Catena umana. In 20 mila sfilano al fianco dei 422 lavoratori licenziati dal fondo finanziario Melrose. Un fiume di donne e uomini, molti giovani. Poi gli operai delle altre fabbriche in crisi
Momenti dell’imponente manifestazione degli operai e del coordinamento delle donne della Gkn ieri a Firenze © Aleandro Biagianti
Doveva piovere e non è piovuto. Ma almeno 25mila gocce sono cadute ugualmente, sotto il sole settembrino, sulle strade di Firenze. E se ogni tempesta, come ricordava Lorenzo ‘Tekoser’ Orsetti, nasce da una singola goccia, per la resistenza operaia delle tute blu Gkn c’è ancora speranza. Nonostante la chiusura totale da parte della multinazionale controllata dal fondo finanziario Melrose, che ha avviato la liquidazione della fabbrica di Campi Bisenzio. Nonostante il silenzio del governo Draghi su questa e tante altre chiusure di stabilimenti industriali. Nonostante l’abulia della politica «ufficiale», incapace di dar corpo a leggi che contrastino il dumping del lavoro (e delle regole fiscali, solo per fare un altro esempio) all’interno dell’Ue. Ma, come evidenziato sulla t-shirt di uno dei manifestanti che hanno pacificamente invaso la città, «Chi lotta può perdere, chi non lotta ha già perso.
IL CORTEO AUTORGANIZZATO dalla Rsu e dal Collettivo di fabbrica è diventato strada facendo sempre più imponente, tanto che ci sono voluti tre quarti d’ora per vederlo sfilare fra piazza Indipendenza e piazza San Marco. In testa le bandiere partigiane della Brigata Sinigaglia e dell’Anpi Oltrarno e di Campi Bisenzio, protagoniste della liberazione della città dal nazifascismo nel 1944. Come a cementare il legame fra chi contribuì alla riconquista della democrazia, e chi sta lottando per vederne confermati i cardini costituzionali.
SUBITO DIETRO L’ORMAI celebre striscione «Insorgiamo». E poi un fiume di donne e uomini di
Leggi tutto: «Insorgiamo». La protesta della Gkn invade Firenze - di Riccardo Chiari
Commenta (0 Commenti)Il caso. Le incognite di una delega fiscale che divide i partiti della maggioranza Frankestein ancora prima di essere presentata: irap e Irpef, cuneo fiscale e riforma del catasto, assegno unico. Lega: sulle tasse stop all’aumento. LeU e Sinistra Italiana: «È il partito delle Ztl"
Il presidente del Consiglio Mario Draghi © Ap
Doveva essere un settembre a passo di carica, ma quello del governo Draghi sarà a passo di gambero. Dopo la concorrenza anche la delega fiscale che doveva essere presentata già a fine luglio, poi prima di ferragosto, sembra slittare a fine mese insieme alla nota di aggiornamento al Def per i veti incrociati nella maggioranza Frankenstein. E quando arriverà alle Camera il provvedimento potrebbe essere generico rinviando le scelte al dibattito parlamentare o a quello sui decreti attuativi. Il nuovo sistema dovrebbe, infatti, entrare in vigore nel 2023. Quello che è certo è che chi misura la politica fiscale in base agli interessi elettorali non cambierà idea. Prima vengono i «cronoprogrammi» ma poi ci sono gli interessi.
