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L'Afghanistan che verrà. I governi degli eserciti che per due decenni hanno presidiato il campo afghano hanno chiuso, con le ambasciate, le porte della diplomazia. Ma il lavoro politico non si fa via zoom

Fiumicino, atterraggio di uno dei voli di evacuazione dall'Afghanistan

 

Fiumicino, atterraggio di uno dei voli di evacuazione dall'Afghanistan  © Ap

Ha ragione Lakhdar Brahimi, veterano delle Nazioni unite, che ieri ha detto ad Al Jazeera che l’Onu dovrebbe intensificare gli sforzi diplomatici in Afghanistan: «È tempo – ha detto – di diplomazia». Mentre il dibattito sembra vertere invece solo sulla fuga da Kabul e sulla cattiveria della guerriglia in turbante, riappare la politica e quella parola magica che ne presuppone altre: negoziato, trattativa, dialogo. Ha ragione Lakhdar Brahimi. Ma è solo. O meglio, se l’Onu ha comunque già deciso di non abbandonare il Paese, i governi degli eserciti che per due decenni han presidiato il campo afghano hanno invece chiuso, con le ambasciate, le porte della diplomazia.

ANZICHÉ ESSERE DOVE ORA si dovrebbe trattare, negoziare, accompagnare, le ambasciate occidentali si sono trasferite a casa come se anche il lavoro politico si potesse fare via zoom. In Afghanistan la pandemia si chiamava, oltreché Covid, anche “guerra” e per gestirne la sua (apparente) fine sarebbe necessario essere lì, non certo dall’altra parte del pianeta.

Aiutare chi si sente minacciato è un dovere etico oltreché un atto di solidarietà dovuto ed è dunque necessario che, come da più parti si chiede, il ponte aereo vada avanti sino alla finestra del 31 agosto (che pare sia stata garantita da chi comanda a Kabul) imbarcando tutte le persone in serio pericolo le cui liste sono state inviate al ministero degli Esteri e della Difesa. Ma terminata questa missione emergenziale

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Dossier Viminale . La pericolosità per le donne della sfera familiare si riscontra anche negli ammonimenti dei Questori: quelli per violenza domestica sono saliti a 1.160 (tre anni fa erano 667) mentre è rimasto costante il numero di allontanamenti (403). Risultano invariate anche le denunce per stalking (quasi 16mila) di cui, in tre casi su quattro, sono vittime le donne

 

Un Paese mai stato così sicuro, ma non per le donne, i giornalisti e gli amministratori locali. È la realtà che emerge dal “Dossier Viminale” pubblicato come ogni anno a Ferragosto in occasione della riunione del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica. A catalizzare l’interesse di politici e opinionisti è stato soprattutto l’incremento del numero di migranti sbarcati sulle nostre coste (49.280 di cui 40.727 per “sbarchi autonomi”). Ma sono altre le informazioni del Dossier a cui andrebbe posta attenzione: sono dati che sconfessano “l’emergenza sicurezza” agitata per anni dalle destre e sollevano interrogativi su problemi poco dibattuti.

Innanzitutto il dossier riporta il calo generale dei crimini (-7,1%) ed in particolare dei furti (-12,8%) e delle rapine (-3,8%) mentre, complice anche l’emergenza Covid, ad aumentare sono stati i reati informatici (+27,3%) e le truffe (+16,2%). Ma soprattutto è da notare la diminuzione degli omicidi volontari (da 295 dell’anno precedente a 276, con un decremento del 6,4%), che toccano così il minimo storico e fanno dell’Italia di oggi uno dei Paesi più sicuri nel mondo.

Sono diminuiti anche gli omicidi nell’ambito familiare-affettivo (-8,3%), ma i 144 omicidi rilevati in questa sfera rappresentano più della metà (il 52,2%) del totale nazionale e confermano una tendenza degli ultimi anni: la crescente pericolosità del contesto familiare-affettivo. Soprattutto per le donne: gli 88 omicidi di donne in quest’ambito mostrano che tre omicidi su cinque (il 61,1%) hanno come vittima proprio una donna. Più in generale, i 105 omicidi di donne registrati nell’ultimo anno rappresentano il 38% di tutti gli omicidi volontari in Italia: sebbene siano in calo (l’anno precedente erano 122) indicano un problema che non può essere sottovalutato.

La pericolosità per le donne della sfera familiare si riscontra anche negli ammonimenti dei Questori: quelli per violenza domestica sono saliti a 1.160 (tre anni fa erano 667) mentre è rimasto costante il numero di allontanamenti (403). Risultano invariate anche le denunce per stalking (quasi 16mila) di cui, in tre casi su quattro, sono vittime le donne.

