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Senza una veloce transizione ecologica il Governo Meloni stima al 2050 12,5 miliardi di euro l’anno di perdite del settore agricolo

Vere e proprie bufale ambientali da campagna elettorale, attacchi gratuiti all’European green deal e all’ambiente

[15 Febbraio 2024]

Nel giorno clou della protesta dei trattori, con il presidio previsto nel cuore della Capitale, Legambiente ha deciso di rispondere all’ala dura degli agricoltori smontando alcune delle principali fake news circolate in queste settimane e che definisce «Vere e proprie bufale che sanno solo di campagna elettorale, di attacchi gratuiti al green deal europeo e all’ambiente, mentre quello che servirebbe è una forte alleanza tra il mondo agricolo e ambientale».

Quattro le fake news sotto accusa e al centro dello speciale Unfakenews di Legambientela campagna ideata nel 2020 dal Cigno Verde insieme a Nuova Ecologia per contrastare le bufale ambientali.

Il Green Deal, frutto di un ambientalismo estremista, danneggia produttori e consumatori

Falso. Il Green Deal è un programma ambientale progettato e creato allo scopo di agevolare i percorsi di decarbonizzazione ed è uno strumento necessario per contrastare gli effetti sempre più estremi dei cambiamenti climatici da cui derivano, tra le altre cose, gravi danni alle produzioni agricole. Dal Green Deal passa il futuro dell’agricoltura e non la sua fine. Mettere in discussione le strategie europee From farm to fork e Biodiversity 2030 – cardini del Green Deal – significherebbe mettere a rischio la sopravvivenza dell’intero settore agricolo e il futuro del Pianeta. La grave situazione economica in cui versano le aziende agricole (soprattutto di medie e piccole dimensioni) è legata a una politica comunitaria del passato che, per decenni, ha destinato l’80% delle risorse solo al 20% delle aziende, privilegiando le grandi e il metodo intensivo. L’unica soluzione per salvare l’agricoltura è liberarla dalla dipendenza della chimica e puntare sulla diminuzione degli input negativi idrici ed energetici. Accusare il Green Deal significa prendersela con l’unica alternativa possibile per salvarsi.

L’utilizzo dei pesticidi è indispensabile per salvare l’agricoltura

Falso. L’utilizzo di sostanze chimiche, non solo non garantisce di poter contare su una maggiore resa agricola o di salvaguardare le colture, ma è addirittura nocivo per la salute umana. I pesticidi, oltre a contaminare acqua, aria, suolo e cibo, generano resistenze nelle popolazioni di insetti, scatenando la necessità di trattamenti sempre più frequenti ed efficaci. A ciò si aggiungono gli squilibri legati al rapporto preda-predatore e la conseguente proliferazione di una specie su tutte le altre. Un ragionamento che vale non solo per gli insetticidi ma anche per gli antibiotici. Il loro sempre maggiore utilizzo negli allevamenti ha comportato, ad esempio, lo sviluppo di una pericolosa antibiotico-resistenza. Iniziative come il rinnovo per dieci anni all’utilizzo del Glifosato vanno ostinatamente nella direzione contraria a quella necessaria per salvare il settore agricolo. Il guadagno di oggi è la perdita di domani.

L’Europa obbliga a non coltivare il 4% dei terreni per speculare sul lavoro degli agricoltori

Falso. La deroga al vincolo di non coltivare il 4% dei terreni destinati a seminativo rischia di trascinare nel baratro gli agricoltori. La misura nasce allo scopo di favorire la difesa dall’erosione e dal dissesto idrogeologico, l’incremento della fertilità dei suoli e la tutela della biodiversità grazie ad aree incolte, siepi, boschetti, stagni e servizi ecosistemici. L’aiuto di insetti utili – come le api – è fondamentale per il raggiungimento di un equilibrio sano tra produttività e ambiente. La grave rarefazione della presenza degli insetti impollinatori – fondamentali per garantire biodiversità agricola e naturale – a cui stiamo assistendo è assai preoccupante. Il rapporto Ipbes-Ipcc spiega chiaramente che il 70% dei suoli europei contiene meno del 2% di sostanza organica. Dati sconvolgenti che fanno ben capire che, per continuare a coltivare, serve ripristinare la fertilità dei suoli.