La riforma fiscale sarebbe una delle (tante) precondizioni per ricevere la manna dei 200 miliardi di euro del piano di ripresa e resilienza europeo. Ma la maggioranza è spaccata. È bastato il nuovo annuncio sulla riforma del catasto, piccolo grande classico che va in scena perlomeno dal governo Monti. Anche quell’esecutivo cercava di dare seguito a un orientamento della Commissione Europea che invita a modificare il sistema attuale basato su estimi di 40 anni fa. È bastato un ballon d’essai a fare saltare
Leggi tutto: La riforma fiscale è un terreno minato anche per Mario Draghi - di Mario Pierro
Commenta (0 Commenti)La denuncia. Oxfam e Emergency: "Miliardi di investimenti pubblici, profitti record e tasse irrisorie per Pfizer, Moderna e BioNTech. Per controllare il virus, porre fine ai monopoli sui vaccini (al 90% andati ai paesi ricchi), condividere tecnologia e know-how e vaccinare quante più persone possibile. Per i due colossi Usa 26 miliardi di dollari di ricavi e aliquote fiscali bassissime al 7 e al 15%"
Profitti astronomici, tasse irrisorie, nonostante i miliardari investimenti sulla ricerca fatti con i soldi dei contribuenti americani ed europei. È questa la grande rapina dei monopolisti dei vaccini anti-Covid19 Moderna, Pfizer e BioNTech. Lo denunciano Oxfam e Emergency, membri della People’s Vaccine Alliance, in vista dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite e del summit virtuale sul Covid che il presidente Usa Joe Biden intende convocare in concomitanza con l’assemblea Onu.
A FRONTE di un investimento pubblico complessivo nel 2020 di oltre 8,3 miliardi di dollari, le tre aziende hanno registrato nel primo semestre dell’anno ricavi per 26 miliardi di dollari. Il margine di profitto è superiore al 69% nel caso di Moderna e BioNTech. Per Moderna, a metà del 2021, ci sono stati 4,3 miliardi di dollari di utili e appena 322 milioni di dollari di imposte pagate versate su scala globale (il 7%). Nei rendiconti trimestrali del 2021 la società prevede di realizzare vendite di dosi di vaccino per 20 miliardi di dollari nell’arco dell’intero 2021.
IL MARGINE di profitto di Pfizer non è ancora formalmente verificabile. L’azienda, aggiungono Oxfam e Emergency, fornisce dettagliate informazioni finanziarie solo per i ricavi e non per le spese sostenute per lo sviluppo e la produzione dello stesso, non è possibile validare in modo indipendente tale dichiarazione. In aggiunta, l’azienda ha venduto solo lo 0,5% delle sue dosi di vaccino ai paesi più poveri. I suoi ricavi sono da capogiro, grazie alla vendita di oltre il 90% delle dosi prodotte al miglior offerente tra i paesi ricchi e rincari del prezzo per dose, fino a 24 volte il costo stimato di produzione.
PER PFIZER i proventi dalle vendite del vaccino anti-Covid, superiori a 11 miliardi di dollari nei primi sei mesi del 2021, rappresentano oggi più di un terzo dei ricavi a bilancio semestrale. La multinazionale prevede di arrivare a 33,5 miliardi di dollari in vendite totali del proprio vaccino entro la fine del 2021, rendendolo uno dei prodotti farmaceutici più venduti nella storia dell’industria farmaceutica. Nel caso di BionNTech e Moderna la situazione è diversa. Queste aziende non hanno altri prodotti farmaceutici commerciali significativi. Oxfam e Emergency sostengono che i loro elevati margini di profitto derivano quasi esclusivamente dalla commercializzazione dei vaccini contro il Covid-19. Il problema non va visto solo dal lato del biocapitalismo di Big Pharma, ma anche da quello degli stati che, nonostante i peana sull’accordo sul tassa minima globale sui profitti, mantengono aliquote in un sistema fiscale distorto ed iniquo. Non solo dunque hanno usato i soldi dei contribuenti per dare un contributo importante alla ricerca che ha portato al vaccino a tempi di record, per poi ricomprare il prodotto a prezzi di mercato spendendo un’enormità. Ma garantiscono generosi sconti fiscali sugli utili record che loro stessi, garantendo una situazione di monopolio, permettono di realizzare. Le corporation con ricavi miliardari pagano, in proporzione, molto meno di quanto versano al fisco famiglie che hanno il lavoro come unica fonte di reddito.
