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CRISI UCRAINA. Cos’è la guerra in Ucraina ce lo ripete il capo di Stato maggiore Usa Mark Milley. Ora la conferma dei «leaks» della realtà sul campo. Mentre amici e alleati non sono più tali e vanno spiati

La «talpa» del Pentagono non è un segreto

La «talpa» della fuga di notizie dal Pentagono che tutti negli Stati uniti stanno cercando, in realtà l’abbiamo già: è lo stesso capo di stato maggiore americano Mark Milley. Milley da mesi – anche cn una narrazione diversa sull’andamento del conflitto – avverte che questa guerra non può terminare con i soli mezzi militari e con la vittoria di uno dei due belligeranti.

In un’intervista a febbraio al Financial Times aveva ripetuto la previsione già avanzata il 20 gennaio scorso a Ramstein, in Germania, a conclusione del vertice dei 54 Paesi che forniscono armi a Kiev. In sintesi: i russi non sono in grado di sopraffare gli ucraini ma è molto difficile che entro il 2023 l’esercito di Zelensky riesca a riconquistare il territorio invaso dall’armata putiniana dal 24 febbraio 2022 in poi.

Anche senza i “leaks” non potevamo dire di non sapere. I documenti del Pentagono riservati, pubblicati sui social media, confermano la visione di Milley delineando un quadro pessimistico degli Stati Uniti sull’andamento della guerra in Ucraina.

I DOCUMENTI, nella spiegazione della Cnn, evidenziano difetti negli armamenti e nelle difese aeree dell’Ucraina e prevedono uno stallo della guerra per i mesi a venire. In particolare, i

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SANITÀ. Con un governo di destra stiamo assistendo, paradossalmente, ad un fenomeno politico che riguarda prima di tutto la sinistra, quella che una volta si chiamava di governo e in particolare […]

 

Con un governo di destra stiamo assistendo, paradossalmente, ad un fenomeno politico che riguarda prima di tutto la sinistra, quella che una volta si chiamava di governo e in particolare tutti coloro (deputati, presidenti, assessori, funzionari, tecnici, esperti) che fino a prima di Meloni, soprattutto nel Pd, hanno avuto una qualche responsabilità in sanità. Autori di politiche fallimentari, oggi sotto gli occhi di tutti, purtroppo autori non pentiti, dai quali ci si aspetterebbe non dico autocritica ma almeno un po’ di resipiscenza.

Tutti quelli che in qualche modo hanno rovinato la nostra sanità pubblica oggi non si pentono proprio di niente, neanche di aver privatizzato la sanità, neanche di averla condannata alla diseguaglianza. Niente di niente.
Due sono gli esempi notevoli di questa specie di “apologia di reato”, il primo è un appello: “La sanità pubblica è sotto attacco. Difendiamola” firmato dal Movimento per la Sanità Pubblica, nel quale praticamente si propone di riverniciare la casa neoliberale della sanità modello Pd. Cioè si propongono alcuni aggiustamenti marginali di quello che c’è, ma a contraddizioni economiche, sociali e organizzative invarianti. Di fatto una riconferma delle contro riforme degli anni ’90, in primo luogo quella che lo stesso appello denuncia come un pericolo, vale a dire l’universalismo selettivo del quale alcuni autorevoli firmatari dell’appello sono stati i primi sostenitori.

In fin dei conti l’appello chiede al governo semplicemente di rifinanziare il vecchio progetto neoliberale del Pd.
Non sorprende infatti di non trovarvi traccia di una parola critica su questa buffonata del Pnrr, al punto da rendere legittimo il sospetto che i suoi ispiratori siano gli stessi che lo hanno scritto ai tempi dell’ex ministro Speranza .

Il secondo esempio lo offre Gimbe, autorevole fondazione di diritto privato che tutti conoscono. Da una parte si lamenta che in sanità tutto si riduce a contingenza per poi proporre un piano che più in là della contingenza non riesce ad andare perché tutte le contraddizioni che ci hanno portato al capolinea anche da Gimbe non vengono toccate. Ma allora che senso ha proporre un piano se si rifiuta di riformare tutto quanto ci ha messo in crisi?
Tra appelli e piani per salvare la sanità non mancano le proposte di rivoluzione copernicana, ma suonano fasulle perché hanno in comune l’obiettivo di mantenere invariate le grandi contraddizioni che stanno demolendo la sanità, accreditando l’idea che queste contraddizioni, anziché rimuoverle come ci insegnano Gramsci e Marx, sia possibile addirittura disciplinarle.

