Accedi Registrati

Login to your account

Username *
Password *
Remember Me

Create an account

Fields marked with an asterisk (*) are required.
Name *
Username *
Password *
Verify password *
Email *
Verify email *

COMMENTI. Siamo sicuri che si sia votato solo per eleggere la segretaria di un partito «di elettori e di iscritti» o piuttosto la possibile leader di una opposizione che manca alle destre e al loro governo?
Elly Schlein: una svolta, circondata da molti «ma» Elly Schlein - foto Ansa

Schlein, Landini, Conte: una foto di gruppo diventata una icona sullo sfondo della solatia giornata che ha salutato la grande manifestazione antifascista di Firenze, carica di significati densi e attualissimi. Tre volti, tre figure che potrebbero rappresentare un possibile schieramento d’opposizione che si rapporta a una dimensione sociale e, a sua volta, una proposta di coalizione sociale, annunciata ma fin qui trascurata, che riprende fiato e corpo in relazione con una dimensione politica senza confusione di ruoli. Eppure ci sono molti «ma» che ci separano da un simile wishful thinking. E i«ma» stanno soprattutto sul versante Schlein nella sua qualità di ultima arrivata senza che ce ne accorgessimo – come si è autodefinita. In effetti l’esito dei gazebo è stato per i più, una sorpresa.

LA REDAZIONE CONSIGLIA:
Schlein,la pericolosa bolscevica che non ama il Jobs act

Che però, a guardar bene, deriva più da una nostra ottica sbagliata che non da una straordinaria performance della nuova segretaria. È come se avessimo introiettato il fatto che dopo che le precedenti primarie avevano sempre confermato il dato uscente dal voto «interno», così sarebbe successo anche stavolta. In realtà avremmo dovuto stupirci del contrario, cioè del fatto che non fosse accaduto già da prima. Non ci mancavano gli elementi per essere più avvertiti. Infatti, – lo ha scritto Antonio Floridia su queste pagine e in un suo recentissimo libro – il modello originario con cui è nato il Pd, oltre alla indeterminatezza ideale, politica e sociale, comprendeva anche il carattere del tutto indefinito dei confini della nuova organizzazione. Lo statuto, approvato il 16/2/2008 definiva il Pd come un partito «costituito da elettori e da iscritti». Lo stesso ordine con cui i due soggetti vengono nominati non é casuale visto che è stata ripetuto senza modifiche nelle successive versioni statutarie, compresa quella del 2021 che appare in Gazzetta Ufficiale. Ovviamente chiunque può attribuirsi la qualifica di elettore, essendo questa del tutto inverificabile, dal momento che per la nostra Costituzione il voto è libero e segreto. E non c’è Albo che tenga.

Se poi si aggiunge la continua diminuzione degli iscritti negli anni – non corretta dal passaggio da 80mila a 150mila durante quest’ultimo percorso congressuale -; l’assenza di prerogative decisionali dell’iscritto rispetto al comune, vero o presunto, elettore, e soprattutto il fatto che tra gli iscritti al Pd e il suo elettorato non esiste un rapporto quantitativo misurabile, la sorpresa per l’esito delle cosiddette primarie si ridimensiona non poco. Non c’è bisogno di immaginare disegni machiavellici dietro quel voto. Può valere l’interpretazione più favorevole: esiste una sinistra diffusa non inquadrata in organizzazioni partitiche, ma non ancora definitivamente sfiduciata dalle cattive prove della politica e del Pd in particolare.

Piuttosto serve chiedersi quale significato avesse quel voto. Siamo sicuri che si sia votato solo per eleggere la segretaria di un partito «di elettori e di iscritti» o piuttosto la possibile leader di una opposizione che manca alle destre e al loro governo? Osservando la campagna di Elly Schlein e le sue successive dichiarazioni, emerge più questa seconda figura. Che poi possano sovrapporsi è ovvio, ma qui è importante cogliere il senso prevalente di quel voto.

Attraverso questa lente andrebbe quindi in primo luogo misurata l’adeguatezza di Elly Schlein. E qui i «ma» si moltiplicano. Finora i suoi atti pubblici appaiono come risposte necessarie alle mosse del governo e delle destre.