«IL MODELLO di business messo in pratica dai colossi farmaceutici è oltremodo redditizio e continua ad essere perfetto per azionisti e top manager che vengono remunerati generosamente, mentre a farne le spese sono i paesi in via di sviluppo che stanno affrontando un nuovo picco di contagi e decessi, senza vaccini, cure e trattamenti. – sostengono Sara Albiani di Oxfam Italia e Rossella Miccio di Emergency – Invece di collaborare con governi e altri produttori qualificati per assicurare una disponibilità di dosi sufficiente a soddisfare la domanda mondiale appaiono più preoccupati a massimizzare i propri utili».
ESERCITANDO un potere monopolistico, non condividendo tecnologie e know-how e applicando cospicui sovrapprezzi, si stima che i tre colossi del farmaco si vedranno corrispondere nel 2021 41 miliardi di dollari in più, rispetto al costo stimato di produzione dei propri vaccini.
LA RICHIESTA della People’s Vaccine Alliance è un immediato intervento dei governi a favore della sospensione dei brevetti ed evitare un ulteriore rialzo dei prezzi applicato anche per la vendita delle terze dosi ai paesi ricchi.
I PAESI RICCHI che iniziano la somministrazione delle terze dosi mentre la maggior parte dei paesi fatica a garantire le prime dosi al proprio personale sanitario, evidenziano la drammatica iniquità nel modo di condurre la nostra battaglia contro il virus – sostengono Albiani e Miccio – Le varianti future potrebbero quindi rimandarci al punto di partenza. Per tenere veramente sotto controllo questo virus, dobbiamo porre fine ai monopoli sui vaccini, condividere tecnologia e know-how, così da poter aumentare la produzione in tutto il mondo e vaccinare quante più persone possibile”.
Commenta (0 Commenti)Non si tratta di una lotta di liberazione: si mette al primo posto il singolo contro gli altri
Basterebbero già gli slogan complottistici, le insinuazioni negazionistiche e soprattutto le parole
apertamente antisemite per far capire quali siano impronta e inclinazione del movimento contro il
pass sanitario. Non è certo un caso che le proteste di piazza vengano presidiate e manipolate da
losche figure dell'estrema destra. Che si tratti di gruppi sparuti, come nelle ultime manifestazioni,
non deve trarre in inganno: il movimento contro il pass, erede diretto di quello anti-mask e antivax,
è in crescita dall'inizio della pandemia e non va sottovalutato. Basta fare un giro nel web per
imbattersi in stelle gialle, assurte oscenamente a emblema di discriminazione di chi non ha voluto
ancora vaccinarsi, o per incontrare il termine Pass scritto con le due SS che evocano il nazismo.
D'altronde si sono già visti i cartelli "no nazi pass". C'è chi crede di difendere la propria libertà
opponendosi alla certificazione verde e nel farlo invoca addirittura i valori della Resistenza.
Proprio perché viviamo in un'epoca di grandi mistificazioni è bene essere chiari. La battaglia contro
il Green Pass è una battaglia reazionaria, una battaglia di destra (se non di estrema destra). E lo è
sotto un profilo filosofico, politico, etico. Non ha assolutamente nulla di emancipatorio – non è una
lotta di liberazione. In tal senso dispiace che voci filosofiche, un tempo punto di riferimento della
sinistra critica, abbiano finito per dare la stura ai covidscettici e che storici come Alessandro
Barbero abbiano firmato l'appello contro il Green Pass. Per quanto mi riguarda, sono iscritta alla
Cgil Università da quando ho cominciato a lavorare e mi aspetto che il mio sindacato, guidato da
Maurizio Landini, non si occupi di fantomatiche discriminazioni, ma dia il proprio indispensabile
contributo per far funzionare al meglio scuola e università in questo periodo difficilissimo.
La battaglia contro il Green Pass è torbida. Molti convinti no-pass sostengono di non essere no-vax.
