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Giustizia Sociale. In Cassazione la legge di iniziativa popolare: parte la raccolta di firme. Denominata "Next generation tax", sondaggi a favore. Fratoianni: diamo spazio ai giovani

Il segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni alla Corte di Cassazione

Il segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni alla Corte di Cassazione © Foto LaPresse

Depositata ieri mattina in Cassazione da una delegazione di Sinistra Italian la proposta di legge di iniziativa popolare per una tassazione delle grandi ricchezze e per far pagare meno chi paga regolarmente le tasse. È stato denominata «Next generation tax».
La proposta di legge ricalca l’emendamento presentato alla scorsa legge di bilancio: sostituire l’Imu e l’imposta di bollo sui conti correnti bancari e sui depositi titoli con una patrimoniale unica e progressiva sui grandi patrimoni con base superiore a 500mila euro derivante dalla somma dei beni mobili e immobili posseduti che vada dallo 0,2% al 2% per una base imponibile superiore ai 50 milioni di euro (che sale al 3% solo per il 2022 per finanziare le spese imposte dall’emergenza Covid).
Con cento banchetti in tutta Italia, parte per i prossimi mesi la raccolta di 50mila firme. «Si tratta di una proposta di giustizia che permetta di avere maggiori risorse per i giovani, per i diritti, per gli asili nido, per i libri di testo gratuiti a chi non se li può permettere», sostiene Nicola Fratoianni presentando i contenuti della proposta di legge che, sottolinea Giovanni Paglia, «non introduce una patrimoniale ma riforma quella che c’è già in Italia con una forte dose di progressività e un riequilibrio della pressione fiscale sui ceti a reddito medio e basso».
La proposta di «Next Generation tax», spiegano da Sinistra italiana, piace agli italiani, e non solo a quella di sinistra. Secondo un sondaggio commissionato a Swg, i cui dati sono stati presentati in conferenza alla Camera, la patrimoniale con le caratteristiche indicata da Si raccoglie il favore di oltre il 60% degli interpellati, con un consenso non solo tra gli elettori del centrosinistra ma anche tra quelli della Lega e di Fdi. Solo il 30% degli interpellati si dice contrario. «Il che vuol dire – sottolinea Fratoianni – che quando viene spiegata per quello che è, la gente apprezza e condivide questo tipo di patrimoniale che riequilibra un fisco ingiusto».
Fra i primi firmatari figurano anche la deputata Doriana Sarli, le senatrici Elena Fattori, Virginia La Mura, Paola Nugnes. Hanno aderito all’iniziativa il consigliere regionale della Sardegna Massimo Zedda e l’europarlamentare Massimiliano Smeriglio.
La proposta di Sinistra Italiana per una patrimoniale «è la naturale evoluzione dell’emendamento che presentammo in legge di bilancio. Mi pare molto bello che Fratoianni abbia scelto lo strumento della legge di iniziativa popolare per riproporlo. Ovviamente firmerò e sono convinto che molti elettori del Pd e tanti cittadini faranno lo stesso», dichiara il deputato Pd Matteo Orfini.

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Acqua pubblica. La politica è rimasta sorda e non ha rispettato la decisione del popolo italiano. In questi 10 anni abbiamo avuto 8 governi, ma nessuno si è azzardato a ripubblicizzare l’acqua

Roma, luglio 2010. Un momento della manifestazione per la consegna delle firme oer il referendum dell’acqua pubblica

Roma, luglio 2010. Un momento della manifestazione per la consegna delle firme per il referendum dell’acqua pubblica  © LaPresse

Ritengo importante celebrare il decimo anniversario del Referendum (11-12 giugno 2012) per sottolineare il grande coraggio che ha avuto il popolo italiano nel votare con due Sì e quasi all’unanimità (95,8%) a quelle due domande referendarie: l’acqua deve uscire dal mercato e non si può fare profitto sull’acqua. È stato l’unico popolo in Europa a tenere un referendum sull’acqua e a vincerlo. Il popolo italiano non si è lasciato ingannare, né dalla stampa, né dalle televisioni, né dai partiti (salvo poche eccezioni), schierati per la privatizzazione. La battaglia iniziò da un piccolo gruppo di attivisti che si oppose alla privatizzazione decretata dall’allora governo Berlusconi.

Quel gruppo capì subito che, se si voleva ottenere una vittoria, bisognava impegnarsi perché nascesse un vasto movimento popolare. Questo si è potuto realizzare attraverso il lavoro capillare dei comitati che, con uno sforzo straordinario, si impegnarono a informare i cittadini utilizzando mille stratagemmi e iniziative.

Quanta creatività! Una delle iniziative più indovinate fu la legge di iniziativa popolare, scritta dagli stessi comitati, che raccolse oltre 400.000 firme consegnate trionfalmente alla Corte Costituzionale a Roma. Questo ci aprì la porta alla vittoria referendaria, raggiunta grazie alla capacità del movimento di fare rete, partendo dai comitati cittadini, dai coordinamenti regionali, dal Forum con la sua preziosa segreteria. È stata questa capacità di lavorare insieme a determinare il buon esito della lotta fino al felice epilogo.