Ma come è possibile disciplinare la contraddizione tra diritto fondamentale e diritto potestativo? O quella tra sgravi fiscali al privato e tagli lineari al servizio pubblico? Quindi la grande marchetta? Come si fa a disciplinare la contraddizione che esiste tra il fare salute per mezzo della prevenzione pubblica e la privatizzazione della sanità concepita per fare profitto? Come si fa a tenere insieme uno Stato che non ha nessun interesse alla salute pubblica perché il suo unico interesse è appaltare la cura al privato?

Personalmente penso che per salvare la sanità pubblica oggi ci vorrebbe un movimento popolare convocato su una idea di riforma, quindi convocato da una sinistra credibile, con le idee chiare. Ma come si fa a chiamare il popolo in piazza proponendogli le bufale del passato, gli appelli farlocchi , i piani senza strategie e le finte rivoluzioni?

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L'ARTICOLO. L'attuale legge elettorale, voluta da tutti i partiti e imposta con la fiducia dal governo Gentiloni produce un vasto numero di parlamentari nominati che non rispondono più ai cittadini

Senza partiti forti la democrazia si spegne Un’opera di Renato Mambor

Sono numerosi i segnali della crisi della democrazia nel mondo. Vi sono nazioni in cui essa, intesa come libera scelta dei propri rappresentanti e governanti, è esclusa per principio e per legge.

La sua instaurazione costituisce la speranza di minoranze attive, anche se perseguitate. Ove, invece, la democrazia è costituzionalmente prevista, come nel nostro paese, risulta indebolita e corre pericoli di ulteriore erosione.

Le ragioni sono molteplici, ma la principale sta nella concentrazione in poche mani di ricchezze prevalentemente finanziarie o alimentate dall’industria delle armi. Ne conseguono poteri che, attraverso la manipolazione dell’informazione, il finanziamento dei partiti, forme variegate di corruttela, stabiliscono politiche contrarie agli interessi e, non di rado, ai valori della maggioranza dei cittadini. Ne deriva la mediocrità della politica che si riflette sulle istituzioni allontanando i cittadini elettori.

Franklin Delano Roosevelt

«La libertà della democrazia non è sicura se il popolo tollera la crescita del potere privato al punto in cui diventa più forte del suo stesso stato democratico. E’ questo, nella sua essenza, il fascismo – la proprietà delle istituzioni nelle mani di un individuo, di un gruppo»

Affermava Franklin Delano Roosevelt: «La libertà della democrazia non è sicura se il popolo tollera la crescita del potere privato al punto in cui diventa più forte del suo stesso stato democratico. E’ questo, nella sua essenza, il fascismo – la proprietà delle istituzioni nelle mani di un individuo, di un gruppo». Occorre reagire. Prendiamo ad esempio l’Italia.

Il momento potrebbe essere adatto per mettere in pratica gli antidoti visto che i due principali partiti potenzialmente critici di questo stato di cose, il M5S e il Pd, hanno subito dei rivolgimenti interni tali da consentire un’inversione di rotta che renda prioritario l’impegno democratico.

Immaginiamo che Giuseppe Conte ed Elly Schlein, insieme con coloro che hanno sostenuto la loro ascesa nei rispettivi partiti, vogliano rivolgersi a quella maggioranza relativa di cittadini che, nei sondaggi di opinione, si dichiara estranea alla politica e che, in misura variabile ma crescente, diserta le urne.

La prima condizione per motivare e favorire la partecipazione democratica è la consapevolezza della gravità dell’involuzione in atto e – condizione essenziale – della corresponsabilità passata dei soggetti che ora vorrebbero porvi rimedio.