Cosa indispensabile, ma non sufficiente. Costruire un’opposizione significa in primo luogo, ce lo ripeteva Stefano Rodotà, definire un’agenda alternativa a quella del governo e non soltanto giocare di rimessa. Si potrebbe obiettare: verrà col tempo.

Ma c’è una cosa che deve esserci subito, perché è premessa di tutto il resto.

Tra le sue proposte annunciate figurano reddito di cittadinanza, salario minimo, il no all’autonomia differenziata e pare anche una patrimoniale che colpisca le ricchezze. Ma sul versante della pace, già relegato a uno tra i punti finali del programma per le primarie, non vi è una parola convincente. Anche nella sua recente intervista al New York Times Schlein dichiara che il suo partito è un «sostenitore totale» di Kiev, rivendicando il merito di avere votato per l’invio di armi. L’iniziativa diplomatica e di popolo per un cessate il fuoco e una conferenza di pace viene poi evocata come una foglia di fico, per nascondere che l’escalation in corso e il riarmo generale muovono da tempo in direzione opposta. Non si tratta di un vuoto che si possa riempire strada facendo, ma di una mancanza di senso, soprattutto perché il tempo che abbiamo per impedire la generalizzazione del conflitto, comprendendo anche l’uso del nucleare, è maledettamente breve. Le tante manifestazioni di Europe for peace del 25 febbraio lo hanno gridato chiaramente. Guai non ascoltarle

 
Commenta (0 Commenti)

... intendono quelli piccoli, quelli che non contano niente: con quelli grandi loro ci fanno gli accordi.

Luca Casarini - Wikipedia

In mezzo al fragore, sacrosanto, dovuto alla strage di Cutro, una notizia di un certo rilievo è passata quasi inosservata: la polizia francese ha fermato all’aeroporto Charles De Gaulle, Imad Al Trabelsi, attuale ministro dell’interno libico, con una valigia piena di soldi in contanti, mezzo milione di euro, di cui non ha “saputo” dare spiegazioni.

Il suo passaporto diplomatico, e chissà cos’altro, gli hanno permesso di essere rilasciato, e di certo per il giudice francese che ha in mano il caso, non sarà facile adesso pretendere spiegazioni plausibili. Se dovessimo stare alle note vicende, si potrebbe aprire un “LibyaGate”, ma probabilmente non sarà così. Il potente Ministro libico gli affari, e tanti, li fa da sempre, con i governi occidentali.

Lo ricordano bene tre cronisti esperti, ai quali la notizia non è sfuggita: Nello Scavo, che su questi traffici ci ha anche scritto un libro ( LibyaGate, ed. ViteePensiero, 2023 ), Fausto Biloslavo per Il Giornale, uno a cui le “fonti” non mancano, e Umberto De Giovannangeli su Globalist. Oltre a Sergio Scandura che per Radio Radicale ha segnalato l’accaduto. Ma perché la notizia, come scrive Biloslavo a mò di allerta, visto che oppositore del governo non è, “potrebbe imbarazzare il Viminale”?

Perché il trafficante libico Trebelsi, promosso a ministro, lo scorso 21 di febbraio era con Piantedosi nel suo ufficio, a Roma, per gli accordi “per fermare le partenze” dei migranti e dei rifugiati imprigionati in Libia. Che questo galantuomo sia un criminale, e non uno semplice, ma un pezzo da novanta, lo dice il suo curriculum: Capomafia del sud ovest della Libia dilaniata del post-Gheddafi, già schedato dalle Nazioni Unite come uno dei più potenti trafficanti, a capo della milizia di Zintan. Ha accumulato milioni di euro principalmente attraverso il traffico illegale di petrolio.

Si è messo poi al servizio dell’attuale governo, pretendendo subito la promozione a sottosegretario. In occasione di questa nomina, le organizzazioni per i diritti umani libiche e internazionali, come Amnesty International, lo hanno indicato “come uno dei peggiori violatori di diritti umani e del diritto umanitario internazionale”. Per questo signore, così calorosamente accolto da Piantedosi a Roma, nelle carte ufficiali delle Nazioni Unite e del Tribunale Penale Internazionale, si parla di “traffico di esseri umani, violenze, torture e sparizioni forzate ai danni di migliaia di migranti e rifugiati”. La riunione al Viminale dello scorso 21 febbraio nel quale questo criminale è stato ricevuto con tutti gli onori, segue quella avvenuta a Tripoli il 29 dicembre del 2022. 