Purtroppo, la politica è rimasta sorda e non ha rispettato la decisione del popolo italiano. In questi dieci anni ben otto governi si sono susseguiti alla guida del paese, ma nessuno si è azzardato a ripubblicizzare l’acqua. Sono rimasto soprattutto sconcertato dall’inerzia dei Cinque Stelle e anche il presidente della Camera Roberto Fico ha disatteso le promesse fatte al Forum quando si insediò, cioè quella di legare la sua presidenza alla ripubblicizzazione dell’acqua. La portavoce alla Camera dei 5S ha scritto su questo giornale (8/06/21), sottolineando le azioni portate avanti dal suo Movimento. Ma quello che si chiedeva ai 5Stelle era l’obbedienza al Referendum: una legge per la gestione pubblica dell’acqua che non è stata fatta. Trovo altrettanto strano che si vanti di aver trovato cinque miliardi (in verità sono 4,38) destinati ai lavori per migliorare le condizioni delle reti idriche.

Ma la portavoce del M5S ha letto il Pnrr del governo Draghi? Così è scritto nel testo: “Il quadro nazionale è ancora caratterizzato da una gestione frammentata e inefficiente delle risorse idriche, e da scarsa efficacia e capacità industriale dei soggetti attuativi nel settore idrico, soprattutto nel Mezzogiorno.” Quei 4,38 miliardi andranno alle multiutility del centro-nord (Acea, A2A, Iren e Hera) per gestire industrialmente le acque del Meridione, in barba al Referendum! E questo di fronte a un pauroso surriscaldamento del Pianeta che avrà come prima vittima il bene più prezioso che abbiamo: “sorella acqua.”

E non è solo un problema per il sud del mondo ma coinvolge anche il Nord. L’Italia rischia di perdere il 50% dell’acqua potabile entro il 2040. I ricchi troveranno qualche soluzione, ma gli impoveriti del Sud del mondo sono destinati a morire? Se l’acqua venisse privatizzata, saranno i poveri a pagarne le conseguenze. Se oggi abbiamo 20-30 milioni di persone all’anno che muoiono di fame, domani, con queste politiche di privatizzazione, potremo avere cento milioni di morti di sete. Le prime avvisaglie di questo processo le abbiamo avute lo scorso dicembre quando l’acqua è stata quotata in borsa in California e poi a Wall Street. Questo è un peccato di onnipotenza: la follia dell’uomo.

Per questo i comitati dell’acqua di tutta Italia, domani 12 giugno, celebreranno a Roma con una manifestazione nazionale alle 15,30 in piazza Esquilino, per ricordare a tutti la disattesa applicazione del referendum da parte del governo italiano. A Napoli, unica grande città ad obbedire al referendum, con una azienda speciale pubblica(Abc), l’appuntamento è per oggi alle ore 18 davanti al Municipio.

Mi appello alla coscienza di Draghi perché utilizzi quei 4,38 miliardi di euro per ripubblicizzare la nostra “sorella acqua” (i nostri esperti hanno calcolato che si può fare con molto di meno). Papa Francesco scrive nella sua enciclica Laudato Si’: “Questo mondo ha un debito sociale verso i poveri che non hanno accesso all’acqua potabile, perché ciò significa negare ad essi il diritto alla vita radicato nella loro inalienabile dignità”. È la prima volta che un Papa parla dell’acqua come “diritto alla vita” (un termine usato in campo cattolico per l’aborto e l’eutanasia). Privatizzarla equivale a vendere la propria madre. Difendiamo tutti la nostra comune Madre

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Centrosinistra. Intervista a Loredana De Petris

Loredana De Petris

 

Loredana De Petris, senatrice eletta in Leu, quest’oggi alle 17.30 insieme al suo collega Francesco Laforgia e al deputato Luca Pastorino discuterà con Giuseppe Conte e Beppe Sala e di ecologia e questioni sociali. È l’occasione per fare il punto sull’azione del governo Draghi e sui rapporti tra le forze di centrosinistra della maggioranza. Ma prima di arrivare all’agenda politica, De Petris commenta il passaggio in prima lettura, al senato, del testo che inserisce in Costituzione la tutela dell’ambiente. «Più che di una modifica si tratta di un aggiornamento – dice De Petris – Cosa che stanno facendo di tutto il mondo. La Francia, ad esempio, sta inserendo queste cose nel preambolo. L’articolo 9 della Carta era stato scritto benissimo dai padri e dalle madri costituenti e la giurisprudenza costituzionale ne ha dato un’interpretazione estensiva. Ma la Costituzione si occupava di tutela dell’ambiente solo nell’articolo 117 come modificato nel 2001 a proposito di competenze tra regioni e stato. I Verdi fin dagli anni novanta parlano di inserire nella Costituzione la tutela dell’ambiente, degli ecosistemi e della biodiversità. La pandemia e i cambiamenti climatici ci dicono che un modello di sviluppo basato sulla rapina delle persone e delle risorse sta minando le basi della vita. E l’Italia tra i paesi del G20 è al sesto posto nella classifica del rischio ambientale».

