Stamattina la prima udienza a Monsoura, città natale del ricercatore. Cambiati i capi d’accusa: rischia 5 anni per un articolo del 2019
Dopo 19 mesi di carcerazione preventiva senza giustificazione legale, rinnovata di 45 giorni in 45 giorni, Patrick Zaki sarà trasferito questa mattina dal carcere di massima sicurezza di Tora, a sud del Cairo, fino a Mansoura, sua città natale situata a 130 km verso nord, dove avrà inizio il processo a suo carico. Non avendo trovato alcuna prova della «propaganda sovversiva» di cui era stato accusato adducendo alcuni post pubblicati su un account Facebook che la difesa ha dimostrato falso, il ricercatore egiziano, che dal settembre 2019 viveva a Bologna e lavorava per l’Università Alma Mater con una prestigiosa borsa di studio Erasmus Mundus, e che è stato arrestato al rientro in patria per una vacanza il 7 febbraio 2020, appena sceso dall’aereo, sarà processato per «un articolo pubblicato su Daraj, nel luglio 2019, intitolato “Spostamento, uccisione e restrizione: i diari di una settimana dei copti d’Egitto”», si legge sulla pagina Fb Patrick libero. Rischia cinque anni di carcere e la sentenza non è appellabile.
«L’ARTICOLO PRESENTA una settimana nella vita di Zaki come egiziano copto che reagisce agli eventi attuali riguardanti i cristiani egiziani, sia come questione di interesse pubblico che personale», riferisce il testo sottoscritto da una decina di organizzazioni a tutela dei diritti umani che condanna la decisione dei giudici egiziani e fa notare «l’ironia che l’incriminazione e il processo di Zaki davanti a un tribunale eccezionale giungano all’indomani del lancio della strategia statale per i diritti umani, in un evento in cui il presidente ha parlato a lungo del diritto alla libertà di religione e di credo e il diritto all’uguaglianza».
Dopo essere stato sottoposto ad interrogatorio il 13 luglio e il 9 settembre scorsi, caduta l’accusa di terrorismo, Zaki è ora chiamato a rispondere solo di uno dei capi d’imputazione originari: la «diffusione di notizie false in Egitto e all’estero allo scopo di danneggiare gli interessi nazionali, creare allarmismo nell’opinione pubblica, creare disturbo all’opinione pubblica». Davanti al «tribunale per i reati minori (di emergenza) della sicurezza dello Stato di Mansoura II, Zaki è stato incriminato sulla base degli articoli 80 (D) e 102 (bis) del codice penale», fanno sapere gli attivisti che lo sostengono.
MA, COME RIFERISCE al manifesto Riccardo Noury, portavoce di Amnesty international Italia, neppure la legale di Patrick, l’avvocatessa Hoda Nasrallah, fino a ieri sera aveva contezza di
Commenta (0 Commenti)Lavoro. Come già ai tempi di Keynes, oggi la qualità dell’occupazione dipende dalla composizione degli investimenti pubblici e dalla produzione relativa di beni
Un’opera di Jeffrey Smart
È da apprezzare che il ministro Giorgetti sposi la prospettiva del “lavoro di cittadinanza” richiamandosi alla nostra Costituzione che colloca nel nesso con il lavoro il fondamento del valore dell’essere “cittadini”. Ma l’espressione ”lavoro di cittadinanza” va maneggiata con molta cura. Perché carica di significati che, a loro volta, racchiudono implicazioni dalle quali non si può prescindere, e la più riguarda l’impegno dei governi che la fanno propria a contrastare in tutti i modi la disoccupazione e a realizzare la “piena e buona occupazione”.
Dunque, tornare ad attingere alla riflessione keynesiana sulla “piena e buona occupazione” non può avere né un carattere strumentale (magari in semplicistica polemica con il “reddito di cittadinanza”), né un carattere retorico-irenico. Deve avvenire, anzi, nella consapevolezza che il modello economico ancora dominante – da cui è nata anche la pandemia – non crea naturalmente e spontaneamente occupazione e sviluppo nell’entità e nella qualità che sarebbero auspicabili. C’è bisogno di un rovesciamento di paradigma: non “alimentare la crescita sperando che ne scaturisca lavoro”, ma “creare lavoro per attivare la crescita, cambiandone al tempo stesso qualità e natura”. Tutto ciò implica la disponibilità da parte dell’operatore pubblico, piuttosto che a ricorrere solo a misure incentivanti volte a stimolare indirettamente la generazione di lavoro (come incentivi fiscali, decontribuzioni, bonus, trasferimenti monetari, riduzioni del cuneo fiscale, ecc.), ad adottare “piani diretti di creazione di occupazione” mediante un insieme articolato di progetti, facendo di “programmazione” e ”capacità progettuale” le vere parole chiave.
