alla sessualità e alla salute sessuale e riproduttiva diventano argomenti di discussione fino a quel momento inediti. La bozza di Costituzione del 2018 arriva ad includere un articolo particolarmente innovativo, il 68, che rivoluzionava la tipizzazione del matrimonio definendolo una «unione tra due persone». Il superamento del paradigma eterosessuale dell’istituto. L’art. 68 divenne il centro delle polemiche più accese, discusso durante il 66% delle riunioni di consultazione.

Al termine di un confronto acceso, si è deciso di riconoscere nella carta costituzionale il diritto all’uguaglianza e alla non discriminazione in base all’identità di genere e all’orientamento sessuale, senza che questo intervenga nella definizione dell’istituto del matrimonio. Un passo indietro rispetto alla proposta iniziale del governo sul matrimonio come «unione tra due persone», e un passo in avanti per il dibattito che c’è nel mondo su questo tema. Inoltre la discussione costituzionale ha generato la necessità di redigere un nuovo Codice delle famiglie.

Tre anni e mezzo e 25 versioni dopo, il Codice delle famiglie ha visto la luce. Il processo di consultazione ha portato 6.481.200 persone a partecipare con 336.595 interventi in oltre 79.000 incontri, che hanno modificato il 49 del contenuto del progetto. Il voto del 25 settembre 2022 ha visto la vittoria del “sì” con il 66,85% dei voti. Una maggioranza importante e una minoranza considerevole, che dimostrano quanto l’esito non fosse scontato.

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Rivoluzione cubana dei diritti. Sì ai matrimoni gay e non solo

Il testo riconosce la possibilità del matrimonio egualitario e stabilisce anche il diritto di tutte le persone ad adottare. Include la violenza domestica, e in particolare la violenza contro le donne e le ragazze, e stabilisce che tutte le questioni di discriminazione e violenza debbano essere soggette ai meccanismi di protezione urgente. Descrive in dettaglio l’assistenza e la protezione dei minori in caso di divorzio o separazione e in situazioni di emergenza. Il Codice tutela anche i legami familiari non consanguinei, stabiliti da relazioni filiali adottive e socio-affettive, garantendo al contempo i diritti di multigenitorialità. Riconosce la diversità delle famiglie di fatto, in qualsiasi forma di riconoscimento giuridico (matrimonio o unione di fatto), e tutela i «terzi genitori», ovvero i partner dei genitori biologici e i conviventi effettivi nei casi di separazione. Inoltre, stabilisce la possibilità di pattuire diversi accordi economici per il matrimonio (comunione dei beni o regimi patrimoniali misti), proibisce il matrimonio infantile innalzando l’età del matrimonio ai 18 anni, e fornisce garanzie per i caregiver.

Tre i contenuti più discussi: il riconoscimento della possibilità di maternità surrogata, dettagliatamente regolamentata e limitata ai casi di gestazione solidale; l’eliminazione della figura giuridica della «potestà genitoriale» a favore della «responsabilità genitoriale», che deve garantire sempre l’interesse del minore; e il riconoscimento della progressiva autonomia di bambine e bambini, che afferma il diritto dei minori a essere ascoltati e protetti nella loro integrità fisica ed emotiva.

La famiglia, anzi le famiglie, non sono un sistema chiuso e non hanno una struttura unica: tutelarle tutte significa riconoscerne le identità e non svalutarne l’entità morale. Che è di natura plurale e mette al centro l’affetto, il rispetto reciproco, la solidarietà e l’assistenza mutua. In altre parole, la felicità dei suoi componenti.

Tutto questo è avvenuto su un’isola lontana, spesso accusata di machismo e di autoritarismo. A Cuba, che non solo resiste, ma pratica il cambiamento, giorno dopo giorno, tra difficoltà economiche determinate dal blocco Usa, interpretando la modificazione degli stili di vita e i bisogni della propria popolazione. Anche affettivi e sessuali.

Una bella lezione di civiltà che, appunto, viene da lontano

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REPUBBLICHINO DI STATO. Si avvicina il 25 aprile, la festa della Liberazione, la primavera della nostra democrazia rinata dopo vent’anni di feroce dittatura mussoliniana, dopo una guerra scatenata dal nazifascismo. Una festa nazionale, […]

Cancellano la nostra vera storia

Si avvicina il 25 aprile, la festa della Liberazione, la primavera della nostra democrazia rinata dopo vent’anni di feroce dittatura mussoliniana, dopo una guerra scatenata dal nazifascismo. Una festa nazionale, popolare, fondativa che già nel primo decennio degli anni Duemila gli improbabili liberali berlusconiani volevano candeggiare dalle macchie comuniste ribattezzandola, non più festa non della Liberazione ma della Libertà. Poi bastò che il Cavaliere si arrotolasse attorno al collo il fazzoletto partigiano perché tutti apprezzassero il geniale spot e tirassero un sospiro di sollievo. Il maldestro tentativo revisionista non riuscì ma era solo rinviato.

La peggior destra europea, oggi al governo del paese, torna a battere quella strada. Meloni e i suoi sodali ci riprovano procedendo sul doppio binario di Patria e Famiglia. Vogliono tagliare le radici antifasciste della Repubblica, sfigurando la cultura costituzionale del paese. Vogliono ripulire dalle infiltrazioni moderniste i rapporti tra le persone cancellando i diritti civili, negando l’emancipazione sessuale di uomini e donne.

Questa destra, dobbiamo saperlo, procede con metodo, lucida intelligenza, tracotante sicumera. Come se la vittoria elettorale, il consenso popolare (piuttosto

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