Il terreno, però, è sdrucciolevole: le loro argomentazioni insinuano subito dubbi sul vaccino e di qui
si passa presto a mettere in dubbio la pandemia. È bene avere dubbi e sollevare domande. Ma
attenzione: credere a tutto e non credere a nulla sono le due facce della stessa medaglia. Dietro la
maschera dell'iperscettico si nasconde l'ipercredulo. Come ha osservato Marc Bloch: «Lo
scetticismo di principio non è un atteggiamento intellettuale più apprezzabile né più fecondo della
credulità, con la quale, d'altro canto, si combina facilmente in molti spiriti sempliciotti». È questo il
problema del complottista, chiuso nel proprio insospettabile dubbio, che è il suo fondamento e la
sua ragion d'essere. Spirito critico o profeta occulto? Libero pensatore, o piuttosto la sua versione
caricaturale?
La battaglia contro il Green Pass è ultraliberista e reazionaria per almeno due motivi decisivi.
Anzitutto mette al primo posto la libertà del singolo contro gli altri – libertà di essere contaminato e
di contaminare, di lasciare che il virus circoli e divenga più pericoloso. Libertà assolutamente
egocentrica e autarchica, per cui il mondo potrà anche finire, gli altri, i più deboli, perire, purché
non vengano toccati i miei diritti individuali. Ma c'è un secondo motivo di solito trascurato: la
battaglia anti-pass non prende di mira né lo Stato, né il potere né, tanto meno, il governo, ma mina
al fondo la dimensione vitale del mutuo soccorso, dell'aiuto reciproco. In questo senso asseconda la
disgregazione sociale provocata dalla pandemia. Vaccinarsi, mettere le mascherine, mostrare il
Green Pass (come avviene quotidianamente per decine di altri documenti) è un atto politico ed etico
di solidarietà verso i più anziani e i più deboli. Chi è di sinistra lo compie con tanta più
consapevolezza.
Attenzione poi al caos concettuale. Qualcuno crede che mobilitarsi contro il Green Pass significhi
essere contro la società del controllo o contro lo stato d'eccezione. Ma denunciare meccanicamente
il biopotere, assurto a emblema del male, può avere esiti grotteschi. E in effetti li ha avuti quando,
nei primi mesi devastanti, mentre i reparti di terapia intensiva erano stracolmi, e occorrevano misure
per proteggersi mutualmente dal virus, c'era chi, proprio come Agamben, indicava nella pandemia
un pretesto di controllo antidemocratico. Sennonché non si può non distinguere la questione del
potere fobocratico e dello stato d'eccezione da quella della protezione reciproca dal virus. Chi non
lo fa si allea con i covidscettici e rischia la deriva reazionaria. Nulla di sinistra – molto di destra.
A essere colpiti dalle proteste antipass non sono i dispositivi di controllo e le telecamere di
sorveglianza ma i centri di cura. È davvero triste vedere questi supposti paladini della libertà
scagliarsi contro i "collaborazionisti", cioè i medici che cercano di informare, il personale sanitario
che ogni giorno lotta contro il virus. E gli antipass non propongono nessuna politica sanitaria
alternativa.
La battaglia contro il Green Pass nasce da un contesto di negazionismo complottistico e da un
immaginario politico untraliberista, antiegualitario e reazionario. Ha fra l'altro il demerito di averci
distolto dagli obiettivi di una politica di sinistra: togliere i brevetti, dare il vaccino ai più poveri,
immunizzare il mondo. Questo infatti avremmo dovuto imparare dalla Resistenza: il mutualismo e
la solidarietà.
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Energia. Il vero problema dell’aumento delle bollette sta nel costo crescente di approvvigionamento delle materie prime, a partire dal gas fossile, causato dalla ripartenza dell’economia mondiale dopo le prime ondate della pandemia
Ci risiamo. Anche stavolta assistiamo allo stesso teatrino già visto in passato. Si esplicita un problema noto – in questo caso lo ha fatto il ministro Cingolani sui rincari della bolletta energetica – e parte un dibattito surreale in cui sul tavolo degli imputati viene messa la transizione ecologica.