Un altro minimo storico è rappresentato dai 13 omicidi attribuibili alla criminalità organizzata (erano stati 22 l’anno precedente). In proposito è rilevante ed inquietante il raffronto col numero di omicidi commessi da legali detentori di armi: il Viminale non riporta dati, ma quelli reperibili nel datatase dell’Osservatorio OPAL di Brescia indicano che nel periodo agosto 2020-luglio 2021 vi sono stati 30 omicidi con armi regolarmente detenute. Questo significa che i legali detentori di armi sono responsabili di più del doppio degli omicidi commessi dalla criminalità organizzata: in altre parole, oggi in Italia è maggiore il rischio di essere uccisi da un legale detentore di armi che dalla mafia o da un rapinatore.

È un fenomeno persistente negli ultimi anni che dovrebbe indurre ad una specifica attenzione da parte del Viminale e delle forze politiche: i fatti recenti, tra cui lo sterminio a Rivarolo Canavese di quatto persone (la moglie, il figlio disabile e una coppia di anziani vicini di casa) da parte di un anziano che a 83 anni deteneva armi con una licenza di tiro sportivo e la strage di Ardea in cui un anziano e due fratellini sono stati uccisi con un’arma ereditata dovrebbero portare ad una revisione in senso più restrittivo delle norme sulle licenze e a maggiori controlli sui legali detentori di armi.
La questione riguarda anche altri due fenomeni preoccupanti che il Dossier segnala: l’aumento degli atti intimidatori nei confronti degli amministratori locali (nel primo semestre 2021 sono stati 369 gli amministratori minacciati, tra cui 189 sindaci) e verso i giornalisti (110 giornalisti minacciati, in buona parte per attività socio-politica). Norme troppo blande come quelle attuali sulla detenzione di armi possono favorire – come rilevava un rapporto Censis del 2018 – “una formidabile tentazione ad usarle” considerato che “molti assassini sono in possesso di regolare licenza”. Anche per questo è urgente aprire una seria riflessione sulle armi in Italia.

*(Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa – OPAL)

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Afghanistan . Due obiettivi sono ora importanti: trattare con i Talebani per ottenere canali per l’espatrio e dialogare con Teheran per far passare ai profughi di Kabul la lunga frontiera

Fuga da Kabul

Fuga da Kabul © Ap

Vi ricordate uno degli slogan che esprimeva una delle più importanti verità che il movimento ci aveva fatto capire nell’epoca gloriosa del pacifismo, il solo, grande movimento realmente europeo che si sia sviluppato, quello degli anni Ottanta, quello che recitava: ”I patti non si fanno con gli amici ma con i nemici”? Voleva dire no ad Alleanze Atlantiche e invece ricerca di un accordo, o almeno di un compromesso, di un dialogo, con quelli che stiamo combattendo.

Ed era il corollario di un’altra verità: “La guerra è un retaggio medioevale, la politica estera non può più affidarsi alla rozza semplificazione militare”.
So bene che poi nel concreto spesso non è facile applicare queste indicazioni; e infatti in questo stesso scorcio di tempo sono state calpestate. Con i risultati che abbiamo sotto gli occhi, non solo in Afganistan, ma anche in Irak e altrove.

Ripenso a questi slogan in questo momento terribile in cui le conseguenze dell’averli ignorati scorrono drammaticamente sugli schermi televisivi: se si è arrivati a questo è perché si è scelto di dar peso alla Nato a – i nostri “amici” – (e alla loro guerra) e di non tentare neppure di dialogare con chi in Afganistan stava dalla parte dei Talebani. Quello che invece hanno fatto le Ong che si sono impegnate ad aiutare con scuole e ospedali la società civile del paese anziché ad armare le bande di altre fazioni (quella ufficialmente al governo a Kabul, del presidente fuggitivo Ghani, non era molto di più di una fazione, ma una fazione alleata della Nato; e infatti si è dissolta in pochi giorni).