Keynes, nel considerare le tendenze al sottoutilizzo sistematico dei fattori fondamentali della produzione – lavoro e capitale – che egli riteneva intrinseche al capitalismo e rimediabili soltanto con una “socializzazione dell’investimento” di natura pubblica, reclamava lo Stato come employer of last resort, atto a dare vita a iniziative di “lavoro garantito”, insistendo che “non dovrebbe essere difficile accorgersi che 100.000 case nuove rappresentano un’attività per la nazione mentre un milione di disoccupati sono una passività”.
D’altro canto, la pandemia ha mostrato, una volta di più, che le cose non funzionano nei termini presupposti dai cultori dell’economia main stream convinti che esista un livello “naturale” del reddito e dell’occupazione determinato esclusivamente da tecnologia, risorse e preferenze degli agenti economici: lo testimoniano in modo eclatante le anomalie della condizione occupazionale femminile e gli alti tassi di disoccupazione e di inattività delle donne e dei giovani, anche ad elevata scolarità.
In effetti, produzione e occupazione dipendono in modo persistente dalla domanda di beni, ha mostrato la corda l’idea che esista un tasso di disoccupazione “naturale” che può essere ridotto solo mediante l’incremento della flessibilità del mercato del lavoro e la riduzione dei salari e in molti casi – si pensi a tanti ambiti della “cura”, dei “beni culturali”, dei “beni sociali”, del “risanamento ambientale” – i mercati, semplicemente, “non esistono” o sono altamente “incompleti”.
Il nodo era ai tempi di Keynes, ed è tutt’oggi, la problematicità del processo di investimento capitalistico e la sua relazione con il lavoro, quella problematicità che lo induceva a denunziare “l’atroce anomalia della disoccupazione in un mondo pieno di bisogni”. Anche oggi la riflessione va ampliata in modo da enfatizzare la connessione investimenti/lavoro e intervenire sulla composizione degli investimenti e della produzione relativa, intrecciando la creazione di lavoro con la soluzione dei problemi aperti: i bisogni sociali insoddisfatti vanno soddisfatti, i beni pubblici di cui vi è carenza vanno prodotti, i beni comuni vanno preservati e coltivati.
Questo, e non altro, è il modo di prendere sul serio il dettato costituzionale restituendo pienamente il loro valore – dopo tanti tentativi di decostituzionalizzazione – alle grandi Costituzioni del secondo dopoguerra. In esse la triplice centralità del lavoro – antropologica (il lavoro tratto tipico della condizione umana), etica (il lavoro espressione primaria della partecipazione al vincolo sociale), economica (il lavoro base del valore che obbliga a politiche di piena occupazione) – segna un “profondo distacco” dalle elitarie concezioni precedenti.
In particolare la Costituzione italiana è consapevolmente volta a costruire una gerarchia assiologica al cui vertice si colloca la “dignità” l’epicentro della quale è il “lavoro”, un lavoro che deve garantire il rispetto della “dignità umana” e il pieno sviluppo della “persona”. Così si spiega, non con banali ricostruzioni sociologiche stigmatizzanti il taglio “lavoristico”, la straordinarietà del suo articolo iniziale, l’articolo 1 – “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” – che non è un episodio incidentale, né tanto meno un semplice ornamento.
Commenta (0 Commenti)L’annuale rapporto sui consumi curato da Coop scopre che gli acquisti del cibo dopo la pandemia sono orientati da «un nuovo sistema di valori» che guarda alla salute e alla sostenibilità ambientale
Nell’annuale rapporto Coop su consumi e stili di vita degli italiani, presentato l’altro ieri in una sala del Centro svizzero a Milano, si legge che il 53 per cento delle 1.500 persone e dei mille tra imprenditori, amministratori delegati e liberi professionisti interpellati adotta «un nuovo sistema di valori» rispetto al cibo. Un italiano su sei dichiara di adeguare la propria dieta all’impatto che questa ha sul clima.