Per dirla con una battuta purtroppo non lontana dalla realtà, se chiedessimo a dieci passanti quali sono le forme più odiose di associazione umana, la maggioranza di essi risponderebbe: le reti di pedofilia, la criminalità organizzata e, buoni terzi, i partiti politici. Quei passanti sono maggiormente motivati ad occuparsi di pane e di pace che a loro mancano in misura crescente e a cui i partiti sembrano indifferenti.

Pur con questa consapevolezza, è la libertà, di cui ancora disponiamo, che può assicurarci un cambiamento. E, per quanto oggi degenerati ed indeboliti, l’esistenza e lo sviluppo di partiti di diverso orientamento politico costituiscono una condizione essenziale, un sine qua non, di ogni democrazia.

Con quali proposte, in quale ordine prioritario, un partito politico può presentarsi e, addirittura promuoversi, presso i cittadini potenzialmente elettori o, addirittura, militanti?

Il primo obiettivo non può che essere quello di restituire loro il diritto di scegliere i propri rappresentanti parlamentari, poco importa se attraverso il ritorno ad un sistema proporzionale o maggioritario, comunque tale da individuare – come nel caso del c.d. Mattarellum – le persone in competizione che chiedono loro consenso.

Invece, l’attuale legge elettorale, voluta da tutte le segreterie di partito, con relativi capi corrente, e imposta con un voto di fiducia dal governo Gentiloni, produce, attraverso listini e premio di maggioranza, un numero cospicuo di parlamentari nominati che rispondono non ai cittadini che dovrebbero rappresentare bensì ai pochi «potenti» che li hanno selezionati.

In secondo luogo, risulta sempre più urgente attuare l’art. 49 della Costituzione che prescrive regole di democrazia interna ai partiti tali da rendere trasparente ogni aspetto del loro funzionamento e più disagevole l’attuale gestione autoritaria, clientelare e correntizia degli equilibri interni di potere. E l’affacciarsi dell’intelligenza artificiale, ad un tempo minaccioso e promettente, può essere addomesticato? Questi ed altri interrogativi ipermoderni – guerre diffuse, deterioramento del pianeta, migrazioni di massa, oltre alla rivoluzione tecnologica in atto – richiedono la piena e vigorosa attuazione di quanto previsto dai padri e dalle madri costituenti.

È evidente come la riforma democratica dei partiti ponga anche la questione dei loro finanziamenti, tema ineludibile, anche se particolarmente delicato per lo stato di allarme e di insofferenza diffuso nell’opinione pubblica a tale riguardo.

Basti tenere presente il caso degli Stati Uniti in cui i costi elevati della politica, l’abolizione del finanziamento pubblico e di ogni limite ai finanziamenti privati costituiscono un elemento di oggettivo indebolimento della democrazia, peraltro vulnerabile su molti altri fronti.

Per nostra fortuna la legge tuttora vigente in Italia sulla par condicio vieta l’acquisto di spazi pubblicitari nel corso della campagna elettorale, così limitando i costi della politica. Tuttavia, la strutturazione dei partiti, finora tema eluso dal M5S e indebolito nel Pd, richiede finanziamenti che dovrebbero provenire dagli iscritti, con l’esclusione di contributi di enti privati, ma con il concorso di finanziamenti pubblici soggetti a regole di trasparenza.

A quando l’inizio di una discussione di questa natura, a cominciare da coloro che mostrano disponibilità a (ri)accostarsi alla politica?

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PALESTINA. Intifada popolari, diplomazia a perdere, lotta armata dalla vita breve, attacchi individuali: nulla ha scalfito il sistema di segregazione israeliano. Perché questi "fallimenti" hanno un responsabile: la complicità internazionale verso il colonialismo d’insediamento, di cui oggi sono volto sia il governo di estrema destra sia le proteste israeliane contro Bibi

 Palestinesi sopra il muro di separazione israeliano - Ap

Venerdì sera le notizie si inseguivano confuse. Un attentato a Tel Aviv, una sparatoria, poi un’auto lanciata sulla folla. Quattro feriti, sette, un morto, un italiano, Alessandro Parini. Ieri i dubbi sulla terribile vicenda non si erano dissipati, neppure per la polizia israeliana: attentato, dunque atto volontario, o drammatico incidente.