Non vorrei che oggi ci dimenticassimo di quanto abbiamo predicato, e invocassimo il “Mai riconoscere i Talebani” in nome di una radicalità che non è tale, perché è solo una assenza di riflessione. Dire “accordi” coi nemici, non vuol dire riconoscere il governo dei talebani (non l’hanno del resto fatto nemmeno Russia e Cina). Vuol dire cercare di trattare e strappare qualche possibilità di salvare chi ora rischia la vita. In molti casi significa accordarsi per ottenere vie d’uscita dal paese. Se non otteniamo questo non vedo cosa potrebbe servirci, di per sé, l’impegno dei nostri paesi ad accogliere i fuggitivi. Prima, ora, subito, bisogna ottenere canali per l’espatrio. Qualche spazio di trattativa, ancorché limitato, sembra esserci, bisogna profittarne e allargarlo, non chiudersi nella demagogica invocazione ”con i talebani non si tratta”. Se non si tratta, vuol dire che si continua la guerra. E cioè che chiediamo alla Nato di non partire dal paese e di riprendere i combattimenti.

A Doha, nel negoziato promosso da Trump e poi proseguito da tutta la Nato, non c’è stata una trattativa sull’Afganistan, ma solo sulle garanzie a favore dei militari Nato che se ne volevano andare, i soli per i quali è stata espressa preoccupazione dal presidente Biden: ”Riportare a casa i nostri ragazzi!”. E tanto peggio per quelli che vivono in un paese che i nostri ragazzi hanno massacrato in questi 20 anni, in nome della guerra come risolutrice dei conflitti.

C’è un altro obiettivo urgente, che sembra dimenticato e invece è importantissimo: il grosso di chi ha bisogno di scappare dal paese premerà inevitabilmente sulla lunga frontiera con l’Iran. E’ dunque urgente dialogare con il governo di questo paese, che non è nostro amico, per facilitare il passaggio di quella frontiera, non per farci accordi analoghi a quelli con la Turchia, ovviamente. Ma per dialogare bisognerà anche riconoscere le ragioni di Teheran, che patisce un durissimo embargo quando Washington ha deciso che andava punito perché avrebbe violato l’accordo sul nucleare (che non chiede solo ai paesi che non hanno le bombe di non cominciare a farle, ma anche a quelli che le hanno di non continuare a produrle. Come poi è risultato clamorosamente si tratta della stessa pretestuosa bugia che dette il via all’aggressione all’Iraq). Mobilitarsi per “liberare l’Iran”, è la cosa più utile che si possa fare per aiutare ora i profughi afgani. Ogni tempo ha le sue priorità, in questo è prioritario bloccare la ripresa della guerra.

Sono consapevole di rischiare un attacco di tanti che sono da sempre miei compagni di lotta perché può sembrare che quanto dico sia simile a quanto, tatticamente, dice il generale Stolzemberg. Ma sono certa che la vecchia guardia pacifista sarà d’accordo sull’importanza di ricordare sempre che si fanno patti con il nemico e non con gli amici. Con questi, se sono veri amici, non è necessario, perché ci si intende lo stesso. Con la Nato ho i miei dubbi.

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Afghanistan. La trasformazione dei talebani dai tempi del mullah Omar: non sono più contadini dei campi profughi del Pakistan e a dirlo è la capillare intelligence creata alle spalle degli Usa. Con un doppio obiettivo: consenso interno nelle aree urbane, radicalmente cambiate, e l’ingresso nel consesso globale

I miliziani talebani nel palazzo presidenziale di Kabul, abbandonato dal presidente Ghani © Ap

Nel V anno dalla proclamazione dell’Emirato islamico dell’Afghanistan, un fokker delle Nazioni unite ci portò a Jalalabad, uno dei pochi ingressi nel Paese che mullah Omar governava da Kandahar, la città più tradizionalista del Paese dove Omar era nato e aveva fondato il movimento degli studenti coranici.

Era il 2000, ventun anni fa. Le formalità doganali venivano espletate da due ragazzi col kalashnikov che non sapevano né leggere né scrivere, sulla pista di un malconcio aeroporto assolato dove stazionava un Dc-10 dell’Ariana, la vecchia compagnia di bandiera. Aveva i finestrini oscurati ma, sbirciando tra gli scatoloni che ne venivano scaricati, notammo i brand occidentali di radio o televisori che venivano dal Golfo.

Allora, quando attraversammo un Paese in sfacelo, senza più strade e dove si erano rubati tutti i fili di rame dell’elettricità, solo Pakistan, Emirati e Arabia saudita avevano riconosciuto l’emirato scalcinato che a Kandahar contava su un solo telefono pubblico e in cui le strade erano pattugliate dai pickup, la chiave della rapida avanzata talebana dal Pakistan verso Jalalabad e poi sempre più all’interno del Paese.