SONO I COSIDDETTI «CLIMATARIANI», un neologismo coniato da ricercatori dell’università di Oxford e reso pubblico dal New York Times per indicare chi adegua la propria dieta in maniera da non nuocere al clima. Questa «nuova tribù alimentare» – che si aggiunge a vegani, vegetariani e pescetariani – non guarda solo alla propria salute ma all’impatto ambientale dei prodotti che acquista e mette in tavola. L’88 per cento delle persone interpellate nel dossier associa al cibo il concetto di sostenibilità, che per il 33 per cento significa avere un metodo di produzione rispettoso, per un altro 33 per cento attenzione agli imballaggi, per il 21 per cento è sinonimo di filiera e origine e per il 9 per cento di responsabilità etica.
GLI ITALIANI RICONOSCONO nel riscaldamento climatico «il principale fattore di cambiamento del cibo del futuro, sia prevedendone una maggiore scarsità a causa del climate change, sia immaginando che per salvare il clima occorrerà cambiare la nostra alimentazione», si legge nel dossier, anche grazie alle innovazioni introdotte dalla scienza e dalla tecnologia. Via libera, dunque, ai cibi vegetali dal sapore di carne e a base di alghe, alla farina di insetti e alla carne prodotta in laboratorio. Una rivoluzione che secondo Coop è già in corso, visto che nel 2020 sono stati investiti 6,2 miliardi di dollari in cibi e bevande di prossima generazione.
LA PIU’ GRANDE COOPERATIVA della grande distribuzione d’Italia è impegnata da tempo in politiche di sostenibilità ambientale. Ha aumentato in maniera progressiva la percentuale di plastica riciclata nelle bottiglie e ha ridotto la grammatura degli imballaggi, ha imposto regole stringenti agli allevamenti e vietato pratiche crudeli nei confronti degli animali come il taglio della coda dei suini negli allevamenti intensivi e la soppressione dei pulcini maschi, mentre incentiva tutte le pratiche che riducono gli sprechi di acqua e di terreno, come le coltivazioni idroponiche.
«SIAMO STATI I PRIMI A PROMUOVERE l’allevamento senza antibiotici e gli unici per ora a espellere il glifosato dalla coltivazione dei nostri prodotti freschi», dice l’amministratrice delegata Maura Latini. «Il governo dovrebbe sostenere i consumi eco-sostenibili», aggiunge il presidente Marco Pedroni.
IL RAPPORTO SPIEGA COME GLI ITALIANI abbiano modificato in profondità le loro abitudini durante la pandemia ed evidenzia la nuova centralità della casa rispetto ai luoghi di lavoro tradizionali e a quelli di aggregazione. Racconta della svolta proteica e vegetariana rispetto alle diete carnivore e ricche di carboidrati, delinea un futuro senza il gigantismo dei centri commerciali e con punti vendita più piccoli e «ibridati» con il digitale.
Il rischio è che sulla strada della sostenibilità si abbatta ora la mannaia di un aumento incontrollato dei prezzi, in una spirale inflattiva che peserebbe sulle tasche degli italiani, già in difficoltà per la pandemia.
NEL PRIMO SEMESTRE DEL 2021 sono diminuiti dello 0,7 per cento, ma i costi delle materie prime e dell’energia stanno aumentando in maniera vertiginosa e questo di qui a qualche mese potrebbe riflettersi sugli scaffali dei supermercati. «Si profila una situazione in cui la domanda interna resta bassa e l’inflazione da costi esterni può avere effetti depressivi importanti sulla congiuntura economica», dice ancora Pedroni.
L’ITALIA SI STA RIMETTENDO IN MOTO dopo i lockdown, c’è ottimismo ma la ripresa è ancora fragile e rischia di essere soffocata prima ancora che faccia sentire i suoi effetti. 27 milioni di italiani nel 2021 sono stati costretti a fare delle rinunce perché in situazioni di disagio economico, cinque milioni temono ancora di non riuscire a mettere insieme il pranzo e la cena nel prossimo futuro.