L’Europa vuole sostituire i cibi tradizionali con quelli sintetici

Falso. Sgombriamo il campo da equivoci: la carne coltivata non è ancora disponibile in Europa e, dunque, in Italia. Al netto di ciò, è bene chiarire che, comunque, non potrebbe sostituire la carne prodotta da allevamento tradizionale ma solo aggiungere una nuova linea di mercato per i consumatori. Peraltro, l’EFSA, Autorità europea per la sicurezza alimentare, a oggi non ha ricevuto richieste di autorizzazione per quanto riguardala carne coltivata. La ricerca su questo segmento è, fortemente sostenuta dalle grandi aziende multinazionali della carne, evidentemente non interessate a ridurre i consumi di carni, ma ad espandere il loro business verso nuove filiere produttive e segmenti di mercato. Quello sui cibi sintetici è l’ennesimo strumento di distrazione di massa sapientemente utilizzato per mettere in ombra la necessità di un cambiamento dell’attuale modello di allevamento zootecnico intensivo e industriale. Benessere animale, sostenibilità ambientale, riduzione dell’impatto negativo su acqua, aria e suolo sono gli obiettivi verso cui tendere con celerità. Occorre poi lavorare sul fronte culturale per ridurre il consumo di carne, azione utile all’ambiente e alla salute, e scommettere in chiave agroecologica sul made in Italy fatto bene. Solo così sarà possibile salvaguardare gli ecosistemi, abbattere le emissioni, mettere sul mercato prodotti più salubri e garantire agli operatori del settore una maggiore competitività.

Il presidente nazionale di Legambiente,  Stefano Ciafani, evidenzia che «Le proposte dei trattori di queste settimane che culmineranno oggi a Roma ci raccontano del grande malessere e della profonda crisi che sta vivendo l’agricoltura, legati soprattutto agli effetti della crisi climatica, ai costi di produzione elevati e alla concorrenza sleale. Ma accusare il Green deal di voler affossare il mondo agricolo è incomprensibile visto che lo stesso Esecutivo, in assenza di una veloce transizione ecologica, nel piano di adattamento climatico stima al 2050 12,5 miliardi di euro all’anno di perdite del settore agricolo. Si rischia solo di far passare tante fake news, mentre le cause dei problemi agricoli sono altre.  Il Governo Meloni dovrebbe evitare di alimentare la confusione e dimostrare più capacità di intervento, perché il taglio dell’Iperf per i redditi più bassi da solo non può bastare. Servono anche misure concrete a sostegno della transizione ecologica in agricoltura come snellire la burocrazia, garantendo assistenza tecnica e politiche a sostegno del reddito, incentivare l’agroecologia, premiando chi punta sui servizi ecosistemici, lo sviluppo delle rinnovabili per produrre energia, e approvando l’inserimento dei delitti delle agromafie nel codice penale per fermare l’illegalità e la concorrenza sleale del settore».

Angelo Gentili, responsabile nazionale agricoltura Legambiente, conclude: «Oggi più che mai, il mondo agricolo deve puntare su sostenibilità ambientale e agroecologia se vuole guardare al futuro e rispondere alla crisi climatica che con i fenomeni estremi sta danneggiando fortemente la produzione agricola. Il problema vero non è il Green deal ma la mancanza di reddito e la Politica Agricola comune che per decenni ha distribuito finanziamenti a pioggia e per ettaro, non premiando le buone pratiche ma le grandi aziende a vantaggio dei piccoli e medi agricoltori; infatti l’80% delle risorse è andato al 20% delle aziende. Ci sono già tante realtà virtuose che stanno andando nella direzione giusta e che ci dimostrano che è possibile trovare soluzioni, l’importante è non lasciarle sole e ricordare che l’alleanza tra mondo agricolo e ambientale è la carta vincente. Per questo chiediamo e auspichiamo che questo tema possa essere messo anche tra i punti all’ordine del giorno del possibile tavolo tecnico che gli agricoltori hanno chiesto all’Esecutivo per il quale chiediamo che ci sia la presenza anche delle associazioni ambientaliste».

 

Rinnovare i contratti, tassare la rendita, incentivare le stabilizzazioni: al Fatto Quotidiano il segretario generale indica le priorità della Cgil

 

Aumento dei salari, riforma fiscale e lotta alla precarietà. Sono queste le tre priorità su cui la Cgil intende battersi nelle prossime settimane, a partire appunto dal “rinnovo dei contratti nazionali che adesso riguardano 12 milioni di lavoratori”, secondo quanto enunciato oggi (martedì 13 febbraio) dal segretario generale Maurizio Landini in un’intervista al Fatto Quotidiano.

SALARI E FISCO

“Le imprese dovranno mettere mano al portafogli, la proposta del governo di aumenti del 5% non è sufficiente. Occorre recuperare la perdita dell'inflazione che, dati dell’esecutivo, per il periodo 2022-2024 equivale al 17%”, dice il leader Cgil, rimarcando che anche la Banca d'Italia evidenzia “la secca perdita del potere d’acquisto dei lavoratori e la necessità, di fronte all'aumento dei profitti, di un recupero dei salari. Aumento che è anche una condizione per sostenere i consumi”.

Il secondo obiettivo della Cgil è la riforma fiscale, che però dovrebbe essere “di segno contrario alla legge delega votata dal Parlamento”. Per Landini si tratta “di sostenere il lavoro attraverso la lotta all'evasione e intervenire sui sistemi di tassazione: in Italia rendita finanziaria e immobiliare sono tassate meno dei salari e delle pensioni”.