Tutto ciò come si applica su transizione ecologica e Pnrr?
Il Pnrr contiene cose positive. Ma altre non vanno bene, su energie rinnovabili e capitale naturale e biodiversità, ad esempio, siamo in ritardo. Il piano Next generation Eu tiene insieme la transizione ecologica e le infrastrutture: su questo, come sulle semplificazioni, servono più risorse.

Ci sono diverse critiche nei confronti del ministro Cingolani, addirittura qualcuno tra i 5 Stelle ha parlato di sfiducia individuale nei suoi confronti.
Le critiche probabilmente sono più legate al suo essere tecnico più che ministro. Ci sono ancora ambiguità su progetti che ancora non abbiamo visto, su trasporti e mobilità bisognerebbe investire su mobilità locale e invece si spostano risorse sulle grandi infrastrutture. In più, sono critica su semplificazioni, che aprono agli appalti al massimo ribasso e che pongono coi subappalti questioni di sicurezza. Per non parlare del rilascio della autorizzazioni alle trivelle mentre è ancora in corso la redazione del Piano per le aree idonee. Ancora: vogliono di nuovo cambiare la Valutazione di impatto ambientale. E sono preoccupata dalla sovrintendenza speciale. Infine, bisogna prorogare il blocco dei licenziamenti.

Riuscirà il parlamento a correggere tutto ciò?
Il parlamento è messo in una posizione ancillare. Le critiche a Cingolani e al Pnrr hanno bisogno che l’intergruppo che avevamo immaginato con M5S e Pd abbia una sua soggettivazione politica. Bisogna far vivere quella che avevamo chiamato alleanza strategica. Per lavorare meglio oggi e per costruire una coalizione per il futuro di questo paese.

Oggi ne parlerete con Conte.
Siamo molto interessati a capire il progetto di Conte, in questi anni abbiamo avuto un buon rapporto. Aveva lanciato l’alleanza per lo sviluppo sostenibile, all’interno della quale c’è bisogno di costruire la terza componente: quella ambientalista. Ci sarà anche Beppe Sala, che ha aderito alla carta dei valori dei Verdi europei. Insisto: contribuire come sinistra ecologista a costruire questo progetto significa anche trovare il modo di contare di più nel governo Draghi, visto che non tutto è lineare. Abbiamo invitato altre esperienze territoriali. Non abbiamo la priorità di darci nomi, ora si tratta piuttosto di assumere un punto di vista largo e superare la frammentazione riaffermando la natura strategica dell’alleanza con Pd e M5S.

Ci crede al fatto che Conte voglia imprimere una svolta moderata al suo M5S?
In questo paese credo che di moderato non ci sia rimasto più nessuno, soprattutto se si vuole dare una svolta ecologista. Credo che conte voglia parlare a quelli che tali vengono considerati.

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Attenti ai dinosauri. La rubrica digitale a cura della Task Force Natura e Lavoro

Illustrazione

Illustrazione  © Costanza Fraia

L’occasione del varo e dell’attuazione del PNRR in Italia, degli interventi di rilancio dell’economia post-COVID 19 in Europa, negli USA, in Cina e gli effetti indotti nel mondo stanno creando condizioni speciali, irripetibili, perché quella che è stata battezzata “transizione energetica” sia attuata concretamente e con i tempi scanditi da accordi internazionali ineludibili.

 I fatti

È ormai accettato dalla opinione pubblica mondiale la considerazione che, per contenere entro limiti ritenuti accettabili i danni economici e sociali causati dal cambiamento climatico, dobbiamo azzerare le emissioni di gas serra entro il 2050. Questa necessità è stata innanzitutto riconosciuta da 190 Paesi del mondo, che hanno firmato gli Accordi di Parigi nel 2015. Molto faticosamente e attraversando indenni l’era Trump, profondo oppositore anche di questa decisione, i dettami dell’Accordo sono diventati irreversibili e obbligatori.

Per contribuire per la sua parte a raggiungere questo obiettivo, l’Europa si è imposta il traguardo intermedio – entro il 2030 – di riduzione dei gas serra del 55% rispetto al 1990.

Clamorosamente, considerata la tradizionale posizione filo-petrolifera e fossile in generale, l’IEA (International Energy Agency, Agenzia Internazionale dell’Energia), nel suo recente rapporto “Net Zero 2050 – A Roadmap for the Global Energy Sector” afferma ufficialmente che, per ottenere questo risultato, occorre che a partire dal 2021 non venga approvato lo sviluppo di nessun nuovo giacimento di petrolio o gas. E sì che l’IEA è sempre stata, in passato, paladina della funzione centrale delle fonti fossili per lo sviluppo dei sistemi economici e della marginalità delle fonti rinnovabili.