L’obiettivo è arrivare ad un «prezzo giusto», che non scarichi solo sui consumatori la spirale inflattiva e tenga conto della sostenibilità ambientale e pure di quella sociale.
Intervista. Il coordinatore di «Energiaperlitalia», professore emerito a Bologna, ha lanciato un appello accorato contro il via libera estivo alle ricerche di gas a Lugo (Ravenna): mi hanno lasciato sbalordito
Le cattive notizie non vanno mai in ferie», così Vincenzo Balzani, professore emerito dell’Università di Bologna e coordinatore di Energiaperlitalia.it, inizia il suo appello diffuso via social contro le nuove trivellazioni a Lugo, nel ravennate. All’inizio del mese di agosto, il ministero della Transizione Ecologica ha infatti emesso un provvedimento di autorizzazione ai lavori di perforazione del pozzo «Longanesi 3 Dir» allo scopo di estrarre metano nella concessione «San Potito». Il nuovo pozzo avrà una profondità di circa 2.800 metri. L’autorizzazione, che fa riferimento a passate deliberazione regionali (n. 1332/2019) e alla Valutazione di impatto ambientale (n. 2266/2016), è stata concessa alla società Padana Energia s.p.a, del gruppo Gas Plus, che si autodefinisce «uno dei principali operatori nella produzione di gas onshore dell’Italia settentrionale».
Professor Balzani, perché ha lanciato questo appello contro le perforazioni a Lugo?
Questa autorizzazione mi ha lasciato sbalordito. Mi sono chiesto come sia stato possibile concederla, dopo il lancio del Next Generation Eu, il Pnrr e il recente documento dell’Ipcc sui cambiamenti climatici. I combustibili fossili attualmente estratti sono in quantità già molto superiore a quella che si potrebbe utilizzare se si vuole salvare il clima. La cosa ridicola è che il documento di autorizzazione inizia citando un Regio Decreto del 1927. Non so cosa dica quel decreto, ma so che da più di settanta anni abbiamo la Repubblica Italiana, che la prima cella fotovoltaica è stata inventata nel 1954, e che il fotovoltaico converte l’energia solare in energia elettrica con un’efficienza cento volte maggiore di quella della fotosintesi naturale senza generare inquinamento e gas serra. Oltretutto siamo il paese del Sole!
Questa autorizzazione però non è nuova, sembra un atto dovuto di un iter già avviato da anni?
Dicono che si tratta di provvedimenti già da tempo approvati e che, in caso di mancata autorizzazione finale, la compagnia petrolifera avrebbe potuto far causa al governo. A mio parere, sarebbe stata un’ottima occasione per far conoscere ai cittadini la realtà del cambiamento climatico, definito dalla conferenza di Parigi come «la minaccia più grave per l’umanità», minaccia che, come sanno bene gli scienziati e come scrive Papa Francesco nell’enciclica Laudato si’, è possibile scongiurare solo smettendo di usare i combustibili fossili. Dal Ministero della Transizione Ecologica e dalla Regione Emilia Romagna, se veramente si fosse trattato di un atto dovuto, mi sarei aspettato almeno una dichiarazione per ammettere l’errore fatto negli anni passati concedendo questa autorizzazione, che ora ritengono irrevocabile.
Il ministro Cingolani ha definito gli ambientalisti dei «radical chic» accusandoli di essere «peggio della catastrofe climatica». Un’accusa pesante, non crede?
In molti abbiamo auspicato la costituzione di questo ministero, ma il ministro non si dimostra all’altezza di questo compito. Anziché incoraggiare i cittadini, fa dichiarazioni sconsiderate. Ad esempio, anziché parlare della necessità di riqualificare i lavoratori del comparto fossile per sviluppare le energie rinnovabili, parla del rischio di «bagno di sangue». Eppure è noto che la transizione energetica porterà ad un aumento dei posti di lavoro. Ugualmente, delinea un futuro funesto con frasi del tipo «morire di ambiente o morire di fame». Se il Ministero vuole informarci sui disastri, lo faccia ricordandoci che dal 1970 al 2019 si sono verificati 11.000 eventi estremi climatici che hanno causato più di 2 milioni di morti e danni per 3.600 miliardi di dollari. Ma per distrarre da questi numeri e per ostacolare la transizione alle energie rinnovabili, parla spesso di altri argomenti come il nucleare di IV generazione e della fusione nucleare, tutte tecnologie queste sì non mature e collegate a gravi problemi economici e sociali.