Era già successo recentemente parlando del futuro del settore italiano dell’automotive all’interno della rivoluzione elettrica che sta investendo la mobilità mondiale. E la straordinaria opportunità di affrontare un problema ad oggi irrisolto – la crisi climatica – con investimenti in ricerca e innovazione, sviluppando tecnologie pulite che domani verranno vendute in tutto il mondo, diventa paradossalmente un guaio da scongiurare.
Ma davvero è la riconversione ecologica del Paese che sta facendo schizzare verso l’alto le bollette? Nulla di più falso. Il peso degli incentivi dati alla produzione di elettricità da rinnovabili sta scendendo: siamo arrivati a poco più di 11 miliardi di euro lo scorso anno, erano 14 fino a qualche anno fa. Sono sempre lì invece i costi impropri che sono stati caricati in bolletta: dai costi per lo smantellamento delle ex centrali nucleari agli incentivi alle industrie energivore, passando per i sussidi alle fonti fossili.
I costi relativi al sistema ETS di scambio delle quote di emissioni di anidride carbonica sono assolutamente minoritari. Lo ha detto anche il vice presidente della Commissione europea Frans Timmermans che proprio ieri in plenaria del Parlamento ha ricordato che solo il 20% dell’aumento del costo dell’energia può essere attribuito ai prezzi della CO2.
Il vero problema dell’aumento delle bollette sta nel costo crescente di approvvigionamento delle materie prime, a partire dal gas fossile, causato dalla ripartenza dell’economia mondiale dopo le prime ondate della pandemia. Visto che il nostro Paese produce elettricità per oltre il 35% del totale da fonti rinnovabili e per oltre il 50% dal gas, se il costo di quest’ultimo diventa sempre più alto per la speculazione degli oligopoli di settore, la bolletta non può che aumentare.
Cosa si può fare? in fase di definizione della legge di bilancio si potrebbe ripulire subito la bolletta energetica dagli oneri impropri. L’altra cosa da fare è rendere più semplice la realizzazione degli impianti che producono elettricità dalle fonti pulite, a partire dal sole e dal vento, ad una velocità di installazione che dovrebbe decuplicarsi. Le timidezze del governo sulle semplificazioni necessarie non affrontate neanche nell’ultimo decreto, imputabili soprattutto al Ministero della Cultura, e sul necessario coinvolgimento dei territori con i fondamentali percorsi partecipativi non aiutano. Lo stesso vale per le Regioni che continuano a varare moratorie senza senso sui nuovi impianti a fonti pulite, mentre continuano a funzionare centrali che bruciano gas, carbone o gas sul loro territorio. Una parte della responsabilità è in capo anche ad una parte del mondo ambientalista che, continuando ad invocare la fine dell’era delle fossili, contrasta contemporaneamente l’installazione di impianti eolici a mare e a terra o fotovoltaici.
I “signori del gas”, molto attivi anche in Italia, continuano a distorcere la realtà, promuovendo campagne mediatiche piene di fake news. Sta a chi a cuore la salute del pianeta e di chi respira i veleni prodotti dalla combustione delle fossili, ripristinare la verità, aiutando concretamente la costruzione del modello energetico “fossil free” sul territorio. Altrimenti non ne verremo mai a capo.
* presidente nazionale di Legambiente
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“Lo scorso trimestre la bolletta elettrica è aumentata del 20%, il prossimo trimestre aumenta del 40%. Queste cose vanno dette, abbiamo il dovere di affrontarle”: è questa la “bomba” sganciata ieri dal ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, durante un convegno della Cgil a Genova.
Quella di Cingolani è una dichiarazione esplosiva perché i rincari da lui prefigurati vanno ben oltre quelli registrati nel trimestre in corso, superando di 10-15 punti percentuali anche quelli stimati dai più per il prossimo trimestre.
Vedremo se e in che misura il Governo interverrà, come per altro ha già fatto in questo trimestre, per attutire l’impatto che il rincaro della materia prima energetica avrà sui portafogli di imprese e famiglie – con un numero sempre maggiore a rischio di povertà energetica.