Resta una certezza: la questione israelo-palestinese non è relegata a quel pezzo di terra, ha conseguenze nella regione e nel mondo.

Non è la prima volta che un cittadino italiano le subisce. Nel marzo 2002 il fotoreporter Raffaele Ciriello fu abbattuto da una raffica di mitra dell’esercito israeliano durante l’assedio di Ramallah, in piena Seconda Intifada. Nell’agosto 2006 Angelo Frammartino, volontario, morì accoltellato da un palestinese nella Città Vecchia di Gerusalemme.

E NELL’APRILE 2011 l’attivista Vittorio Arrigoni fu rapito e ucciso da una banda di islamisti nella Gaza diventata sua seconda casa. Non solo italiani, una su tutti la statunitense Rachel Corrie schiacciata da un bulldozer israeliano a Rafah, venti anni fa.

La questione palestinese è globale. Lo è per l’effetto destabilizzante che continua ad avere in Medio Oriente ma soprattutto per le contraddizioni che squarcia in un Occidente che

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L'INIZIATIVA. Compito della politica è costruire una tregua delle armi con la diplomazia e il dialogo tra Usa, Europa e Cina. La guerra ucraìna o finisce «a tavolino» o s’infrange il tabù nucleare

 Un'opera di Banksy

Se c’è una parola che fino a poco più di un anno fa univa tutti, ed oggi divide. Se c’è una parola che trovava consenso trasversale ed oggi dissenso, una parola che richiamava un sentimento di fratellanza ed oggi di diffidenza, ecco, questa parola è: pace.

La guerra in Ucraina ha relegato la parola pace ai buoni sentimenti, pronunciata solo dagli ingenui che non sanno di cosa parlano, una parola che se usata troppo spesso innesca un sospetto di sostegno all’invasore Putin.

Viene in mente l’apologo riferito da Erasmo da Rotterdam, che un giorno vide passare un plotone di soldati ed accanto a lui c’era il “matto del villaggio”. «Dove vanno?» chiese il matto. «A fare la guerra», rispose Erasmo. «E dopo che l’avranno fatta?» riprese il matto, «Verrà la pace» rispose l’umanista, «E perché non cominciare subito a fare la pace?» concluse il “matto”. Ed Erasmo dovette ammettere che quel poveretto era l’unico a ragionare saggiamente.

Per questo i giovani delle Acli hanno organizzato e presentato alla Camera il progetto «Riscoprire la Pace: l’umanità e il dialogo come risorsa». Un percorso già iniziato da tempo, che farà tappa in cento città d’ Italia e d’Europa per parlare con i più giovani e tra giovani di pace, di un dialogo necessario, alla riscoperta dei valori della non violenza, della risoluzione dei conflitti sperando in una nuova fratellanza umana.

Percorso che finirà a novembre, a Parigi, con una grande Conferenza di Pace animata da giovani di tutta Europa. Questa iniziativa è stata pensata e voluta per andare contro l’idea comune a cui ci stiamo abituando tutti per cui la guerra si ferma solo con le armi, e per controbattere ad un clima ed un linguaggio solo di guerra. Stiamo assistendo ad un atto, questa invasione, fuori dalla storia, come giustamente ha detto il Presidente Mattarella e che già ora produce conseguenze tragiche. Nello stesso tempo vediamo una regressione delle relazioni internazionali, con un aumento ingiustificato di spese militari e la costruzione di centinaia di chilometri di mura ai confini tra paesi.

C’è una differenza sostanziale tra la difesa giusta ed entrare in un clima di guerra, in un’economia di guerra, in una giustizia di guerra, una politica di guerra.

A chi stiamo rispondendo: ad un popolo ferito oppure ad altri interessi? Perché quel popolo vuole la pace, merita la pace. La pace poi, non potrà che essere giusta. Ma non dobbiamo vivere nell’illusione che una pace giusta sia quella che ripristina le cose come prima, ciò non potrà mai avvenire. La pace la si fa con ago e filo, ricucendo le ferite e sperando che possano smettere di sanguinare.