La posizione dell’ENI

Confinamento della CO2

La posizione più critica, ma insieme cruciale, rispetto al conseguimento di questi obiettivi e al rispetto di queste decisioni è ovviamente quella delle compagnie Oil&Gas; in Italia, dell’Eni.

Guardiamo alla nostra compagnia: in totale contrasto con il quadro sopra descritto, invece di programmare una progressiva diminuzione della produzione e un riposizionamento della sua “mission” in una prospettiva di abbandono delle fonti fossili, nel  suo piano di sviluppo al 2050 l’ENI prevede un aumento delle esplorazioni che porterebbero “2 miliardi di barili di olio equivalente (boe) di nuove risorse nel piano quadriennale” e una crescita della produzione con una media di circa 4% all’anno nell’arco del piano”.

C’è da dire che i piani delle altre grandi Oil&Gas non differiscono da quelli dell’ENI. E ciò può spiegarsi solo con la loro certezza che i combustibili fossili continueranno ad essere centrali per il funzionamento dell’economia mondiale, anche perché esse faranno di tutto perché così sia.

Lo strumento per ottenere questo risultato lo hanno chiaramente individuato nella CCS (Carbon Capture and Storage, Cattura e Stoccaggio del Carbonio) (1). E per questo sono a caccia di finanziamenti pubblici per metterla in atto. E già, finanziamenti pubblici, perché, a parte tutte le altre limitazioni di cui si dirà nel seguito, si tratta di una tecnologia molto costosa ed economicamente ben lontana dalla convenienza.

Cosa c’è che non va in questo programma delle grandi Compagnie e, per l’Italia, dell’ENI che, non dimentichiamolo, è una partecipata dello Stato italiano, che quindi ne è azionista e, per quel che conta in questo contesto, ha una golden share? Non vanno molte cose.

  1. Si perpetua il modello di sviluppo che ci ha portato alla situazione attuale; un modello basato sull’uso di risorse energetiche non rinnovabili, con un approccio lineare del tipo estrai-trasforma-usa-getta che è in contrasto con il modello di funzionamento del sistema Terra di cui facciamo parte, ed è in contrasto con il concetto di economia circolare, pilastro -ormai ineludibile- del Green Deal Europeo. Infatti, adottando la CCS, invece di buttare nell’atmosfera il rifiuto, in questo caso la CO2, lo si sotterra. Certo, la soluzione è attraente per chi la adotta, che guadagna due volte: una volta vendendo gli idrocarburi e la seconda sotterrandone il rifiuto.
  2. Si sottraggono risorse finanziarie allo sviluppo delle rinnovabili, che sono l’unica strada per riportare il nostro sistema economico e sociale in un alveo di sostenibilità, di coerenza con le leggi che regolano il sistema Terra e con i pilastri su cui si fonda il Green Deal Europeo.
  3. È una soluzione dilatoria, che trasferisce a chi verrà dopo di noi il problema del contenimento delle emissioni di gas serra. Infatti, cosa ce ne faremo delle emissioni di CO2 che oggi vogliamo sotterrare nel giacimento esausto quando lo avremo completamente riempito? I posteri si dovranno riproporre il problema e dovranno necessariamente risolverlo con le fonti rinnovabili. E allora perché non farlo subito, spendendo di meno ed eliminando un passaggio inutilmente costoso?
  4. È un approccio poco efficiente, perché richiede l’uso di grandi quantità di prodotti chimici (amine) che poi debbono essere recuperati, riciclati, con grande consumo di energia (fossile). Una indagine condotta su 11 impianti sperimentali di CCS già realizzati ha evidenziato che, tenendo conto delle perdite, e delle emissioni di CO2 conseguenti all’uso dell’energia occorrente per il processo, con la CCS l’immissione netta di anidride carbonica in atmosfera si riduce di una quota che va dal 63 all’82%, a seconda del tipo di impianto (2). Dunque, la CCS non azzera le emissioni dovute alla combustione, ma le riduce, e questa riduzione ha un costo economico molto elevato.
  5. Sotterrare la CO2 e contemporaneamente estrarre nuovo gas o petrolio dal giacimento significa usare la CO2 per produrre ciò che poi genererà altra CO2che si dovrà sotterrare. C’è qualcosa che non funziona in questo modello, non funziona per la comunità; certamente funziona, e benissimo, per aumentare i profitti a spese della comunità, che paga.
  6. Non è dimostrata la capacità dei serbatoi naturali di stoccaggio di trattenere efficacemente la CO2 per tempi lunghi; una graduale e silente fuoriuscita in atmosfera vanificherebbe il progetto. Non c’è esperienza per impianti su larga scala.
  7. Comporta un grande consumo di suolo per l’impianto di cattura e per i gasdotti di trasporto.
  8. È un approccio pericoloso, perché:
    1. Non sono noti gli effetti sismici di tale operazione; secondo alcuni ricercatori si genererebbe una sismicità indotta, e il rischio è ancora maggiore in una zona vulnerabile come la costa di Ravenna, dove sono in corso significativi fenomeni di subsidenza. Un evento sismico potrebbe creare fratture attraverso cui la COstoccata potrebbe sfuggire, ritornando in atmosfera; ciò comporterebbe non solo l’azzeramento del beneficio della CCS ai fini del contenimento del riscaldamento globale, ma il rilascio di ingenti quantitativi di CO2 non solo renderebbe vano il tentativo di ridurre la concentrazione di CO2 nell’atmosfera, ma produrrebbe effetti gravissimi per la popolazione (soffocamento).
    2. I siti di stoccaggio di CO2 possono diventare potenziali obiettivi terroristici.