PRECARIETÀ E SALARIO MINIMO

La lotta alla precarietà è il terzo fronte d’azione. “Occorre cancellare forme di lavoro assurde, incentivare la stabilizzazione, rimettere in discussione il sistema folle di appalti e subappalti”, sottolinea Landini, sollecitando anche “un cambiamento del quadro legislativo sul lavoro a partire da una legge sulla rappresentanza e sul valore generale dei contratti nazionali”.

In realtà c’è anche una quarta priorità: il salario minimo. Per Landini è necessario “introdurre il salario orario minimo insieme alla legge sulla rappresentanza. Il governo finora ha fatto il contrario, facendo approvare dal Parlamento una legge delega che introduce di nuovo la logica delle gabbie salariali”.

Tutti obiettivi che la Cgil intende raggiungere “utilizzando diversi strumenti: l'azione contrattuale, il contenzioso giuridico, leggi di iniziativa popolare ma anche referendum abrogativi. Discuteremo al nostro interno nelle prossime settimane, e anche con il mondo associativo, qual è la strada più adatta”.

STELLANTIS E POLITICHE INDUSTRIALI

“Siamo nel pieno di una trasformazione digitale e climatica, il mercato non può gestire da solo questi processi: il rischio è la perdita di decine di migliaia di posti di lavoro”, rileva il segretario generale, ricordando che “paghiamo l’assenza di politiche industriali da almeno vent’anni”. Per Landini “serve nei settori strategici l'intervento diretto dello Stato, e siccome le più grandi imprese sono pubbliche c'è bisogno di fare sistema”.

L’intervento dello Stato sarebbe opportuno anche per Stellantis. “Fiom e Cgil l'hanno chiesto già nella crisi del 2010, come avviene alla Volkswagen, Renault o Stellantis lato francese”, rammenta il dirigente sindacale: “L'abbiamo ripetuto nel 2020 quando Fca chiese un prestito al governo. I sindacati metalmeccanici, unitariamente, hanno chiesto a Stellantis e governo un tavolo per garantire la produzione in Italia, e noi li sosteniamo. Le responsabilità non le hanno i lavoratori, ma chi ha i soldi, chi ha governato e aveva le leve per intervenire”.

LA PACE GIUSTA

Per Landini sono “condivisibili e molto importanti” le recenti prese di posizione di molti artisti sulle guerre in corso. “Stiamo lavorando, insieme ad Assisi pace giusta ed Europe for peace, perché il 24 febbraio ci siano manifestazioni in tutte le province”, conclude il segretario generale Cgil: “È tempo di dire cessate il fuoco e basta con la guerra, e tutti dovrebbero capire che occorre prendere parte”.

Legambiente Emilia-Romagna APS | Bologna

A 9 mesi dai due eventi alluvionali di maggio 2023 sono ancora troppe le incertezze che riguardano il recupero del territorio, la pianificazione futura e i risarcimenti a famiglie e aziende.

La gestione commissariale non sta dando le risposte sperate al territorio, si accumulano ritardi, e gli interventi in corso o già realizzati non sembrano andare nella direzione di una gestione adeguata ad affrontare i cambiamenti climatici in corso.

Legambiente: servono linee di indirizzo chiare per ripensare il governo del territorio, occorre lavorare sull’ adattamento al cambiamento climatico, sulla prevenzione e sulla mitigazione, con politiche coerenti e lungimiranti, partendo dal Rapporto sugli eventi meteorologici del mese di maggio 2023, prodotto dalla Commissione tecnico-scientifica istituita dalla Regione Emilia-Romagna

 

Link al documento completo

 

In Emilia-Romagna dal 1 al 18 maggio sono caduti oltre 4,5 miliardi di metri cubi d’acqua; sono esondati 23 fiumi, oltre 100 comuni sono stati coinvolti, sono stati censiti 65.598 eventi franosi e 1.950 infrastrutture stradali sono state coinvolte da dissesto. In soli 17 giorni sono stati 350 i milioni di metri cubi d’acqua che si sono riversati nell’areale più colpito, circa 800 chilometri quadrati di territorio compresi tra l’estremità orientale dei territori collinari e montani bolognesi, ravennati e la parte occidentale di quella forlivese-cesenate. I danni stimati dalla Regione ammontano a 8,8 miliardi.

La Commissione tecnico-scientifica istituita dalla Regione Emilia Romagna prima della nomina del Commissario Figliuolo, ha messo in evidenza come questo sia stato un evento eccezionale, ma ha anche indicato che i tempi di ritorno previsto, secondo gli scenari di cambiamento climatico indicati dall’IPCC, sono molto minori rispetto a quelli considerati finora suggerendo quindi una serie di interventi strutturali e non strutturali volti a prevenire e mitigare il rischio e di raccomandazioni a riguardo. Sono raccomandazioni che condividiamo, in larga parte coincidenti anche con quanto sosteniamo come associazione. Gli eventi alluvionali vengono definiti “spartiacque tra passato e futuro” e pertanto obbligano a intervenire con approcci innovativi e non già ripristinando “semplicemente” ciò che c’era.