Nulla sarà mai come prima. Il compito della politica è costruire la pace partendo da una tregua delle armi e rinnovando in modo forte la diplomazia internazionale partendo da un dialogo tra Usa, Europa e Cina. Oggi gli sforzi devono essere concentrati sulla fine di questa invasione, nella consapevolezza che questa guerra o finisce «a tavolino» o rischia di far saltare il tabù nucleare.

La guerra non serve a nessuno. Non alla Russia, che ormai ha capito che non potrà affermare la sua forza nei territori di competenza ex-Urss; né all’Ucraina che vede morire i propri figli e devastare le proprie città. Non conviene certo all’Europa che ha una voce flebile e sta diventando ostaggio delle nazioni dell’est più sovraniste.

Allora forse è vero che questa guerra finirà solo quando Cina e Stati uniti faranno un’azione congiunta in tal senso. Se così è, gli interessi della pace non sono dei cittadini che muoiono ma sono «interessi altri».

In questi giorni cade il sessantesimo anniversario della grande enciclica “Pacem in terris”, che fu in qualche modo il testamento spirituale di Giovanni XXIII. Con questa enciclica il «papa buono» metteva in evidenza per la prima volta il concetto di pace come idea integrale, come centralità dei diritti della persona umana, come realizzazione del bene comune e promozione e tutela della dignità e dei diritti originari ed inviolabili di ogni essere umano, evidenziando come a violare la pace non siano solo i conflitti armati fra Stati ma anche lo sfruttamento dei lavoratori, le discriminazioni e le violenze contro le donne, il rifiuto dei migranti, il razzismo e la tratta degli esseri umani…

Ed è vero in particolare, in questo tempo di aprile, il periodo in cui gli ebrei celebrano la loro Pasqua, per rievocare un cammino di liberazione dalla schiavitù attraverso il deserto, mentre i cristiani di ogni denominazione fanno memoria della passione e della risurrezione di Cristo, e gli islamici vivono il momento di purificazione del Ramadan, tutti insieme tendendo verso una nuova speranza di pace e di giustizia.

E allora forse la logica del “matto” di Erasmo, che è la stessa di papa Giovanni, di papa Francesco – che ieri sera nella Via Crucis dedicate a tutte le guerre ha voluto una testimonianza sia ucraina che russa – e di tante e tanti donne e uomini di buona volontà, non ci sembrerà più tanto strana e paradossale.

* L’autore è Presidente delle Acli

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NUOVO CORSO DEM . Sfidare e mobilitare il Pd nelle idee e nelle proposte. Mettere alla prova le sensibilità ridando peso, spazio e respiro a un vero confronto politico e culturale

La vera partita del Pd comincia adesso, alla prova i nuovi assetti Partito Democratico - LaPresse

Dopo una faticosa trattativa, si sono definiti i nuovi assetti del gruppo dirigente che affiancherà Elly Schlein alla guida del Pd. Appaiono fuorvianti quei commenti che leggono questa vicenda sotto il segno della sempiterna disputa tra il leader e i condizionamenti delle correnti. Era del tutto irrealistico pensare che la nuova segretaria, solo sulla base del consenso ricevuto, potesse praticare uno stile decisionista, della serie “non guardare in faccia nessuno”, e sottrarsi all’onere di una mediazione interna.

Fuori da ogni ipocrisia, bisogna comprendere come l’attuale logica correntizia sia l’unico modo con cui può funzionare questo Pd; è un dato strutturale, non dipende dalla buona o cattiva volontà di qualcuno. Solo un lungo lavoro di ricostruzione e riconversione potrà modificare la “costituzione formale” e poi quella “materiale” del partito.

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

Elly Schlein e le prospettive che si aprono a sinistra

Lo stesso commissariamento del partito campano conferma una condizione di emergenza che, in quella regione, si protrae da tempo. E forse va ricordato un aspetto spesso sottovalutato del regime di governo del Pd: per votare il segretario nazionale non occorre essere iscritti, ma per eleggere gli organismi dirigenti locali (che poi decidono sulle candidature), i pacchetti delle tessere contano, eccome. Da qui l’importanza di una gestione trasparente delle iscrizioni. Sarà questo il duro lavoro che spetta ai commissari campani, ma è un problema che, prima o poi, si porrà in molte altre situazioni.

La partita vera comincia adesso. Vedremo se

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