 Riforestazione

Ma non è solo con la CCS che l’ENI intende continuare a estrarre e far bruciare combustibili fossili, evitando che le conseguenti emissioni di CO2 contribuiscano ad aumentarne la concentrazione in atmosfera. Il piano ENI al 2050, infatti, prevede di dare vita a grandi progetti di riforestazione nei paesi in via di sviluppo, con una progressiva estensione in grado di garantire l’assorbimento di 6 milioni di tonnellate di CO2 equivalente all’anno entro il 2024, di 20 milioni entro il 2030 e di 40 milioni all’anno entro il 2050.

Il che significa che, nei piani delle compagnie, consistenti quantità di combustibile fossile, liquido o gassoso, continueranno ad alimentare il sistema economico mondiale.

Il progetto potrebbe sembrare ragionevole, trattandosi di un tipico “nature based project”, cioè un progetto basato su principi naturali. Ma non è proprio così. Infatti:

  1. I progetti di riforestazione nei paesi in via di sviluppo possono dare luogo a forti ripercussioni sulle popolazioni locali, sui loro sistemi di sussistenza, sulla loro integrità culturale; sebbene l’ENI esplicitamente indichi che questi fattori sarebbero tenuti in conto nei progetti, ci sono seri dubbi sulla possibilità di minimizzare l’impatto sulle popolazioni locali, non foss’altro per le difficoltà intrinseche di farlo.
  2. La riforestazione su larga scala, se effettuata con l’obiettivo di massimizzare la capacità di assorbimento di CO2 da parte della foresta in tempi brevi (cioè decenni), può dare luogo a monoculture arboree che confliggono con la possibilità di garantire la necessaria biodiversità del sistema forestale nel suo complesso.
  3. Per quanto detto ai punti precedenti, i criteri di selezione dei terreni destinati a riforestazione andrebbero sottoposti al vaglio della comunità scientifica, e questo aspetto non viene menzionato.
  4. Tutte le Big Oil&Gas hanno gli stessi progetti; a questo punto, la domanda legittima è: esistono tanti terreni sulla superficie terrestre da soddisfare la fame di riforestazione di tutte le compagnie? Oppure si stanno tutte vendendo lo stesso pezzo di terra?

Ma le perplessità sul piano di sviluppo ENI al 2050 non si fermano qui. Si punta moltissimo sul metano, sia perché continuare a usare metano implica mantenere il valore di quell’asset fondamentale per la SNAM che è la rete che lo trasporta e distribuisce, sia perché il metano, unito alla CCS, permette la produzione di idrogeno blu, che l’ENI cerca di sdoganare equiparandolo a quello verde, cioè quello ottenuto mediante elettrolisi dell’acqua alimentata da energia rinnovabile. Ebbene, sappiamo che le perdite di metano lungo le tubazioni si stanno rivelando estremamente più consistenti di quanto le compagnie Oil&Gas abbiano finora voluto ammettere, e il metano è circa 30 volte più potente della CO2 come gas serra.

Recenti misurazioni effettuate attraverso i satelliti hanno portato a stimare le perdite globali di metano come paragonabili alle emissioni totali di CO2 legate all’energia dell’Unione europea. A questo proposito l’ENI, nel piano al 2050 promette un monitoraggio e controllo stringente delle perdite, almeno per quello che riguarda l’upstream, cioè prima della distribuzione. A parte le riserve sull’efficacia di questi controlli e sulle eventuali operazioni di riduzione, cosa succede delle perdite nella distribuzione?

Il contesto cambia rapidamente

Da quanto detto sopra si evince chiaramente che l’ENI sta conducendo una battaglia di retroguardia, disperatamente cercando, come le altre consorelle Oil&Gas, di mantenere lo status quo, cioè il proprio potere e i propri profitti, contro l’interesse generale e contro le decisioni prese dai Governi a livello mondiale.