 

I paragrafi conclusivi del documento sollecitano nuovi modelli di intervento e percorsi di approfondimento per singolo bacino idrico, con approccio sistemico che tenga conto delle complessità territoriali.  Riteniamo che in questa fase queste raccomandazioni siano particolarmente disattese, perché gli interventi ad ora realizzati nei territori sembrano solo ripristinare lo status quo e non vi è ancora traccia di una pianificazione per la gestione futura.

Ecco quindi le cinque domande e altrettante richieste e proposte che Legambiente fa al Commissario Figliuolo, alla Regione Emilia Romagna e alle Amministrazioni del territorio, per dare finalmente una svolta al processo di ricostruzione

  1. Chi, come e con quali tempi terrà in considerazione il Rapporto della Commissione tecnico-scientifica istituita dalla Regione Emilia-Romagna che ha analizzato gli eventi meteorologici estremi del mese di maggio 2023?

Chiediamo che il Rapporto venga considerato un primo fondamentale passo per aggiornare il quadro conoscitivo del territorio e del nuovo scenario di cambiamento climatico, alla base del quale va definita una nuova pianificazione e che i suoi contenuti vengano divulgati il più possibile alla popolazione

  1. Cosa intendono fare Regione Emilia-Romagna e Amministrazioni Comunali con i Piani Urbanistici Generali (PUG) approvati e da approvare?

La proroga al 1 Maggio 2024 del termine finale del procedimento di approvazione e convenzionamento degli strumenti urbanistici attuativi non deve diventare uno strumento per approvare progetti che aumentino il consumo di suolo e soprattutto che mettano a rischio la vita delle persone. Occorre modificare e aggiornare la pianificazione, delocalizzare ove necessario e risarcire i proprietari di titoli edificatori che non potranno essere esercitati

  1. È prevista la realizzazione di un piano di adattamento che definisca dove, cosa e come ricostruire e stabilisca le risorse necessarie?

Chiediamo che per le opere strutturali ad ora finanziate – principalmente riparazione di argini e messa in sicurezza di frane - che rispondo tutte al criterio della “somma urgenza” venga verificata la coerenza con le raccomandazioni proposte dalla Commissione tecnico-scientifica e sia valutata l’efficacia degli interventi rispetto ad un’azione di adattamento al cambiamento climatico. Chiediamo inoltre che sia elaborata una pianificazione per il governo del territorio, che sia individuato un Ente responsabile della stessa e che siano indicate le risorse che verranno allocate allo scopo.

  1. Come si intendono sostenere i Comuni, a partire da quelli più piccoli? 

È noto che negli anni si è acuita nei Comuni la mancanza di personale tecnico, specialmente in quelli più piccoli, tanto da avere difficoltà persino nella gestione ordinaria.

Vanno garantite il massimo delle competenze tecniche per far fronte all’immane compito che li aspetta nei confronti dei loro cittadini e territori e il massimo sostegno possibile per realizzare un cambio di passo sia nella ricostruzione che nella rigenerazione sociale ed economica, in particolare delle aree interne.

  1. Quali strumenti si prevedono per garantire trasparenza, partecipazione e controllo sociale?

Chiediamo che ci si attrezzi da subito per garantire un serio monitoraggio delle opere in corso, l’organizzazione e la fruibilità da parte della società civile delle informazioni secondo i principi dell’open data e dell’open government.

 

“Abbiamo davanti a noi una grande sfida, ma anche una grande opportunità: diventare un modello in Italia per la prevenzione e la mitigazione del rischio idrogeologico – commenta Francesco Occhipinti direttore di Legambiente Emilia Romagna – ma dobbiamo recuperare il tempo perso affiancando agli interventi in “somma urgenza” una pianificazione che tenga conto delle caratteristiche specifiche dei singoli bacini idrici e che sia coordinata da un solo Ente, superando l’attuale frammentazione di 

competenze. Occorre poi rendere consapevole la popolazione delle caratteristiche del territorio in cui vive e fare corretta e comprensibile informazione sul rischio come fatto dopo il terremoto del 2012”

 

“Pianificare e realizzare un’azione efficace, che tenga insieme interventi per l’adattamento al cambiamento climatico con la sicurezza e la ricostruzione dei territori e delle comunità colpiti dagli eventi del maggio scorso, ha un valore di carattere nazionale – commenta Giorgio Zampetti direttore generale di Legambiente. Gli eventi estremi purtroppo saranno sempre più frequenti e far sì che non siano causa di tragedie e distruzione è la grande e prioritaria sfida che abbiamo davanti. Per questo è importante che le scelte che saranno compiute in Emilia-Romagna costituiscano un esempio innovativo di messa in sicurezza e di rigenerazione del patrimonio fisico, produttivo e sociale. Come Legambiente, ci siamo impegnati fin dai primi giorni post evento a supportare la comunità e oggi siamo disponibili a dare il nostro contributo in termini di competenze nel merito delle scelte di governo del territorio e anche di proposte normative adeguate, a partire da una sempre più urgente norma nazionale per contrastare il consumo di suolo.!

