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Maurizio Cattelan, Blind, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2021 © Maurizio Cattelan, Marian Goodman Gallery e Pirelli HangarBicocca, Milano / foto Agostino Osio

Vi ricordate quel bel film collettivo proiettato solo un anno dopo l’«11 Settembre», e chiamato proprio così? 11 autori, i registi fra i più famosi del momento, di 11 diversi paesi (Francia, Egitto, Bosnia, Burkina Faso, Gran Bretagna, Messico, Israele, India, Giappone, Usa), ognuno dunque con un’idea differente su quanto quell’avvenimento verificatosi a New York gli aveva suscitato, con una pellicola in cui ognuno aveva a disposizione 11 minuti, 9 secondi, un fotogramma: 11/9/01, la fatidica data, appunto.

Idee/immagini diverse, perché diverso era stato l’impatto dell’accaduto, a seconda della diversissima condizione geografica, sociale, culturale di chi ne era stato investito. E così il filmato di Ken Loach parlava solo di un altro, e per lui ben più grave 11 settembre, quello del golpe cileno, provocato dall’imperialismo americano. Mentre la giovanissima regista iraniana Samira Makmalbaf si immedesima già nel nuovo presente: una sgangherata scuola al confine con l’Afghanistan e una maestra che chiede ai bambini, il 12 settembre 2001, se sapevano dirgli cosa era accaduto il giorno prima e risultava che quanto quel giorno li aveva colpiti era la morte del nonno di uno di loro nel pozzo pericolante del campo rifugiati dove si trovavano. E poi, fra i tanti spezzoni di filmato che ricordo bene, quello di Sean Penn, su un vecchio vedovo solitario e povero che vive a New York in una stanza buia dalla cui finestra arriva, inaspettato, un raggio di sole che gli riporta un momento d’allegria, prima sempre oscurato da una delle incombenti Torri gemelle.

Mi domando oggi, a distanza di 20 anni, se

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La ricaduta. Oggi si cercano di vendere come novità cose di 30 anni fa. Ecco perché, vent’anni dopo l’11 settembre 2001, gli americani hanno riconsegnato l’Afghanistan ai talebani: era un copione in parte già scritto perché sono decenni che gli americani, con alterne fortune, «giocano» con integralisti e terroristi

In un articolo apparso su Limes nel marzo 1994 scrivevo di Osama Bin Laden, del ruolo della Cia e dei collegamenti con i gruppi jihadisti in Medio Oriente e in Bosnia. E del primo attentato alle Torri Gemelle del ’93: era l’11 settembre prima dell’11 settembre.

Oggi si cercano di vendere come novità cose di 30 anni fa. Ecco perché, vent’anni dopo l’11 settembre 2001, gli americani hanno riconsegnato l’Afghanistan ai talebani: era un copione in parte già scritto perché sono decenni che gli americani, con alterne fortune, «giocano» con integralisti e terroristi.

Agli inizi del ’94 non era passato molto tempo da quando democratici e repubblicani erano uniti al Congresso in un coro appassionato per appoggiare la «giusta guerra» dei mujaheddin afghani contro il regime di Najibullah e i suoi alleati sovietici. Soltanto due anni, poi, erano trascorsi dalla caduta di Kabul, nell’aprile ‘92, e dalla vittoria contro i comunisti. Un’altra guerra in quel momento insanguinava l’Afghanistan: il primo ministro fondamentalista Gulbuddin Hekmatyar, in alleanza con un ex comunista, il generale uzbeko Dostum, stava mettendo alle corde il presidente Rabbani mentre le ambasciate a Kabul erano state chiuse, le organizzazioni umanitarie avevano sbarrato le loro sedi una nuova ondata di profughi si rovesciava in Pakistan. Quel 1994 afghano somigliava un pò al 2021.