Presenti il Prefetto Lamberto Giannini, capo della polizia e il Generale Giovanni Caravelli, Direttore dell’Aise. Loro sanno bene chi è Trabelsi. Come lo sanno ad esempio, il funzionario dell’Aise dott. Antonio Fatiguso, detto “Tony”, che in Libia è di casa, o il Tenente Colonnello Ernesto Castellaneta, capomissione dei rapporti bilaterali Italia-Libia.  Quindi, la grande “lotta ai trafficanti” sbandierata dal governo italiano in questi giorni, si tradurrebbe nell’arresto di quelli che stanno dentro le barche che affondano, e che magari pagano il viaggio anche loro, e invece nel dare pacche sulla spalle ai capi del traffico, quelli che ci guadagnano milioni di euro stando nelle loro ville?

La lotta ai trafficanti di esseri umani dunque, significa arruolarli e arricchirli pur di “bloccare le partenze”, per fargli torturare e uccidere i migranti prima che diventino un problema per noi? Chissà che tipo di pagamento era quel mezzo milione di euro che Trebelsi stava andando a depositare in qualche conto coperto. Chissà se i nostri servizi segreti ne sanno qualcosa. Come diceva Andreotti “a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca”.  L’unica certezza è che i famosi viaggi del governo per stringere accordi con i vari paesi di transito e partenza verso le nostre coste di migliaia di donne, uomini e bambini che tentano di fuggire dagli orrori, secondo l’ottica di Salvini e Meloni, vanno fatti per impedire che partano. “Così non muoiono in mare” dicono. Sarebbe meglio dire “così muoiono dove non li vediamo”.

E per far questo, si stringono accordi con criminali come Trebelsi o dittatori senza scrupoli: li chiudano in un lager, li ammazzino, li confinino dentro campi dove avviene di tutto, basta che non partano. E’ dai tempi di Minniti che la clausola del “rispetto dei diritti umani” è carta straccia dentro questi accordi. Paghiamo, milioni di euro sottratti al Fondo di cooperazione con l’Africa, per fornire i mezzi con i quali un altro criminale, il trafficante Abd al-Rahman al-Milad, detto “Bija”, cattura in mare e deporta i profughi che tentano di fuggire dai lager. Le motovedette per questo signore le stanno costruendo ad Adria, in provincia di Rovigo. Bija, che non può nemmeno uscire dalla Libia perché ha un mandato internazionale che gli pende sulla testa a causa dei suoi crimini, comanda la cosidetta “guardia costiera libica”. E’ a lui che il governo italiano si affida perché “blocchi le partenze”. 32.000 deportati solo l’anno scorso, in totale violazione della Convenzione di Ginevra, che ovviamente la Libia non ha sottoscritto.

Ma l’Italia si. Davvero una grande considerazione per gli esseri umani, per i diritti “indivisibili e inviolabili” di cui parlava il Presidente Mattarella. La prossima volta quindi che sentiremo dire a Salvini, a Piantedosi o alla Meloni, che “la lotta ai trafficanti deve essere durissima”, ricordiamoci: intendono quelli piccoli, quelli che non contano niente. Con quelli grandi, loro ci fanno gli accordi.

Luca Casarini

Commenta (0 Commenti)

COMMENTI. Le modifiche del Mia produrranno certo dei risparmi (2-3 miliardi all’anno si stima) ma i problemi di chi è a rischio povertà nonostante abbia un lavoro, rimarranno

Dopo il Reddito di Cittadinanza tagli e restrizioni per i poveri Distribuzione di cibo da parte dell’associazione Pane Quotidiano

Dopo gli annunci sono arrivate anche le anticipazioni. Il nuovo Reddito di Cittadinanza, chiamato MIA (Misura per l’Inclusione Attiva), sarà presentato tra poco, con alcune sostanziali novità in tema di lavoro. I poveri non attivabili continueranno ad avere accesso all’assistenza ma con un sussidio ridotto negli importi e a tempo, per gli altri (i cosiddetti attivabili), oltre alla riduzione degli importi (-30% in media), di nuovo ci sono limitazioni temporali nell’accesso e paletti più rigidi all’attivazione.