Osserviamo che si tratta di una strategia che, a parte gli aspetti etici e sociali che pure una società partecipata dallo Stato non dovrebbe potersi permettere di ignorare, è ormai perdente perfino sul breve periodo, come dimostrano alcuni fatti recenti:

  1. La condanna della Shell da parte di un tribunale distrettuale olandese a ridurre del 45% (rispetto a quelle del 2019) le sue emissioni globali (cioè incluse quelle derivanti dalla combustione degli idrocarburi venduti), entro il 2030.
  2. Una piccolissima schiera di azionisti attivisti a favore dello sviluppo sostenibile, sostenuti da grossi azionisti come BlackRock è riuscita a sistemare ben due suoi membri nel consiglio di amministrazione della Exxon: un evento senza precedenti, che ha fortemente messo in crisi la politica della compagnia.
  3. Gli azionisti della Chevron, la seconda compagnia americana Oil&Gas per dimensioni economiche, hanno votato una risoluzione che la invita a ridurre non solo le proprie emissioni, ma anche quelle causate dai consumatori dei suoi prodotti.
  4. Dal 2017, circa 20 città, contee e Stati degli USA hanno citato in giudizio l’intero comparto industriale dei combustibili fossili, chiedendo danni per i costi locali del cambiamento climatico.

 Il riposizionamento dell’ENI

Non basta tutto questo all’ENI per cominciare a pensare seriamente a trasformare la propria mission, riposizionandosi completamente, sfruttando l’immenso patrimonio di uomini e di esperienza che ha accumulato e mettendolo effettivamente al servizio della transizione ecologica? Potrebbe approfittare dell’occasione offerta dal PNRR e dalle altre risorse che l’Europa sta mettendo in campo per realizzare il Green Deal e rappresentare un caso esemplare rispetto alle altre compagnie Oil&Gas.

I settori su cui ENI potrebbe puntare, contando sulle capacità e le eccellenze che ha già al suo interno e riorientandole, sono -tra gli altri- la chimica verde, la biochimica, l’eolico galleggiante, la trasformazione e la valorizzazione dei rifiuti organici, l’utilizzazione virtuosa del carbonio della CO2 emessa dalla combustione di combustibili fossili, incorporandolo in prodotti utili e durevoli, la produzione di plastiche durevoli, volte a sostituire materiali derivati da minerali sempre più scarsi o la cui estrazione ha un impatto ambientale elevato. E la lista non si fermerebbe qui: si può fare anche molto altro, se c’è la volontà di diventare paladini (e lungimiranti imprenditori) della transizione ecologica, invece di esserne – di fatto – gli oppositori.

Note

(1) La CCS consiste nell’estrarre la CO2 contenuta nei fumi prodotti dalla combustione degli idrocarburi (ad es.: emessi dalla ciminiera di una fabbrica o di una centrale elettrica) e immetterla in una tubazione che la trasporta da qualche parte dove viene pompata sottoterra; e sottoterra dovrebbe rimanere per sempre. In questo modo, pur bruciando combustibili fossili, la concentrazione della CO2 in atmosfera non aumenterebbe. L’operazione risulta particolarmente vantaggiosa se si pompa la CO2 in un giacimento in via di esaurimento, perché in questo modo si può “spremere” altro idrocarburo che diversamente resterebbe sottoterra. Ed è esattamente questo che prevede di fare l’ENI – come indicato nel suo piano di sviluppo al 2050 – cominciando dai giacimenti sotto l’Adriatico, di fronte a Ravenna.

(2) R. M. Cuéllar-Franca, A. Azapagic, Carbon capture, storage and utilisation technologies: A critical analysis and comparison of their life cycle environmental impacts, Journal of CO2 Utilization 9 (2015) 82–102

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Dialogo Sociale. Intesa su emendamenti al decreto Sostegni bis. Ma i tempi sfasati rispetto al via libera del 1° luglio rischiano di vanificare l’alleanza. Landini: alla luce di questo problema si rende necessaria la riapertura del tavolo con Draghi. L’ex ministra Catalfo: siamo totalmente d’accordo. Letta: purtroppo non c’è un monocolore Pd

Una manifestazione dei lavoratori ex Ilva a Genova

Una manifestazione dei lavoratori ex Ilva a Genova  © Foto Ansa

In una giornata poi sconvolta dalla notizia della morte di Guglielmo Epifani, i sindacati incassano l’appoggio di M5s e Pd nella loro battaglia per il prolungamento del blocco dei licenziamenti.
Da una parte gli emendamenti annunciati dai pentastellati, dall’altra la richiesta di Maurizio Landini di un nuovo incontro con Draghi.