Il territorio italiano può produrre energie rinnovabili a sufficienza?
Ci sono già molti studi che dimostrano che la conversione dall’uso dei combustibili fossili alle energie rinnovabili (solare, eolica e idroelettrica) è non solo possibile, ma anche economicamente conveniente. In particolare, uno studio dell’Università di Stanford si interessa anche della specifica situazione italiana e dimostra che entro il 2050 l’Italia potrebbe affrancarsi dall’uso dei combustibili fossili e produrre tutta l’energia che serve con fotovoltaico (57%), eolico (26%), solare a concentrazione (13%) e idroelettrico (4%), con un aumento di 770.000 posti di lavoro e un risparmio medio per persona do 6.800 euro.
Eni e le altre compagnie Oil & Gas definiscono il metano necessario per la transizione. La stessa cosa la dice anche il ministro Cingolani.
Quello che i sostenitori del gas non ci dicono mai è che il metano è un gas serra 70 volte più potente della CO2 e che nella lunga filiera del metano (pozzi di estrazione, tubi, valvole, rubinetti) ci sono inevitabili e poco monitorate fuoriuscite di gas. Si stima che questo «metano fuggitivo» sia circa il 3% di quello consumato, per cui il metano contribuisce in maniera non trascurabile al cambiamento climatico.
L’Europa potrebbe fermare questi progetti di trivellazioni?
Non so se può entrare nei dettagli dei piani nazionali, ma grazie alla Commissione Europea il governo ha dovuto ridurre da 4,2 a 2,8 miliardi i fondi dedicati nel Pnrr all’idrogeno e ha così dovuto rinunciare a finanziare il progettato impianto Ccs (Carbon Capture and Storage) che Eni vorrebbe costruire a Ravenna e che una forte azione di lobby (102 incontri fra industria fossile e ministeri sul Pnrr) era riuscita ad inserire nel piano per produrre il cosiddetto idrogeno blu.
Marzo 2021, Letta a sorpresa al circolo Pd di Testaccio a Roma © LaPresse
Come ogni inizio settembre la discussione politica pare rianimarsi. Quest’anno non solo con riferimento alle amministrative del mese prossimo, ma con un minimo di respiro in più, con una ripresa di interesse per la prospettiva, al netto ovviamente di polemiche sterili e asfittiche.
Anche nel centro-sinistra c’è una ripresa di discussione, se pure come sempre in assenza di un vero ed autonomo punto di vista di sinistra. A fronte degli attacchi di Salvini alla tenuta del governo di cui pure è parte (e del riavvicinamento con Meloni), apprendiamo dal Manifesto che Enrico Letta ha dichiarato: «Il Pd è il partito più draghiano dell’intero schieramento politico». Insomma il Partito del Presidente (del Consiglio) del Governo del Presidente (della Repubblica). Non il modo migliore di riprendere a discutere.
Letta che pure è divenuto segretario di contro alla componente interna che aveva fatto cadere il governo Conte II (penso alla giusta turnazione dei due capigruppo di estrazione renziana, che Zingaretti, va ricordato, non fece), posiziona ora il partito a difesa strenua del premier succeduto a Conte.
A stretto giro gli ha risposto Bettini: «Questo è un governo dove coesistono posizioni diverse su tutto, dal lavoro, all’Europa, alla lotta al Covid». Quando si sceglie di far parte di una maggioranza di «solidarietà nazionale» si sa che va a finire così, Bettini comunque conclude: «Bisogna che riprenda la dialettica democratica». Pare di capire quella di una alternativa fra destra e sinistra, dove tutte le parti recuperano la loro identità e vocazione maggioritaria, in una logica di alternanza fra progetti, prospettive, classi politiche. Bettini lascia intendere di preferire un trasloco di Draghi al Quirinale, chiudendo l’esperienza dell’attuale governo e andando al voto, ovviamente con il prediletto schieramento Pd-5Stelle.