Viene estesa inoltre la sospensione del sussidio quando si percepisce un reddito superiore ai 3 mila euro annui a tutti i tipi di contratto. Niente di tutto questo serve a scoraggiare il lavoro nero se questo era l’obiettivo. Andava piuttosto ritoccata l’aliquota marginale che oggi, per ogni euro da lavoro guadagnato, riduce il sussidio di 80 centesimi.

Queste modifiche produrranno certo dei risparmi (2-3 miliardi all’anno si stima) ma i problemi di chi è a rischio povertà nonostante abbia un lavoro rimarranno. Anzi, è molto probabile che aumenteranno, tanto più se a questa stretta seguirà la reintroduzione dei voucher per il lavoro accessorio per un ampio spettro di settori (l’agricoltura, il commercio, ristorazione e turismo solo per citarne alcuni) dove già oggi è radicato un vasto precariato a rischio povertà. I dati li conosciamo e sono preoccupanti. Più dell’11% della forza lavoro in Italia è rischio povertà, una percentuale nettamente al di sopra della media europea (l’8,9% nel 2021), con le punte di maggiore disagio tra i giovani, le donne e nelle regioni del Sud.

Il paradosso è che non si contano così tanti occupati in Italia come oggi, come ha ricordato l’Istat nell’ultimo rapporto sull’occupazione (+465 mila unità rispetto allo scorso anno). Ma non basta aumentare l’occupazione per avere condizioni di lavoro decenti, se quasi la metà dei lavoratori italiani ha contratti scaduti che non vengono rinnovati. E non basta eliminare o dare una stretta al Reddito di Cittadinanza perché gli attivabili trovino un lavoro, né basta dire che sarà rafforzata la formazione. Già oggi i beneficiari devono seguire corsi di formazione.

Lo stesso programma GOL ha tra i suoi target i percettori di RdC. Ma anche con i nuovi corsi di formazione i risultati rischiano di rimanere al di sotto delle attese, specie nelle aree del paese più deboli, dove peraltro la presenza delle agenzie private di collocamento (che entreranno nel sistema di attivazione) è scarsa. E questo per un semplice motivo. Quando la domanda è debole o stagnante, come in molte aree del Mezzogiorno, quando il lavoro pagato poco o sommerso è l’unica alternativa alla disoccupazione, le politiche attive del lavoro possono poco se rimangono slegate da interventi per creare e fare emergere nuova domanda di lavoro.

Negli anni passati la sinistra non si è occupata abbastanza non solo degli ultimi ma anche di molti penultimi incastrati in lavori mal pagati. Nei loro confronti è necessaria una offerta politica più radicale perché sono le fratture e le disuguaglianze che si sono fatte più profonde: non il basso costo del lavoro come unica possibilità di inserimento lavorativo; non bonus di ogni sorta per questa o quella categoria, ma salario minimo e integrazioni fiscali per aumentare le retribuzioni nette di chi è a rischio intrappolamento nel lavoro povero; non il reddito minimo che torna a essere residuale, ma uno strumento in grado di raggiungere anche i beneficiari che un lavoro lo hanno trovato, senza decalage, sospensioni o forme più o meno esplicite di stigmatizzazione sociale; non solo le politiche attive del lavoro quando l’occupazione rischia di essere spiazzata ma politiche per la piena occupazione e investimenti per creare lavoro a partire dai bisogni non soddisfatti e scoperti dei territori, specialmente quelli più deboli o a rischio desertificazione non solo industriale ma anche sociale.