L’Afghanistan era dilaniato da feroci divisioni etniche e settarie ma a Washington l’«operazione Kabul» contro l’Urss veniva comunque classificata come uno dei più clamorosi successi degli Usa. In stretta partnership con il Pakistan e gli arabi del Golfo, l’America aveva riversato la maggior parte dei suoi aiuti all’integralista Hekmatyar, alleato dei leader musulmani più radicali, che aiutavano il terrorismo islamico in Asia e in Medio Oriente.

I più estremisti continuavano a ricevere sostanziosi aiuti dall’Arabia Saudita che, in feroce concorrenza con l’Iran degli ayatollah, tentava di mettere il proprio «sigillo» finanziario e ideologico sui movimenti integralisti. Con risultati discutibili, considerando che la «pista afghana» era tra le matrici del terrorismo e della guerriglia islamica dall’Alto Nilo fino alle montagne dell’Atlante.

Nel ‘93 la Cia fu costretta a stanziare 65 milioni di dollari per riacquistare sul mercato nero centinaia di missili Stinger americani non utilizzati dai mujaheddin durante la guerra contro il regime di Kabul. «Gli americani – mi disse allora lo storico Olivier Roy, consigliere di Parigi ai tempi del conflitto afghano – stanno girando il mondo con valigie gonfie di dollari per comprare il silenzio dei loro ex alleati: perché gli Stati Uniti hanno molte cose da nascondere e gli islamici hanno dei dossier su di loro».

Agli inizi degli anni Ottanta combattevano in Afghanistan tra i 3 mila e i 3.500 arabi: alla fine del decennio soltanto tra i battaglioni di Hekmatyar ne erano stati arruolati 16 mila. Gli Stati Uniti credevano allora di manipolare gli islamici per mettere alle corde Mosca. Gli Usa inoltre aveva delineato un altro obiettivo.

Washington infatti si proponeva di incoraggiare un fondamentalismo sunnita di stampo conservatore, alleato dell’Occidente, da opporre all’integralismo sciita degli ayatollah iraniani. Questa visione «strategica» era condivisa dai sauditi che per anni avevano foraggiato tutti i movimenti integralisti.

Gli americani durante gli anni Ottanta si servirono di una serie di «stelle» della galassia integralista, tra questi lo sceicco egiziano Omar Abdul Rahman.

I rapporti tra gli Usa e lo sceicco presentavano molti lati oscuri. Il 26 febbraio 1993 un furgone-bomba esplose nel parcheggio sotterraneo del World Trade Center a Manhattan con l’intenzione di causare una strage con l’implosione delle Torri Gemelle. Le strutture portanti del grattacielo tennero e non crollò, ma rimasero uccise 6 persone e ci furono mille feriti.

Secondo una versione della storia, Rahman – arrestato come ispiratore dell’attentato alle torri del World Trade Center – sarebbe stato presentato alla Cia da Hekmatyar in Pakistan, nell’88. Questo dava credito alla tesi secondo cui era stato un agente dell’ambasciata Usa di Khartoum a rilasciargli il visto per gli Usa.

L’attentato alle Torri Gemelle di New York del ‘93 dimostrava già allora quanto fosse pesante l’eredità della strategia americana in Afghanistan. Gran parte dei protagonisti dell’«affaire» erano infatti ex combattenti della guerra santa contro Mosca. Tariq el-Hassan, un sudanese arrestato nel 93 che progettava di far saltare il tunnel dell’Onu e la sede dell’Fbi, per diversi anni aveva gestito in Usa un centro di transito dei volontari per l’Afghanistan. Tutto con il consenso della Cia.

Dalle file dei combattenti dello sceicco Omar Abdul Rahman, accompagnato dal suo luogotenente palestinese Abdullah Azam, mentore di Osama bin Laden, uscivano i guerriglieri che si infiltrarono poi a migliaia in Algeria, nella valle dell’Alto Nilo, in Egitto, Yemen, Sudan, e i nuclei dei terroristi islamici.