 

Ancora troppo lenti poi i risarcimenti alle aziende e alle famiglie; è di pochi giorni fa la notizia che non verranno rimborsati mobili e automezzi privati andati distrutti, un ulteriore colpo al morale e al portafoglio di chi vive nelle aree alluvionate.

Nella conferenza stampa è stato dato conto della destinazione della raccolta fondi che, come Legambiente, è stata avviata a giugno 2023, destinata in particolare alle aziende agricole colpite, che sono dei veri e propri presidi territoriali, in particolare nelle aree appenniniche e che ancora sono in attesa di risarcimenti.

Sono stati raccolti in sei mesi poco meno di 17.000 euro che abbiamo destinato ai seguenti progetti/aziende:

Azienda Agricola Bordona – appennino bolognese

L’azienda biologica di allevamento bovini e produzione di latte e latticini, ha utilizzando i fondi raccolti grazie alle donazioni per recuperare almeno una delle 30 frane che sono al momento presenti nei 90 ettari di estensione della proprietà.

Borgo Basino – appennino forlivese

La borgata di 6 famiglie si è trovata isolata a causa dello smottamento a valle di un tratto dell’unica strada che la collega al centro abitato; la strada è stata al momento ripristinata su terreno privato di una delle famiglie grazie alle donazioni ricevute e al lavoro volontario di tecnici, operai e abitanti del borgo.

Azienda Agricola Il Regno del Marrone – appennino bolognese

Storica azienda a conduzione famigliare, divenuta nel tempo anche presidio culturale per il territorio, nella notta tra il 15 e il 16 Maggio ha visto scivolare a valle ettari di castagneto secolare. La raccolta fondi ha sostenuto il ripristino dei sentieri aziendali necessari per le lavorazioni all’interno del castagneto.

Associazione Romagnola Apicoltori – pianura ravennate

La raccolta fondi ha sostenuto l’acquisto di nuove arnie e di nuove famiglie di api, dopo che l’alluvione ha spazzato via 250 milioni di api.

Rete Humus e ’Associazione Agricoltura di Confine – pianura cesenate

La raccolta fondi ha sostenuto l’avvio di progetti sperimentali di recupero del terreno coperto dal fango di alcune aziende agricola nella pianura cesenate, utilizzando tecniche che consentono di non utilizzare fertilizzanti di origine sintetica.

 

Ufficio Stampa - Legambiente Emilia Romagna

Via Massimo Gorki, 6 - 40128 Bologna
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Web: www.legambiente.emiliaromagna.it

 

 Per il segretario confederale della Cgil Pino Gesmundo “servirebbero politiche industriali e investimenti, invece si pensa a porre sul mercato asset strategici”

 

Le privatizzazioni del passato si sono trasformate in una rendita privata per pochi. E ora il Governo Meloni sta per fare il medesimo errore. PosteEni, Ferrovie, ma anche Raiway, il sistema portuale, quanto sta accadendo in Tim: nulla sembra salvarsi dalla nuova ondata di cessioni sul mercato. Un progetto, con l’unico obiettivo di fare cassa, cui la Cgil si oppone fermamente. Il segretario confederale Pino Gesmundo ci indica un’altra strada: virtuosa, efficiente, vicina a cittadini e lavoratori.

Nella manovra 2024 il governo ha previsto che in tre anni lo Stato debba incassare 20 miliardi dalle privatizzazioni. Che messaggio sta dando l’esecutivo al Paese?

Nel bel mezzo della gestione delle due epocali transizioni, nella legge di bilancio per il 2024 non c'è alcuna svolta su politiche industriali e investimenti per la crescita, in grado di creare lavoro e affrontare le tante crisi aziendali aperte. In una fase in cui sarebbe urgente intervenire per rilanciare il sistema industriale, e con esso l’occupazione e l’economia, si pensa invece a ricette sbagliate che mettono in discussione e fanno perdere il controllo di interi asset strategici, ipotizzando la privatizzazione di aziende partecipate pubbliche al solo scopo di fare cassa e senza alcuno sguardo strategico. Il tutto, per la sola gestione della spesa corrente. Peraltro, poco influente è l’intervento sul debito in quanto 20 miliardi rappresentano solo lo 0,71% dell’ammontare complessivo del debito pubblico italiano, che è di oltre 2.800 miliardi.

Un governo che si autodefinisce “sovranista” dovrebbe tutelare le aziende italiane, almeno in linea di principio, non lasciandole alle possibili scorribande del libero mercato internazionale. È pregiudizio ravvisare una contraddizione?