Si tratta di bisogni sociali, ambientali, culturali, legati a filiere territoriali di prossimità che possono incubare nuova occupazione se inseriti in una strategia per trasformare questi bisogni in domanda di lavoro. È questa del resto la filosofia di molti programmi di Job Guarantee che iniziano a essere sperimentati in alcuni paesi europei e che farebbero bene anche all’Italia, in un rapporto con gli attori della società civile e del terzo settore che non guardi semplicemente al sostegno degli ultimi, ma alla ideazione e realizzazione di interventi in grado di rivitalizzare tutto il perimetro del welfare

Commenta (0 Commenti)

COMMENTI. Conte dovrà recuperare l'astensionismo popolare, dirottandolo in alleanza con il Pd, e Schlein dovrà rivedere il ruolo di perno del sistema del partito ereditato dai predecessori

 La neosegretaria del Pd Elly Schlein e Giuseppe Conte alla manifestazione antifascista a difesa di scuola e Costituzione

L’abbraccio tra Giuseppe Conte ed Elly Schlein alla manifestazione antifascista di Firenze, officiante Landini, ha tutte le potenzialità iconografiche per incarnare la metafora della ricostruzione del blocco storico tradizionale della sinistra: ossia l’alleanza tra classi popolari (lavoratori specializzati e subalterni, disoccupati) e ceti medi urbani (intellettuali latamente intesi) con il collante del sindacato. Si tratta della coalizione che negli anni trenta del Novecento dette vita al New Deal negli Stati Uniti, e che in Europa ebbe la sua traduzione nella costituzione dei Fronti popolari.

Coalizioni sociali e politiche su cui fu imperniata l’opposizione al fascismo, e nel dopoguerra, con particolare vigore a partire dal ciclo di lotte del “lungo Sessantotto”, una delle più grandi e straordinarie stagioni di conquiste sociali della storia umana. Tanto che deindustrializzazione guidata dall’alta finanza e precarizzazione – in una parola, il neoliberismo – possono essere lette come la risposta tutta politica delle classi dominanti all’offensiva di una siffatta coalizione.

Un blocco che è stato talvolta unificato in un unico partito, altre volte in alleanze di classe abbastanza stabili, e che un po’ in tutto l’Occidente era stato rotto dall’adesione delle sinistre storiche ai postulati dello stesso neoliberismo, con la conseguenza che i nuovi movimenti politici sorti sulla scia della crisi del 2008 presero le mosse proprio dalla critica di quel “tradimento”. Pd da una parte e M5S dall’altra hanno rappresentato per una lunga stagione i frutti di quella divisione.

Le due leadership di Schlein e Contelo si è visto sabato, hanno una possibilità di ricomporre quella frattura. Tuttavia nella situazione concreta italiana ci sono alcune variabili da tenere di conto, poiché in grado di ostacolare in maniera non rimediabile il processo di ricomposizione.

Non è scontato, da un lato, che Conte sia in grado di recuperare l’astensionismo popolare, e soprattutto di farlo dirottandolo su un’alleanza con il Pd, partito quest’ultimo vissuto, a torto o a ragione poco importa, come organicamente ostile alle fasce popolari astensioniste. Anche senza rimontare ai tempi del “parlateci di Bibbiano”, definitivamente archiviati, basterà ricordare che alle ultime politiche la riscossa pentastellata ha cominciato ad essere registrata proprio con la certificazione della fine del rapporto privilegiato col Pd lettiano.

Dall’altro lato il Pd deve poter sopravvivere, senza deflagrare, all’abbandono della funzione sistemica ricoperta a partire dalla sua nascita, e cioè quella di garante in Italia del vincolo esterno euro-atlantico. Perché in un quadro di adesione ideologica e politica alla situazione, quale si profila, di guerra continua/ritorno dell’austerità in Europa, quel blocco sociale di cui si parlava non pare ricomponibile: austerità e guerra pesano sulle classi popolari, e secondo il paradigma dominante ciò deve continuare ad accadere.

Si apre una contraddizione enorme tra la “funzione sociale” del Pd e la sua “funzione sistemica”, ed è tutto da dimostrare che Schlein sia in grado di governarla senza che spinte centrifughe facciano implodere il partito. Anche perché, in uno scenario in cui il Pd non è più il partito-Stato, ma un partito che più modestamente ambisce al governo in una posizione di alternativa in alleanza coi 5S, non è scritto da nessuna parte che ai democratici tocchi il ruolo di guida della coalizione: un Pd ridotto a potenziale junior partner sarebbe ancor più sottoposto a spinte centrifughe di quanto già non lo sia, venendo meno in quel caso il suo ruolo di cerniera con gruppi di elettori che debbono ad un rapporto di subordinazione clientelare con la politica il mantenimento della loro condizione di relativo privilegio. Non a caso i detentori del potere istituzionale locale si sono schierati in larghissima parte, in occasione delle primarie, a fianco di Bonaccini.