«Quando sarà riscritta la storia della resistenza afghana – affermava sull’Independent del 6 dicembre ‘93 Robert Fisk introducendo un’intervista a Bin Laden, fondatore di Al Qaeda – bisognerà assegnare un ruolo di primo piano a questo uomo d’affari, sia per il suo contributo alla guerriglia che per la parte avuta nelle recenti vicende del fondamentalismo islamico». Robert, come spesso accadeva, ci aveva visto lungo.

 

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La campagna. Assemblea internazionale della rete Move Up

Dosi di vaccini

 

Una bocciatura secca. È il giudizio sul G20 Salute che la rete Move Up, contro i profitti sulla pandemia, ha espresso ieri in un’assemblea internazionale che si è svolta online. «La logica della carità non funziona dal punto di vista sanitario e fa il gioco delle multinazionali del farmaco. L’Unione Europea, poi, non ha mantenuto neanche le promesse: del miliardo di dosi che avrebbe dovuto donare ai paesi poveri ne ha consegnate solo 200 milioni», ha detto Manon Aubry eurodeputata francese e co-presidente del gruppo della sinistra Gue/Ngl.

Al centro della discussione un dato: nel mondo sono stati somministrati 5 miliardi di vaccini, ma quasi il 75% delle dosi è finito in dieci paesi. Sono i numeri elencati ieri dal direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) Tedros Adhanom Ghebreyesus nel suo monito ai venti ministri della Salute. Le statistiche non mentono. Nell’Ue il 64,7% della popolazione ha ricevuto una dose e il 58,4% due. La copertura vaccinale media in Africa è del 2%. Per gli 86,79 milioni di congolesi sono arrivati appena 98mila vaccini. Una dose è stata somministrata allo 0,2% dei vaccinabili in Ciad e allo 0,7% in Madagascar. Dati terribili anche

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Sembrerebbe la vecchia storia del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Ma in questo caso siamo oltre, visto che compaiono valutazioni addirittura opposte sui dati dell’occupazione diffusi dall’Istat il primo luglio. Il giorno dopo il giornale della Confindustria spara in prima pagina: «Lavoro, 24mila dipendenti in più». Il quotidiano di punta del gruppo Gedi nella stessa giornata titola «Cala il lavoro. Aumenta solo il tempo determinato».

Non si tratta di punti di vista, ma di letture corrette o scorrette dei dati forniti. Chi ha ragione quindi? Non è difficile scoprirlo, basta leggere con attenzione quanto l’Istat ci comunica. «Il mese di luglio 2021 registra, rispetto al mese precedente – si legge nel comunicato stampa rilasciato dall’Istituto – una diminuzione nel numero degli occupati e di disoccupati e una crescita in quello degli inattivi».

Per chiarire la solo apparente contraddizione tra calo contemporaneo degli occupati e dei disoccupati, in un quadro che vede il tasso di occupazione rimanere basso e stabile al 58,4%, bisogna tenere conto che nel novero degli occupati mancano complessivamente, rispetto al febbraio 2020, cioè all’inizio della pandemia, 265mila persone.

Ricordiamo che l’Istat considera come occupati anche coloro che «hanno svolto almeno un’ora di lavoro a fini di retribuzione o di profitto» nella settimana di riferimento nella quale cioè è stata compiuta la rilevazione. Le più colpite sono le cosiddette partite Iva (-294mila da febbraio 2020), legate ai settori più investiti dalle restrizioni derivanti dalle misure antipandemiche. I posti a tempo indeterminato sono comunque diminuiti di 50mila unità, mentre a salire sono solo i lavoratori a termine, tra cui sono compresi anche quelli a somministrazione, cioè quelli del lavoro interinale.

Che sfiorano i valori record del 2019, confermando che i segnali di ripresa, più 2,7% nel secondo trimestre 2021, si fondano soprattutto su un’ulteriore precarizzazione del lavoro. Se restringiamo l’arco temporale all’anno in corso, sono 550 mila gli occupati «alle dipendenze» recuperati, ma di questi, sottolinea l’Istat, ben 309mila sono a scadenza incorporata.