Evocare il sovranismo in un mondo fortemente interconnesso e globalizzato è frutto di un retaggio ideologico fuori dal tempo. Siamo in una fase nella quale si stanno ricomponendo equilibri globali economici e politici: il tema vero diventa quello di incidere per favorire scelte di giustizia economica e sociale. Quella con cui ci scontriamo è invece una realtà fatta di propaganda politica che nulla ha a che vedere con le azioni concrete che andrebbero introdotte per tutelare e rilanciare il sistema industriale del Paese. Manca qualsiasi visione strategica e di sistema, necessaria a orientare (anche) il mercato e costruire filiere nei settori strategici, catene del valore in grado di far crescere l’economia e creare occupazione stabile, professionalizzata e per gestire le innumerevoli crisi aziendali già in atto.

La scelta, dunque, sembra essere quella di affidarsi al mercato…

Esattamente. E lo si fa attraverso incentivi automatici e generalizzati al sistema delle imprese, che non incidono sui meccanismi di produttività, sulla dimensione aziendale e sulla distribuzione del reddito. Quando bisognerebbe contrastare politiche che siano solo a vantaggio di profitti e rendite, che alimentino ulteriormente le tante “diseguaglianze”. L’Italia e l’Europa potrebbero e dovrebbero fare la propria parte. Vengono tagliati gli investimenti pubblici, mentre aumentano i ritardi e le incognite sull'attuazione del Pnrr che rischiano di condannare alla desertificazione industriale e sociale intere parti del Paese, penso in particolare alle aree interne e al Mezzogiorno. In questo contesto è assurdo che vengano rilanciate le privatizzazioni, ossia la “svendita” di quote delle partecipate pubbliche. Importanti infrastrutture del Paese che andrebbero, invece, difesi e rilanciati per fare vere politiche industriali e di sviluppo, a partire dalla tutela e dal rilancio del nostro sistema produttivo.

Le privatizzazioni del passato non hanno fatto nascere grandi gruppi industriali sia come dimensioni sia come internazionalizzazione dell’azienda. Anzi, sono state soprattutto operazioni finanziarie e speculative. C’è qualche motivo per pensare che stavolta potrebbe essere diverso?

Il nostro Paese ha avuto una lunga tradizione di politiche industriali. Principalmente sono state attuate dalle grandi imprese annoverate come partecipazioni statali, nate a seguito del boom economico. I grandi campioni nazionali (quali EnelEni, Telecom Italia, Autostrade, AlitaliaFincantieri, EniChem, Poste, Ferrovie dello Stato, Anas e altri) sono riusciti a realizzare politiche industriali nei settori di competenza portando il nostro Paese a eccellere in vari settori, grazie agli investimenti in innovazione e ricerca e all'alta capacità gestionale e collocando le aziende ai primi posti delle classifiche mondiali. Quando nel 1991 l'Italia raggiunse il rango di quarta potenza mondiale, superando la Gran Bretagna in termini di Pil pro-capite, fra i 20 grandi gruppi industriali del Paese se ne contavano ben 13 a controllo pubblico. L’Iri e l’Eni si collocavano rispettivamente all'11° e al 18° posto fra le più grandi corporation al mondo.

Poi, a partire dal 1992, si iniziò a privatizzare.

Nel periodo 1992-2007 l’Italia privatizzò circa 160 miliardi di dollari di asset industriali. Le privatizzazioni furono motivate non soltanto dal proposito di “fare cassa” per ridurre il debito pubblico, ma anche come intrinseca operazione di politica industriale. Si sosteneva che la vendita ai privati avrebbe reso le imprese pubbliche “più efficienti”, rafforzando il tessuto produttivo del Paese. Viceversa, si è assistito alla scomparsa o al forte ridimensionamento della grande impresa privata: Fiat, Olivetti, Montedison, Pirelli e Falck, Condotte, Astaldi.

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Le attività privatizzate più esposte alla concorrenza – fra cui Ilva, Italtel, successivamente Alitalia – hanno vissuto clamorosi tradimenti competitivi. In quelle a carattere monopolistico, in primis Telecom Italia e Autostrade, la profittabilità che prima costituiva una fonte interna di finanziamento del sistema pubblico, si è trasformata in una rendita privata per pochi. Oggi, il governo sta valutando la possibilità di cedere ulteriori quote delle partecipate Ferrovie, Poste, Anas. Non mi pare che l’impostazione dell’attuale governo sia distante dalle logiche del passato. A questo punto, è facilmente prevedibile quali saranno le sciagurate conseguenze.

Le privatizzazioni incideranno sicuramente sull’occupazione: cosa si prevede? abbiamo già delle stime sui possibili impatti?