Se davvero si vuole lavorare alla prospettiva della ricomposizione, a Schlein tocca il compito di lanciare concreti segnali di discontinuità; sulla base di questi segnali (da questo punto di vista, il cerino è in mano al Pd), Conte è chiamato ad esercitare le proprie riconosciute capacità di leadership e di carisma per riconquistare consensi popolari apparentemente preda di apatia e scetticismo e incanalarli in una prospettiva politica di alleanza. La via è molto più stretta di quanto possa a prima vista apparire, ma la giornata fiorentina ha aperto un pertugio attraverso il quale occorre provare a passare

Commenta (0 Commenti)

Ucraina, parlare di pacifismo come di una ‘idea assurda’ è un esempio di isteria di guerra 

Dopo un anno di fallimentare strategia militare rispetto alla soluzione della guerra in Ucraina, leggere “dell’assurdità dell’idea stessa di pacifismo” da parte di Paolo Ercolani (ilfattoquotidiano.it, 2 marzo 2023), definito “idealistico e irresponsabile”, è un esempio dell’“isteria di guerra” denunciata da Edgar Morin: isteria che provoca “l’odio di ogni conoscenza complessa e di ogni contestualizzazione” (Di guerra in guerra, 2023).

LEGGI ANCHE
DAL BLOG DI PAOLO ERCOLANI

Ucraina, l’uomo non impara mai dalla Storia: forse vale anche per i pacifisti di oggi

La guerra in corso, scrive Jürgen Habermas, è un “aggirarsi come sonnambuli sull’orlo dell’abisso” (la Repubblica, 19 febbraio 2023) della guerra nucleare, rispetto al quale siamo stati avvisati sia dall’Associazione degli scienziati atomici (orologio dell’Apocalisse a 90 secondi dalla mezzanotte, stato di allarme mai raggiunto prima) che dal Segretario Onu Antonio Guterres: “Siamo al più alto rischio da decenni di una guerra nucleare che potrebbe iniziare per caso o per scelta” (Twitter, 8 febbraio 2023).

Nonostante questo scenario, l’Unione europea non ha messo in campo, con convinzione e determinazione, strumenti concreti di negoziato per risolvere il conflitto, ma ha privilegiato le forniture di armi, sempre più potenti, versando benzina sul fuoco nella “santa barbara” nucleare. La stessa parola “pace” nel discorso pubblico è stata sostituita dall’illusoria parola “vittoria”, che però nessuno può ottenere sul campo, come hanno dichiarato il Capo di stato maggiore Usa Mark Milley e il Capo di stato maggiore italiano Giuseppe Cavo Dragone.

E’ a partire dalla lucida visione del contesto dato, non da ardite comparazioni storiche, che con concretezza e responsabilità il Movimento per la pace chiede il cessate il fuoco e una Conferenza internazionale di pace, appellandosi ai saperi della nonviolenza. Quali? Intanto i saperi dei mediatori, i quali sanno che nei conflitti degenerati in violenza armata ad ogni azione violenta di una parte corrisponde l’azione di violenza superiore dall’altra fino, trattandosi di potenze atomiche, potenzialmente alla distruzione di tutti, a cominciare dal martoriato popolo ucraino. E’ la dinamica dell’escalation, come spiegava Mohandas Gandhi: “Occhio per occhio, il mondo diventa cieco”. E poi, oltre la vulgata binaria “resistenza o resa” alla quale si accoda Ercolani, i saperi di oltre un secolo di lotte nonviolente e resistenze disarmate, anche di fronte al nazifascismo. Saperi che non mancavano, per esempio, ad Hannah Arendt che ne La banalità del male invoca lo studio della resistenza disarmata del popolo danese all’occupazione nazista in tutte le facoltà di scienze politiche, “per dare un’idea della potenza enorme della nonviolenza, anche se l’avversario è violento e dispone di mezzi infinitamente superiori”. Unica resistenza in Europa, quella danese, capace di salvare dai lager la quasi totalità dei cittadini di origine ebraica.

