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Striscia continua Procede l’esperienza del Freedom Theatre. Mustafa Sheta: «Siamo combattenti culturali». Nel campo profughi, le ruspe israeliane hanno distrutto tra le 600 e le 700 case, 17mila gli sfollati

Jenin. Soldati israeliani chiudono il campo profughi Jenin. Soldati israeliani chiudono il campo profughi – Nidal Eshtayeh/Xinhua via ZUMA Press

Si deve anche all’impegno del Freedom Theatre se un bambino del campo profughi di Jenin può, qualche volta, ancora ridere, correre, giocare. Può ancora sentirsi, almeno per un momento, soltanto un bambino, nonostante gli ultimi tre o quattro anni siano stati segnati da incursioni militari continue, da spari nella notte, da fughe e distruzioni. E ora, per molti, anche dallo sfollamento e dalla perdita della casa.

«Proviamo a concedere loro di essere ciò che sono: soltanto dei bambini», racconta Mustafa Sheta, direttore e anima di un progetto culturale unico, che continua a sopravvivere contro ogni previsione, attraversando occupazioni, arresti, distruzioni. Sheta parla con voce calma, sorride agli amici italiani e palestinesi venuti a salutarlo. È uscito da poco da un carcere israeliano, dopo quindici mesi di detenzione amministrativa. È molto dimagrito – tanto che alcuni stentano a riconoscerlo – ma non ha perso il suo spirito. «Così sono più in forma, più atletico», scherza. Ma sulla prigionia non scherza affatto: «Era già accaduto in passato. Anche questa volta mi hanno sbattuto in una cella, senza accuse, senza processo. Nessuno mi ha mai spiegato perché. La verità è che Israele non tollera le mie idee e la mia resistenza culturale. Mi considero un combattente culturale», dice davanti a una delegazione di AVS guidata da Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni. Il suo impegno, spiega, è permettere ai bambini e ai ragazzi di Jenin – e dei villaggi attorno – di vivere momenti di bellezza, di libertà, di creatività. «Situazioni lontane dall’oppressione, in cui possano crescere come esseri umani. Questo era e resta il nostro obiettivo».

Mustafa accoglie gli ospiti nella sede attuale del Freedom Theatre, assieme ai compagni di lavoro e di lotta: Adnan, Wafaa, Ahmad, Ibrahim. La storica sede all’interno del campo, conosciuta e frequentata da artisti e attivisti da ogni parte del mondo, non esiste più. «Non possiamo più usarla. È stata occupata dall’esercito israeliano. Il campo è quasi tutto distrutto. Le case che ancora stanno in piedi sono chiuse o presidiate dai soldati. Anche la mia casa l’hanno presa. Sopra c’è ora una grossa bandiera israeliana», racconta Adnan.

Quasi quarant’anni sono passati dalla fondazione, nel 1987, dello Stone Theatre da parte di Arna Mer-Khamis, un’israeliana ebrea, sposata a un palestinese che aveva scelto di stare dalla parte dei bambini di Jenin. Fu l’inizio di un’esperienza culturale e politica unica. Lo Stone Theatre fu raso al suolo durante la seconda Intifada, nel 2002. Ma quattro anni dopo, nel 2006, il figlio di Arna, Juliano Mer-Khamis – attore, regista, attivista – lo fece rinascere, col nome di Freedom Theatre. Voleva portare avanti il sogno della madre. Anche lui ha pagato un prezzo altissimo: nel 2011 fu assassinato a Jenin da un uomo con il volto coperto. Il caso non è mai stato risolto.

Mustafa Sheta porta avanti quell’eredità. Anche in memoria del padre, ucciso nel 2002 dai soldati israeliani, un mese prima della sua laurea. «La violenza non è iniziata il 7 ottobre 2023», precisa. «La nostra gente vive sotto occupazione da decenni. Ora a Jenin stiamo attraversando una delle fasi più difficili. Eppure, proprio per questo, è il momento di investire ancora di più nella cultura, di proteggere il nostro patrimonio. Anche questa è resistenza».

Il clima in città è cupo. Le attività lavorative sono quasi ferme, la disoccupazione ha raggiunto il 55%. Poche ore prima del nostro arrivo, Jenin – da cento giorni sotto l’assedio dell’operazione “Muro di Ferro” dell’esercito israeliano – ha visto l’arresto del giornalista Ali Samouni, una delle voci più note della stampa locale, collaboratore di testate internazionali. E nel campo sono stati fatti saltare in aria altri due edifici. Cinque barriere metalliche gialle, pesanti e invalicabili, lo circondano: servono a impedire il ritorno degli abitanti. Anche i quartieri attigui sono in buona parte svuotati. «Qualche famiglia ci vive ancora, ma è pericoloso. Dai piani alti dei palazzi i cecchini israeliani controllano le strade. Uscire può costare la vita», ci spiega un giovane commesso in un negozio di telefonia.

Un quadro della situazione lo fornisce Zakariya Zubeidi, noto ex prigioniero palestinese e tra i fondatori del Freedom Theatre. È stato uno dei bambini dello Stone Theatre di Arna. Oggi vive a Ramallah, non può tornare a Jenin: Israele glielo proibisce. «La mia famiglia mi aggiorna di continuo. Il campo profughi è quasi vuoto. Hanno distrutto o gravemente danneggiato fra le seicento e le settecento case, molte fatte esplodere con la dinamite o date alle fiamme. I bulldozer hanno raso al suolo le infrastrutture civili, perfino nei pressi degli ospedali, ostacolando l’arrivo di feriti e malati», racconta. «Diciassettemila persone sono sfollate. Dormono dai parenti, nelle moschee, nelle aule universitarie, negli uffici comunali, dove capita. Intanto Israele attacca l’Unrwa. È un’aggressione contro i campi di Jenin, Tulkarem, Nablus e forse presto anche nella Cisgiordania meridionale, per cancellare il diritto al ritorno dei profughi. Di fronte a tutto questo non c’è alcuna iniziativa né del governo (dell’Autorità nazionale palestinese) né dei paesi arabi per fermare Israele».

Il governatore di Jenin, Kamal Abu Al Rub, lancia un grido d’allarme: «Le ruspe israeliane stanno cambiando la faccia del campo profughi e di una parte della città. Stanno spianando tutto e la gente scappa. Cerchiamo di fare il possibile per aiutarla, ma i bisogni sono enormi». Da un anno e mezzo, Abu Al Rub è anche un padre in lutto. Suo figlio Shamekh, giovane medico, è stato ucciso a fine 2023 da una raffica di mitra. «Avvenne proprio davanti casa, a Qabatya. Shamekh aveva preso la sua valigetta per soccorrere dei feriti durante un’incursione. Appena uscito, i soldati hanno aperto il fuoco. È morto sul colpo. Anche un altro mio figlio è rimasto ferito. L’occupazione non guarda in faccia nessuno: dal governatore al cittadino comune, di fronte ai fucili israeliani siamo tutti uguali».