Ma anche se ancora non si sa esattamente di quanto aumenteranno le bollette elettriche e del gas degli italiani, quel che è certo è che ci troviamo di fronte ad una dinamica di rincari di cui è necessario cercare di capire bene l’origine, se si vuole cercare di sterilizzarne le cause.
Attribuire il peso esatto di ogni concausa all’effetto finale non è mai semplice. Sicuramente, si sta verificando una sorta di tempesta perfetta di situazioni contingenti, che stanno facendo impennare i prezzi dell’energia. Ma è soprattutto una serie di errori, debolezze e carenze di programmazione che vengono da lontano a pesare sulle bollette.
Nel funzionamento del settore energetico, che per sua natura ha bisogno di muoversi con orizzonti decennali, pesano infatti più le cause di lungo termine che qualunque evento meteorologico o contingenza politico-economica.
Gli elementi contingenti della tempesta perfetta in corso sono vari, come il rincaro delle materie prime a livello internazionale, fra cui il gas metano, le cui scorte non sono state rimpinguate a sufficienza a causa del lungo inverno in Europa.
Alle condizioni metereologiche si sono aggiunte le strozzature delle consegne di gas da Russia e Norvegia. La frenata delle forniture, a seconda dell’atteggiamento più o meno dietrologico che si vuole assumere, possono essere state causate da una serie di sfortunate coincidenze, legate a manutenzioni, incidenti e alle crisi politiche in Ucraina e Bielorussia.
Oppure, come accennato in un nostro precedente articolo (Prezzi elettrici alle stelle? Segnali per puntare su efficienza energetica e rinnovabili), potrebbero dipendere da una non troppo velata volontà del presidente russo Putin di mostrare all’Europa quanto dipenda dal gas russo, in vista della controversa attivazione del nuovo gasdotto Nordstream, che collegherà direttamente Russia e Germania, bypassando l’Ucraina.
Il rincaro delle materie prime è stato dovuto anche all’aumento della domanda determinato dalla ripresa economica. Un ruolo lo ha avuto anche il rincaro dei certificati Ets di scambio della CO2, a cui potrebbero avere a sua volta contribuito anche le attese degli investitori, che sempre di più puntano sui certificati Ets come strumento finanziario capace di fornire buoni rendimenti in un periodo di bassi tassi d’interesse.
“Però il paradosso è che chi lamenta questa componente [speculativa], chi imputa alle politiche clima-energetiche europee il fatto che rincara l’energia rovescia un po’ il senso logico, nel senso che più rinnovabili avremo, meno certificati della CO2 dovremo pagare, quindi e un po’ l’inverso di quello che alcuni sostengono”, commenta l’amministratore delegato della società di ricerche Althesys, Alessandro Marangoni, sentito da QualEnergia.it
La realtà di lungo termine è che tutte queste cause contingenti stanno avendo un peso spropositato sulle bollette a causa del ruolo ancora troppo centrale che il gas metano ricopre nei sistemi energetici dell’Europa e in misura ancora maggiore dell’Italia.
È da anni che le installazioni di grandi impianti fotovoltaici ed eolici in Italia vanno a passo di lumaca, soprattutto a causa di un quadro regolatorio e legislativo contraddittorio e pachidermico.
Sappiamo che è necessario investire molto di più in capacità di accumulo, necessaria per gestire l’intermittenza delle fonti rinnovabili, e in questo campo abbiamo fatto ancora di meno che sul fronte delle rinnovabili. C’è ovviamente da ammodernare la rete, per renderla più flessibile a adatta ad un mondo di consumatori-produttori di energia distribuita, cosa che per lo meno abbiamo cominciato a fare.
L’impennata delle bollette elettriche e del gas crea, fra le altre cose, le condizioni di mercato ideali per un’ulteriore accelerazione delle rinnovabili, vista la convenienza sempre maggiore del kWh rinnovabile rispetto al prezzo unico nazionale dell’energia, trainato al rialzo dal metano.
Basterebbe cominciare a far seguire più fatti concreti, basati su dati ed evidenze scientifiche, alle parole di chi si occupa di energia e transizione energetica.
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