Ancora, i saperi degli interventi civili che fin dalla guerra nei Balcani propongono la costituzione dei Corpi civili europei di pace: con un esperimento di storia contro-fattuale, si può immaginare che cosa sarebbe potuto accadere nelle regioni del Donbass se, a partire dal 2014, fosse stato inviato un Corpo civile di pace internazionale capace di fare interposizione, mediazione, riconciliazione tra le comunità, presidiando sul terreno l’applicazione degli accordi di Minsk, invece puntualmente disattesi fornendo, tra l’altro, sistemi militari a Russia e Ucraina. E ancora, i saperi degli obiettori di coscienza che in migliaia rifiutano in Russia e in Ucraina di arruolarsi e per questo sono perseguitati dai rispettivi governi, come hanno ricordato le giovani attiviste ucraina, russa e bieloussa invitate recentemente dal Movimento Nonviolento in Italia, chiedendo il supporto a chi rifiuta le armi, non a chi le chiede (azionenonviolenta.it, 2 marzo).

Sono alcuni dei saperi che Ercolani dimostra di disconoscere, evocando inappropriatamente la decisione di Dietrich Bonhoeffer di partecipare attivamente alla cospirazione contro Adolf Hitler per prepararne l’attentato, per cui fu impiccato. Al di là del riproporre il classico meccanismo propagandistico della reductio ad Hitlerum del nemico, qui c’è un altro elemento che ad Ercolani sfugge: il teologo Bonhoeffer non ha delegato altri ad uccidere in sua vece – come fanno i governi occidentali continuando ad inviare armi in Ucraina e come rivendica il presidente Zelensky – ma ha agito e pagato di persona per la sua scelta. Mantenendo fede alla responsabilità personale a fondamento del proprio agire. E’ la regola primaria della nonviolenza.

La questione, dunque, non è – come vorrebbe ridurla Ercolani – se “possiamo permetterci di non appoggiare l’Ucraina e quindi lasciare campo aperto a Putin”, ma di come intendiamo portare i governi russo e ucraino (ma anche gli attori dietro le quinte, come gli Stati Uniti, l’Ue e la Nato) al negoziato. O vogliamo continuare a lasciare campo libero, per dirla con Ercolani, ai “bellicisti di casa nostra”?

* analista, Osservatorio sulle armi leggere
** filosofo, Movimento Nonviolento

Commenta (0 Commenti)

A Firenze non basta Santa Croce per il corteo contro il pestaggio fascista, a Milano non basta piazza Oberdan per quello contro il naufragio di Cutro, dove Meloni ora dice di voler fare un consiglio dei ministri. Conte e Schlein insieme «sui temi concreti». Per loro è una scossa. Basterà?

Primi passi di una lunga marcia La testa del corteo della manifestazione di Firenze - Aleandro Biagianti

Molte cose distinguono i progressisti dai conservatori, dai reazionari. Democrazia, giustizia, libertà, solidarietà, umanità, antifascismo. E proprio negli ultimi giorni, con la tragedia di Crotone, con l’assalto squadristico a giovani democratici fiorentini, abbiamo avuto la conferma di quanto sia profondo il divario tra il fronte che in un modo nell’altro sta all’opposizione e quello che ha dato vita al governo Meloni.

E ieri la piazza ha iniziato a fare scuola. Promossa da Cgil, Cisl e Uil, la manifestazione contro lo squadrismo che prova a rialzare la testa, ha riempito le assolate strade di Firenze con decine di migliaia di persone, e, aspetto non secondario, ha riunito sotto la bandiera antifascista quasi tutte le forze progressiste e di sinistra. Una risposta forte, popolare, costituzionale all’aria pesante che tira nel Paese.

Sicuramente è stato sonoro lo schiaffone ricevuto dall’improbabile ministro della pubblica istruzione Valditara, un campione di ipocrisia nel dare il benvenuto ai manifestanti. Proprio lui che, all’indomani del pestaggio davanti al liceo Michelangelo, e di fronte alla lettera della preside Savino, in difesa dei principi antifascisti, aveva minacciato provvedimenti disciplinari,

Commenta (0 Commenti)