Sono 183.193 le lavoratrici e i lavoratori già oggi travolti dagli effetti di crisi aziendali o di settore nel comparto dell’industria e delle reti. Un numero che ci mette nella condizione di confutare, con cognizione di causa, le affermazioni di quanti confondono la propaganda con la realtà, e che rafforza le ragioni delle nostre preoccupazioni per la mancanza di politiche industriali e di sviluppo in grado di dare risposte ai lavoratori. Le privatizzazioni, con il solo intento di fare cassa ed essere utilizzate per la spesa corrente, metteranno sicuramente a rischio l’occupazione. Vorrei ricordare che prima delle precedenti privatizzazioni le aziende partecipate insieme collocavano quasi mezzo milione di addetti, l'Efim altri 35 mila, Enel e Ferrovie altri 110 mila e 170 mila, le Poste avevano circa 240 mila dipendenti. Verso la fine degli anni Ottanta le sole imprese a partecipazione statale pesavano per il 6% del Pil e per il 12% degli investimenti nazionali.

Quali saranno, dunque, le ricadute?

Non c’è dubbio che le ricadute occupazionali e sui servizi potrebbero essere pesanti. Peraltro, i risultati sono sotto gli occhi di tutti: organici ridotti, lavoro precario e parcellizzato, part-time involontari, appalti e subappalti al massimo ribasso, bassi salari e lavoro insicuro rappresentano le emergenze frutto di politiche che hanno svalorizzato il lavoro e la dignità dei lavoratori. Un’emergenza per la quale bisogna intervenire utilizzando tutti gli strumenti democratici a disposizione.

Poste, Eni, Ferrovie: sono questi gli asset strategici che dovrebbero passare in mani private, almeno inizialmente come quote azionarie di minoranza (per Poste, ad esempio, s’intende cedere circa il 30%). A che punto è il dibattito su ognuna di queste aziende?

PosteEni e Ferrovie potrei aggiungere Raiway, il sistema portuale, quello che sta succedendo in Tim. Si svendono infrastrutture strategiche del Paese, che rischiano di essere preda di speculazioni finanziarie e per le quali la discussione e il confronto semplicemente non esistono. Le notizie sono quelle giornalistiche e nessun confronto “vero” è stato avviato. Abbiamo chiesto un incontro unitario al ministro Giorgetti, ma siamo ancora in attesa di convocazione. Deve essere assolutamente chiaro che, se non sarà aperto immediatamente un confronto, chiameremo alla mobilitazione le lavoratrici e i lavoratori, e ovviamente i cittadini, per impedire qualsiasi scelta che metta a repentaglio il futuro di asset strategici, nell’interesse dei dipendenti e del Paese tutto.

Il governo giustifica l’intervento con la necessità di fare cassa per ridurre il debito pubblico: ma non c’è altro modo di reperire le risorse necessarie?

Le ricette del governo sono miopi e inique. Le risorse bisogna andarle a prendere dove sono. Prima di tutto attraverso una vera riforma fiscale che non crei disparità di trattamento, a parità di reddito. Lavoro autonomo, impresa, rendite finanziarie e immobiliari che vengono tassati meno di lavoratori e pensionati, e tenuti fuori dal vincolo della progressività. È urgente una vera lotta all’evasione che non solo non viene contrastata, ma premiata con gli oltre 12 condoni già approvati nei mesi scorsi, nonché perfino legalizzata con l’assurdità del concordato biennale preventivo. Sarebbe giusto, inoltre, pensare a un’imposta sui grandi patrimoni e sugli extraprofitti. Ma bisogna anche investire per la crescita del Paese, sfruttandone le grandi potenzialità con investimenti veri su infrastrutture materiali e immateriali. Altro che i tanti miliardi che sprecheremo per realizzare il ponte sullo stretto. Siamo in presenza delle risorse del Pnrr e contestualmente di due trasformazioni epocali che avvengono con una velocità impressionante: la transizione energetica, quella digitale, e si pensi alle ricadute dell’intelligenza artificiale. Servono politiche industriali. Sbagliare in questo contesto rischia di collocare fuori mercato la gran parte del tessuto produttivo del Paese

Aumentano le spese militari in tutta Europa e l’Italia non fa eccezione. La corsa al riarmo come preludio a un conflitto mondiale?

kirill_makarov - stock.adobe.com 

La possibilità che i molteplici conflitti in corso diventino una guerra globale non è frutto di coloro che hanno una visione apocalittica del futuro. È il rischio concreto che si pone con il circolo vizioso innescatosi tra aumento delle spese in armi a livello mondiale e moltiplicarsi delle guerre.

Ce lo spiega bene Francesco Vignarca, coordinatore Campagne di Rete pace disarmo, partendo dalla constatazione che da un paio d’anni a questa parte l’invasione russa dell’Ucraina ha dato avvio a una serie di decisioni che hanno “portato a un record di investimenti diretti e in indiretti, che hanno fatto esplodere anche i fatturati, gli stock in borsa e gli ordini dei produttori di armi”.