«C’È BISOGNO CHE IL GOVERNO convochi un nuovo tavolo. Crediamo che riforma degli ammortizzatori sociali, proroga del blocco dei licenziamenti ed estensione delle tutele a tutte le forme di lavori debbano essere oggetto di una trattativa specifica con palazzo Chigi», ha detto il segretario generale della Cgil Maurizio Landini al termine del confronto con i parlamentari M5s.
Motivo principale della richiesta di Landini sono i tempi sfasati – sottolineati alla Cgil dalla delegazione pentastellata – della discussione e conversione in legge del decreto Sostegni uno che prevede lo sblocco dei licenziamenti dal primo luglio. «La discussione parlamentare del decreto sostegno inizierà oltre il 30 giugno – spiega Landini – . Il parlamento delibererà oltre la metà del mese di luglio ma dal primo di luglio si potrà licenziare e dunque anche le modifiche che noi proponiamo entreranno in vigore dopo», ha sottolineato Landini. «Alla luce di questo ulteriore problema, ancora di più si rende opportuna e necessaria la riapertura del tavolo da parte del governo», ha sottolineato anche il leader Uil Pierpaolo Bombardieri che nel pomeriggio è stato ricevuto da Mattarella per i 70 anni della Uil. «È urgente riattivare il confronto con il governo per neutralizzare il rischio licenziamenti dal primo luglio», sottolinea la Cisl.

UN ALLEATO NEL GOVERNO Landini sa di averlo. Si tratta del ministro del Lavoro Andrea Orlando, autore della mediazione dell’allungamento del blocco dei licenziamenti al 28 agosto poi cancellata dal decreto Sostegni bis per le pressioni di Confindustria e Lega, accolte da Draghi. Orlando ieri ha cercato di rilanciare il tema utilizzando però un altro argomentno: quello delle diversità di settori. «C’è una coalizione ampia in cui si tratta di tenere insieme posizioni anche diverse, ho visto che si sta facendo strada un ragionamento sulla selettività rispetto ad alcune filiere – ha detto Orlando – . Se questo ragionamento c’è io sono pronto: naturalmente bisogna sempre ricordare che, se bisogna intervenire, va fatto subito perché i tempi sono abbastanza stretti». Domenica anche il ministro dello Sviluppo leghista Giancarlo Giorgetti aveva aperto alla possibilità di prolungare il blocco per alcuni settori come il tessile e la moda.

IN REALTÀ PERÒ LA PROPOSTA di Cgil, Cisl e Uil è generale e non prevede distinguo rispetto ai settori: proroga del blocco dei licenziamenti fino a fine ottobre in attesa di una riforma degli ammortizzatori sociali in senso universalistico.

Due posizioni molto diverse e dunque difficilmente conciliabili. Per questo Landini chiede un incontro con Draghi, consapevole che, in una maggioranza composita, qualsiasi modifica debba essere decisa dal presidente del consiglio.

Rispetto all’incontro con i parlamentari pentastellati Landini ha detto di avere incontrato la disponibilità a recepire alcune delle richieste in sede di conversione del decreto sostegni bis. In particolare il segretario della Cgil ha parlato di «disponibilità da parte del M5s a presentare emendamenti che vadano in direzione delle nostre richieste su blocco dei licenziamenti, estensione dei contratti di solidarietà (non solo a chi ha perso fatturato del 50% ma a tutti), condizionalità dei sostegni alle imprese al mantenimento dell’occupazione, contratti di espansione e governance del Pnrr», ha illustrato Landini.

USCENDO DALL’INCONTRO ha parlato anche l’ex ministra del lavoro M5s Nunzia Catalfo. «Abbiamo incontrato i sindacati e ascoltato le loro istanze, dalla riforma delle politiche attive, agli ammortizzatori sociali. Si è parlato della cassa integrazione e del blocco dei licenziamenti. C’è la necessità di prolungare il blocco per alcuni mesi, e sono necessità assolutamente condivisibili», ha detto la ex ministra che sulla riforma degli ammortizzatori sociali aveva imbastito un dialogo costruttivo con Cgil, Cisl e Uil.
Difficile comunque immaginare oggi che in fase di conversione del decreto Sostegni bis il governo Draghi possa dare parere favorevole ad un emendamento che prolunghi il blocco dei licenziamenti.

C’ERA MOLTA ATTESA per la posizione che avrebbe tenuto Enrico Letta. Purtroppo però l’incontro pomeridiano al Nazareno fra la delegazione ai massimi livelli del Pd e i tre segretari generali di Cgil, Cisl e Uil si è interrota alla notizia della morte di Guglielmo Epifani proprio nel momento in cui il segretario Pd avrebbe dovuto rispondere alle richieste dei sindacati: «Purtroppo non c’è un monocolore Pd», è l’unica battuta che ha fatto il segretario Pd.

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L'opinione. Il modo di una proposta conta. Quella del segretario Pd sollevata solo nella sfera mediatica, ha affievolito il dibattito pubblico su un tema così rilevante in una settimana o poco più

Enrico Letta

 

Come nasce, oggi, una proposta politica? E con quali conseguenze? I giornali, i talk-show, le interviste e – buoni ultimi – i social media sono sempre più il luogo scelto per proposte politiche «d’impatto», sui temi più vari.  Silvio Berlusconi è stato il gran maestro del genere, dal palcoscenico di «Porta a Porta». Matteo Renzi è l’allievo più abile e spregiudicato. Giorgia Meloni e Matteo Salvini, oggi, sono gli interpreti più efficaci.