Oggi le cose sono cambiate. E non solo perché i pickup hanno cilindrate più potenti o perché ogni combattente ha un telefonino. Quell’emirato di rozzi contadini allevati nei campi profughi del Pakistan, cui la riscossa religiosa pareva anche la riconquista di una dignità, non è più così anche se non sappiamo esattamente cosa sarà.

Né il vertice politico dei talebani odierni è lo stesso di allora, disposto ad accontentarsi del riconoscimento internazionale di soli tre Paesi o dei soldi di un bin Laden, motivo per il quale i nazionalisti pashtun di Omar avevano accettato di buon grado il facoltoso ideologo saudita.

Che non siano più gli stessi lo si capisce, per partire dalla guerra, dalla capillare rete di intelligence costruita mentre si negoziava a Doha con gli americani o, osserva qualcuno, da anni. Un rete sotterranea così segreta da sfuggire alle occhiute agenzie americane che non ne avevano probabilmente contezza.

Una rete che preparava non solo la guerra guerreggiata ma quella, meno sanguinaria e impegnativa, dell’accordo sottobanco. Con governatori, capi villaggio, colonnelli e capitani.

Gioco facile con un esercito governativo, sappiamo oggi con certezza, tenuto per mesi senza stipendio nonostante i miliardi iniettati dai consiglieri militari occidentali che, evidentemente, si sono per anni accontentati di resoconti di carta che non rispondevano alla realtà del terreno: quella di salari non pagati, di benzina rubata, di soldati fantasma a libro paga di un governo corrotto che ha già visto scappare all’estero ministri e funzionari (solo ieri l’agenzia Pajhwok ha reso noto il furto di 40 milioni di afganis dal ministero dello Sviluppo urbano e di 273 milioni pagati illegalmente a due società per un progetto solo sulla carta).

La costruzione di questa rete sofisticata, una delle ragioni della rapida vittoria talebana, dice dunque di una leadership sofisticata, non solo tecnologicamente. Negli anni questa leadership ha tentato di smarcarsi dal marchio pashtun sul movimento e ha persino tentato di dimostrarsi attenta ai bisogni delle donne, concedendo persino di aver fatto in passato degli errori.

Una strada che sembra aprire in due direzioni: quella della ricerca del consenso interno in un mondo, soprattutto urbano, radicalmente cambiato. E quella del rendersi accettabili a un consesso da cui non si può esser più tagliati fuori.

I Talebani di oggi, che sottolineano più del Corano una guerra fatta per l’indipendenza, non possono accettare che sia solo il Pakistan l’unico padrino da cui dipendere. Ecco dunque che le aperture di cinesi o russi (che non sono una novità) sono ben accette così come la possibilità che il loro regime sia si un regime, ma non del terrore.

Ma ammesso e non concesso che la leadership sia davvero cambiata, il che resta da dimostrare, qual è la distanza tra il vertice e i soldati della cui brutalità abbiamo già notizia? E quale può essere il prezzo che il vertice dovrà pagare ai capi bastone che hanno consentito la rapida conquista?

I prossimi giorni diranno subito se si scatenerà, come tutti temiamo e come i locali ci raccontano, lo stillicidio della vendetta e della caccia al collaborazionista o se, almeno di facciata, l’Emirato non voglia mostrarsi al mondo come un governo conservatore ma non solo di efferati aguzzini.

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Afghanistan. Per Usa e Nato bisognava (e bisogna) esportare la democrazia. Ma i raid aerei non aiutano i civili - migliaia le vittime e più di 5 milioni di profughe/i - ma il mercato delle armi

I talebani «conquistano» Kabul

I talebani «conquistano» Kabul © Ap

Quali altre guerre sbagliate, e che non si possono vincere, ci aspettano, dopo gli inutili bagni di sangue di Afghanistan e Iraq? A Kabul c’è stato “un fallimento epocale finito in maniera umiliante”, titolava il New York Times, quotidiano che ha appoggiato Biden nella campagna elettorale contro Trump. Eppure mai come adesso è vera la frase del grande musicista Frank Zappa: “La politica in Usa è la sezione intrattenimento dell’apparato militar-industriale”. Biden, come in una caricatura hollywoodiana, continuava a sostenere in tv che il potente esercito afghano avrebbe respinto i talebani che stavano già alla periferia di Kabul. Ma il ruolo presidenziale è proprio questo: raccontare bugie, anche insostenibili, e contare gli utili, prima ancora dei morti. Anche le dichiarazioni del segretario di stato Blinken – “abbiamo raggiunto gli obiettivi” – appaiono meno ridicole di quel che sono se viste in questa ottica.