Per quanto riguarda i restanti c’è poco da gioire. Infatti, come questo giornale ha già rilevato nei giorni scorsi, si tratta ancora di capire se siamo di fronte a nuove assunzioni, e quante, o se invece si tratta semplicemente di un rientro nel conteggio degli occupati dei lavoratori messi in cassa integrazione.
Infatti, in ottemperanza ai nuovi criteri europei, i cassaintegrati da più di tre mesi sono considerati inattivi fintanto che non trovano un altro posto di lavoro oppure rientrano in quello che prima occupavano.

Infine, ma anche il giornale della Confindustria non può nasconderlo, se il tasso di disoccupazione degli under 25 ha avuto un leggero miglioramento, siamo pur sempre al 27,7%, terz’ultimi nella Ue prima di Spagna (35,1%) e Grecia (37,6%) secondo Eurostat.

L’aumento degli inattivi (più 160mila rispetto a febbraio 2020) sono uomini, ma tra le donne sono ancora da recuperare 106mila occupate. In sostanza la crisi sta cambiando in peggio la struttura dell’occupazione e del mercato del lavoro: più precarietà e inattività, i giovani a spasso, le donne a casa.

Una sintesi sbrigativa, ma almeno non menzognera. Così è del tutto improbabile anche solo limitarsi alla resilienza, del tutto impossibile mettere in atto un cambiamento del modello produttivo e sociale.

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Diseguaglianze. La priorità era dei comuni svantaggiati, per ridurre i divari, come da indicazioni Ue. Ma si scopre che tra questi ce ne sono tra i più ricchi del paese. Il governo non può non sapere

In un asilo nido  © LaPresse

Sulla stampa napoletana (Marco Esposito, Il Mattino, 2 settembre) leggiamo dell’assegnazione di 700 milioni in materia di materne e asili nido, da inserire nella contabilità del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). In principio, la priorità era dei comuni svantaggiati, per ridurre divari territoriali e diseguaglianze in linea con le indicazioni Ue. Ma si scopre che tra i comuni «svantaggiati» compaiono alcuni tra i più ricchi del paese, che drenano risorse a danno di quelli più poveri secondo i parametri economici pur richiamati nel bando.

Come al solito, il trucco c’è, e si vede. Il bando di gara prevedeva che il cofinanziamento da parte dei comuni desse un punteggio aggiuntivo commisurato all’entità. Ed è allora ovvio che il comune ricco possa cofinanziare di più. Così, il comune di Milano vince su Venafro (provincia di Isernia), che pure lo precedeva in classifica prima del cofinanziamento. Milano batte Venafro uno a zero.

È STORIA ANTICA. Ad esempio, un meccanismo non diverso ha penalizzato le Università del Mezzogiorno nella assegnazione di risorse legate all’eccellenza perché questa è misurata tra l’altro con il tempo necessario per trovare un posto di lavoro dopo la laurea. Una competizione che gli atenei meridionali possono solo perdere, e non per proprio demerito.

Questo paese deve decidere se vuole davvero ridurre divari territoriali e diseguaglianze, oppure no. Chi a Palazzo Chigi ha scritto la clausola del cofinanziamento non poteva essere tanto stupido da non sapere. Dolo, e non colpa. Questo insegna che sull’attuazione del Pnrr è indispensabile mantenere una occhiuta vigilanza. Tanto più che è ormai documentata – in specie da Adriano Giannola presidente Svimez – l’ingannevolezza della tesi della «locomotiva del Nord». Le statistiche dimostrano che il Nord vincente in Italia affonda nelle classifiche territoriali europee, mentre le regioni del Centro progressivamente si meridionalizzano.