La proposta di Enrico Letta, relativa all’aumento della tassa di successione a beneficio della «dote per i diciottenni», nasce nel contesto di un’intervista a Massimo Gramellini, anticipata con un tweet «Su @7Corriere lancio proposta di dote per i diciottenni. Per la generazione più in crisi un aiuto concreto per studi, lavoro, casa. Per essere seri va finanziata non a debito (lo ripagherebbero loro) ma chiedendo all’1% più ricco del paese di pagarla con la tassa di successione».

POCHI GIORNI dopo, Letta è ospite del programma di Fabio Fazio, dove rilancia l’idea. La prima reazione è di Mario Draghi, che rimanda al mittente la proposta: «Non è questo il momento di prendere soldi ai cittadini ma di darli». Alla replica del Segretario Pd: «Draghi fa il Premier di una maggioranza eccezionale, io faccio il leader di un partito di sinistra. Questo intervento deve entrare in una riforma fiscale complessiva», segue colloquio «franco e cordiale» tra i due. Questo il canovaccio della rappresentazione.

IL CONTENUTO della proposta è stato poi variamente commentato sui media, vecchi e nuovi: chi la ritiene finalmente una proposta sinistra, chi la giudica troppo di sinistra, chi ne denuncia l’impianto neo-liberale che si affida all’auto-imprenditorialità, chi ne mette a nudo l’incertezza delle coperture, chi la bolla come inutile, velleitaria o dannosa.
Il binomio fiscalità-ricchezza è un tema-tabù, in realtà più per la classe politica che per la popolazione dal momento che un sondaggio SWG riporta che il 50% degli italiani è d’accordo con la proposta di aumentare il prelievo fiscale (per eredità e donazioni maggiori a 5 milioni), mentre la destinazione dei proventi a un fondo giovani desta maggiori perplessità (40% dei consensi).

LETTA NON È CERTO un ingenuo e, come fa da tempo, prova a riposizionare il Pd un po’ più a sinistra, su un tema delicatissimo. Non lo fa, però, dentro il partito o nel tessuto vivo della società. Neppure chiede al partito di farlo in Parlamento. Ma solleva il tema nella sfera mediatica, osserva il posizionamento degli avversari interni ed esterni e decide come proseguire. La sinistra Pd non pare critica verso questa (pre)tattica: per una volta che il Pd si posiziona sul terreno economico-sociale con nettezza per la redistribuzione, vale la pena sostenerlo. Ma, come detto, il modo conta. Anzi, fa la differenza. I media si nutrono di politicismo, osservano la realtà con le categorie della politica e ne adottano le categorie concettuali e i quadri di senso (sul tema con riferimenti ai giornali, si veda: L. Bobbio e F. Roncarolo (a cura di) I media e le politiche, Bologna, Il Mulino, 2015). Sono più interessati agli schieramenti che ai contenuti, alle alleanze che le proposte segnalano e ai confini che creano o spostano, più che al loro merito intrinseco.

Il politicismo ha importanti conseguenze. Anzitutto, sminuisce la trattazione delle politiche pubbliche e le subordina alla politica. L’analisi delle politiche, dei loro dettagli e implicazioni tecniche è così affidato alle dichiarazioni dei leader politici. Si lascia il palcoscenico ai politici generalisti, mentre gli esperti, anche se di parte, hanno pochissimo spazio: i discorsi di contenuto, quando ci sono, durano lo spazio di un mattino.

IL DIBATTITO PUBBLICO sulla proposta di Letta, infatti, si è affievolito in una settimana o poco più. Il cosiddetto «teatrino della politica» ha qui le sue radici: i media sono più realisti del re e filtrano la «notiziabilità» attraverso la logica amico/nemico. Letta sta giocando questa partita: sa che per fare spazio alle proposte le deve politicizzare, mostrandone la rilevanza nel gioco politico più generale. In questo caso, come in altri, marcando la distanza da Salvini («anche se siamo al Governo insieme, siamo diversi») e dalle correnti filo-renziane o centriste («io faccio il leader di un partito di sinistra»). In questo modo, però, i quadri generali prevalgono sul merito degli argomenti, le identificazioni emotive oscurano le riflessioni e il dibattito pubblico. Il rischio è quello di bruciare la proposta e di non lavorare, con metodo e pazienza, all’agenda politica per il post-Draghi.

Il vantaggio può essere quella di riuscire a portare la proposta dentro la negoziazione immediata, utilizzandola come testa di ponte. Ma la posta in gioco, in questo caso, è duplice: la riforma complessiva della fiscalità e il sostegno ai giovani. Aspetto, quest’ultimo, su cui Letta insiste da tempo.
L’esito della eventuale negoziazione con Mario Draghi potrebbe quindi finire con una rinuncia al primo per ottenere in cambio il secondo. Anche perché è sui giovani che Letta potrà avere più facilmente il consenso interno del partito, che ha da tempo rinunciato a fare della fiscalità un tema identitario. A prescindere dall’esito, un punto a sfavore della discussione pubblica a vantaggio della mediatizzazione della politica.

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