È chiaro che il quadro politico è debole e la proposta di Bettini non è credibile. Se la destra può accontentarsi dell’accordo tattico Salvini-Meloni, il centro-sinistra avrebbe bisogno di una strategia. E invece il Pd è scisso fra un segretario che si considera «il più draghiano» di tutti e chi dice: quello di Draghi «non è il nostro governo».
Puntualmente i sondaggi registrano questa confusione, inchiodando Letta alla stessa misura di Zingaretti. E allo stesso destino.
E a sinistra? Fratoianni ha il merito di fare opposizione, ma il demerito di non fare politica. Questa schizofrenia fra contrarietà a Draghi e mancanza di alternativa impedisce alla sinistra di stare nel dibattito politico. Ad esempio indicando una alternativa a Letta e Bettini.
Sono anni che la sinistra radicale resta così, bloccata, inutile e corresponsabile.
Sponda Mdp Bersani ha dichiarato: «Una volta c’erano il Pci e il Psi. Ma oggi la sinistra dove sta?» Come direbbe quel tale: si faccia una domanda, si dia una risposta. Elly Schlein dal canto suo lamenta il Pd che ha fatto il Jobs Act e mille altre cose, poi però in Emilia Romagna è vicepresidente di Bonaccini, con il suo autonomismo regionale e un piano urbanistico ambientalmente pessimo. Per altro partecipa alle «Agorà» di Letta, che poi sono le stesse di «Piazza Grande» di Zingaretti. Cose che, qui ha ragione Bersani, servono solo a «dare un po’ d’aria al Pd».
Questi sono gli interlocutori. Questo il livello della discussione.
Che possiamo sperare? C’è voluto un opinionista moderato come Sabino Cassese per parlare sul Corriere di una «politica fuoco-fatuo», fatta solo di chiacchiere e tatticismi, dove «l’organizzazione è sostituita dal leader» e dove la strategia è surrogata dalla «single issue politics».
Poi ci lamentiamo dell’antipolitica, del populismo, del sovranismo e della sinistra scomparsa. La strada è una sola, accidentata e in salita: un nuovo insediamento sociale, nuove idee, nuova organizzazione, soprattutto gente nuova.
Commenta (0 Commenti)Reddito di cittadinanza. Secondo i più recenti dati Inps, sono stati più di 1,6 milioni di nuclei familiari a ricevere almeno una mensilità del RdC nel periodo giugno-luglio 2021 (per un totale 3,7 milioni di persone interessate), per un importo medio di 579 euro
La discussione sul reddito di cittadinanza (RdC) che si è riaperta di recente ha finora avuto il merito di svelare le posizioni in campo, rivelando un discrimine dalle origini antiche tra chi ritiene quella della povertà come una condizione subita e chi invece la considera una colpa. La povertà, ovvero la mancata disponibilità di mezzi sufficienti alla sussistenza – definizione dell’Istat – è infatti il risultato di una esclusione non volontaria e spesso duratura dal mercato del lavoro. Sostenere che questa sia «ricercata» è ovviamente insensato, anche quando questa potrebbe essere sostenuta dalla ricezione di un sussidio. Perché non guarda a come quella condizione si genera.
La povertà in Italia esiste e riguarda una fascia di popolazione non esigua. Se prima della pandemia quella che l’Istat chiama povertà assoluta riguardava già 4,6 milioni di persone, nel 2020 ha interessato ben 5,6 milioni di cittadini. Che sarebbero stati anche di più, secondo uno studio della Caritas, se non vi fosse stato il RdC (ma su 100 indigenti, solo 44 ricevono il sussidio). Il fatto è che per avere il RdC è richiesta una residenza di almeno dieci anni – tagliando fuori un buon numero di immigrati – e un reddito (e patrimonio) la cui soglia è unica a livello nazionale. Essendo però il costo della vita superiore al Nord, il tasso di copertura del 44% è pari al 95% al Sud e scende al 37% al Nord, escludendo così molti dei poveri che risiedono nel Settentrione (dove si trova anche la maggior parte degli immigrati).
Secondo i più recenti dati Inps,
Leggi tutto: I poveri non hanno colpe, il mercato del lavoro si - di Pier Giorgio Ardeni
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