LA «LOCOMOTIVA DEL NORD» ha trainato l’Italia nella stagnazione. Bisogna invece avviare il secondo motore del paese nel Sud, e a tal fine non bastano certo il turismo, la cultura e qualche eccellenza agroalimentare. Sono indispensabili un progetto lungimirante e una ferma volontà politica. In questo contesto colpiscono in specie due cose. La prima è l’esternazione di Conte sulla legge speciale per Milano, considerata la vera locomotiva d’Italia. Non vogliamo pensare che ignori il contrasto radicale tra la locomotiva del Nord e il secondo motore da avviare nel Sud. La sua proposta è del resto opinabile anche con riferimento alla sola Lombardia e alle sue aree svantaggiate. Capiamo la sua ansia di cercare legittimazione e consensi come capo politico del Movimento 5S.

Ma la via scelta non è quella giusta, pur nel contesto della competizione amministrativa in atto. In prospettiva, servirà poco a M5S racimolare qualche stentato consenso in più nell’arco del Nord, dove è in una condizione di comparativa debolezza. La seconda è la ripartenza del circo dell’autonomia differenziata. È anzitutto censurabile che la ministra Gelmini riprenda la prassi dell’occultamento targata Stefani. Le rumorose rimostranze di Zaia riportate in specie dalla stampa locale ci dicono dell’esistenza di bozze di accordo. Diversamente, di cosa si lamenta? Ma sono tenute, per quel che sappiamo, coperte, e dovremo aspettare qualche meritoria gola profonda che le renda pubbliche.

VOGLIAMO SAPERE su cosa si sta trattando, in che termini, e con chi. Come si vuole modificare la legge quadro già di Boccia? Quali conclusioni ha raggiunto la commissione istituita dalla ministra? È vero o no che Zaia non vuole assolutamente che il Parlamento metta mano sugli accordi raggiunti tra le singole regioni e Palazzo Chigi? È vero o no che si vuole attivare il federalismo fiscale – che impatta sulla distribuzione territoriale delle risorse – prima del 2026, e quindi senza sapere quale paese uscirà dal Pnrr?

Quel che accade non è degno di un paese democratico. Ci aspettiamo che i parlamentari delle commissioni competenti – affari costituzionali, finanze, bilancio, bicamerali per le questioni regionali e il federalismo fiscale – pretendano di vedere le carte e di discutere. O forse preferiscono vivacchiare, magari sperando che alla fine arrivi la mordacchia di una questione di fiducia? Sarebbe allora difficile contrastare l’opinione di non pochi che gli eletti siano solo dei costosi mangiapane a ufo.

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Un coraggio del genere. «Vogliamo diritti e libertà». «No, il vostro posto è a casa». A rischio anche l’istruzione. E nel Panjshir s’intensificano i combattimenti

Donne in protesta a Kabul  © LaPresse

«Diritti e libertà», gridano le donne a Kabul. «Il vostro posto è a casa», replicano i Talebani. Ieri a Kabul si è tenuta un’altra dimostrazione di donne, dopo quella del giorno prima a Herat. Coraggiosamente, pubblicamente, rivendicavano diritti, lavoro, libertà, educazione, in una città in cui cambia anche il paesaggio urbano: cominciano a sparire i graffiti del gruppo ArtLords, sostituiti dagli ammonimenti di mullah Haibatullah Akhundzada: «Non seguite la propaganda del nemico». Mentre i turbanti neri sostengono di aver conquistato anche l’ultimo territorio, la valle del Panjshir, anche se i protagonisti della resistenza, Amrullah Saleh e Ahmad Massud, negano.

SI È APERTA DUNQUE con una dimostrazione di coraggio la giornata di ieri a Kabul, dove in molti attendevano l’annuncio del nuovo governo, che ancora non c’è: problemi di incarichi, dissidi interni, mormora più di uno. Per le vie della capitale hanno manifestato una ventina di donne. Poche, ma coraggiose. Scandivano slogan chiari: ci siamo, facciamo parte del Paese, vogliamo studiare, lavorare, partecipare, far sentire la nostra voce. La manifestazione è stata interrotta, di fronte al ministero delle Finanze, da un paio di militanti islamisti. Intervenuti con le maniere forti. «Tornatevene a casa, non è il vostro posto, qui».

LA PROTESTA SEGUE quella che due giorni fa si è tenuta a Herat,

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