GLI AMERICANI E LA NATO dicono di volere esportare democrazia, in realtà esportano prima di tutto armi: il resto – “nation-building”, diritti umani, diritti delle donne – è un delizioso intrattenimento per far credere che con le cannonate facciamo del bene. Se vuoi aiutare un popolo puoi farlo senza usare i fucili, questo tra l’altro insegnava Gino Strada, vituperato da vivo dagli stessi ipocriti che oggi lo incensano e all’epoca sostenevano le guerre del 2001 e del 2003.

CHI PAGA DAVVERO il prezzo del fallimento e il ritorno dei talebani non sono

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In pace. Non c’è retorica che tenga nel ricordarlo come un protagonista - il protagonista - del pacifismo internazionale, quella «terza potenza mondiale» che alla fine fu ripetutamente sconfitta dalle tante, troppe guerre attivate ormai da scelte bipartisan in nome dell’”umanitario” e/o della “democrazia”.

Gino Strada

 

Gino, il compagno Gino Strada ci ha lasciato. È una morte pesante per il manifesto. Perché ovunque si sia mostrata in questi ultimi trenta anni una scellerata guerra promossa dall’Occidente, o direttamente o indirettamente, con le sue devastanti conseguenze, come la disperazione dei profughi in fuga dalle ultime macerie o la scia di sangue del terrorismo di ritorno, lì abbiamo sempre trovato Gino, perfino prima di noi, impegnato a dire no al nuovo, inutile spargimento di sangue. Come dimenticare poi che per alcuni anni insieme abbiamo promosso, con questo giornale, le nuove iniziative umanitarie da lui attivate nel grande serbatoio delle nostre ricchezze, il continente africano.

Non c’è retorica che tenga nel ricordarlo come un protagonista – il protagonista – del pacifismo internazionale, quella «terza potenza mondiale» che alla fine fu ripetutamente sconfitta dalle tante, troppe guerre attivate ormai da scelte bipartisan in nome dell’”umanitario” e/o della “democrazia”.

Lui l’alternativa alla guerra la costruiva umanitariamente ogni giorno sul campo con la pratica di Emergency, negli ospedali che il suo pacifismo attivo – non a chiacchiere – apriva, dove le armi non entravano e pronti ad accogliere tutte le vittime bisognose di cura e soccorsi, abolendo così la figura del nemico.

È sconvolgente che Gino Strada muoia nel momento in cui muore, un’altra volta, l’Afghanistan dopo venti anni di occupazione militare delle missioni Usa e Nato, rioccupato da quei talebani che la guerra del 2001 voleva sconfiggere e punire, come vendetta dell’11 settembre. Tra meno di un mese è il ventesimo anniversario di quella data che ha cambiato il mondo e gli Stati uniti a guida Biden riconoscono – indirettamente – che quel conflitto, che tanto sangue è costato soprattutto dei civili, è stato insensato. Un comportamento criminale che oscura ancora di più le nebbie già fitte delle Twin Towers distrutte. Ma naturalmente la logica del dominio non può perdere la faccia, tutto sembra preordinato e tutto va sacrificato: basta salvare l’ambasciata americana.

Sembra un film ma non lo è. Regna il caos ora in terra afghana, tra rovine, disperazione dei civili in fuga e massacri che si annunciano. Così l’addio di Gino appare come una nemesi: se ne va, dalla parte del torto proprio quando aveva ragione, proprio mentre la scena del disastro che ha denunciato mille e mille volte è illuminata nei suoi recessi più nascosti e mentre trionfano le sue parole di pace e di critica all’intervento armato.
Ora la morte di un uomo buono, giusto ma irriducibile, figlio di una generazione tutt’altro che sottomessa, ci lascia un testimone prezioso: quello di essere all’opposizione di ogni avventura militare.

Gino Strada lascia eredi non solo nelle nostre convinzioni profonde ma nel comportamento di tanti giovani ancorché nascosti nelle pieghe quotidiane della cronaca.

Chissà cosa pensa, mi sono chiesto, quando solo due settimane fa – mentre l’Amministrazione Usa avviava il ritiro delle truppe sul terreno – un tribunale americano si affrettava a condannare per tradimento a quattro anni di prigione Daniel Hale, giovane analista dell’intelligence dell’aviazione Usa che, contro tutto e tutti, ha avuto il coraggio di denunciare i crimini a distanza sui civili afghani dei bombardamenti fatti con i droni. Un fatto è certo, la missione di Gino Strada costruttore di pace non finirà con lui. E ci chiama a ruolo e a responsabilità.

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