Vignarca spiega che già da un ventennio si è via via irrobustita la crescita delle spese in armamenti dei diversi Stati in tutto il mondo: “Nel 2022 si è toccato i 2.240 miliardi di dollari, il doppio rispetto all’inizio del secolo. Questo è stato giustificato con la guerra al terrorismo, dopo l’attentato alle Torri gemelle e la guerra in Afghanistan. Un rilancio che ha aumentato i conflitti. L’idea è che l’intervento militare sia possibile ovunque si voglia, in base a esigenze e pressioni di potenza dei singoli Paesi, mentre non ci si appella alle norme internazionali per prevenire e frenare conflitti”.

ASCOLTA FRANCESCO VIGNARCA
 
“Questo ha spinto anche i Paesi minori ad armarsi secondo la retorica che più si afferma di essere in pericolo, più ci si arma e si cerca di essere preponderanti facendo crescere i propri bilanci militari. Arrivando poi alle cosiddette profezie che si auto-avveranno e quindi alle esplosioni di nuove guerre”. “Inoltre – prosegue Vignarca - prima i politici nascondevano i propri intenti, mentre ora dichiarano apertamente la loro volontà di aumentare le spese militari”.

L’EUROPA NON FA ECCEZIONE 

Il coordinatore Campagne di Rete pace disarmo giunge quindi a portare l’esempio dell’Europa, precisando come non sia stata aumentata solamente la spesa dei singoli Stati, per i quali le proiezioni per il 2024 parlano di 28 miliardi (10 per nuovi armamenti), ma ha subito una crescita anche la spesa collettiva dell’Unione europea. “In questo giro di bilancio – aggiunge – sono stati stanziati i primi fondi diretti per l’industria militare, con l’European Defence Fund, e sempre più fondi sono stati erogati per la produzione e l’invio di armi in Ucraina. Ancora una volta gli Stati si preparano ai conflitti armandosi per un confronto muscolare e violento, non per risolvere i problemi, come ad esempio le disuguaglianze e il cambiamento climatico”.

Sono proprio le due piaghe citate da Vignarca a essere tra le cause dell’ampliamento dei focolai di guerra nel mondo: ne sono causa ed effetto. “Dietro le guerre in corso, sia quella in Ucraina che quella in Medio Oriente, c’è un gioco che riguarda la presenza delle potenze: ad esempio, nel Mediterraneo, con l’ascesa di nuovi attori regionali, oltre al confronto globale tra Cina e Stati uniti”.

La Marina militare del nostro Paese è stata chiamata come parte attiva nella crisi del Mar Rosso. “L’Italia si muove con i partner europei se sono minacciati interessi economici, ma questo non accade per i diritti delle persone come per la situazione nello Yemen (direttamente interessato nella suddetta crisi, ndr). Il ruolo dell’Occidente non è più riconosciuto nel cosiddetto Sud del mondo perché fa una cosa e ne predica un’altra: il doppio standard comporta un’insicurezza globale”.

AFFARI PIÙ CHE SPORCHI

Sull’Italia e gli interessi economici nel commercio di armi è Giorgio Beretta a parlare, in quanto analista del commercio bellico dell'Osservatorio permanente sulle armi leggere. Torna a parlarci del tentativo dell’attuale governo di allargare le maglie dell’export di armi attraverso nuove norme: “Un disegno di legge approvato dalla commissione Affari esteri e difesa del Senato contiene tre emendamenti che riducono gravemente la trasparenza della Relazione annuale al Parlamento sulle esportazioni dall’Italia di materiali militari”, normati da una legge ad hoc.

Gli scopi sono due: “Ridurre al massimo la trasparenza, garantita dall’informazione pubblica e al Parlamento, sulle attività di esportazioni di armi e sistemi militari e limitare i divieti che vengono decisi sulla base delle norme nazionali e internazionali dall'Unità per le autorizzazioni di materiali d'armamento insieme al ministero degli Esteri”.

Oltre a sottolineare la gravità di tali mosse da parte del governo, Beretta aggiunge l’aggravante della volontà di cancellare la lista delle “banche armate”, perché dalla Relazione al Parlamento saranno “eliminati tutti i dati sulle singole autorizzazioni ed esportazioni per tipo di armi, quantità e valore e tutte le informazioni riguardo alle attività delle banche”. Quindi annuncia una compagna promossa anche dalle riviste Missione Oggi, Mosaico di Pace e Nigrizia.

Oltre a battersi affinché, a partire dal nostro Paese, vi siano norme stringenti sul commercio d’armi, Vignarca conclude affermando che “la soluzione per una de-excalation dei conflitti sta nello stop al riarmo globale, ma anche dal tentativo di rimettersi attorno a un tavolo per una nuova conferenza di pace che possa mettere in equilibrio la situazione in termini cooperativi e non di contrasto”.

Legambiente: “Decisione incomprensibile che non aiuta gli agricoltori né il futuro dell’agricoltura e che va a discapito dell’ambiente e della salute dei cittadini”.
 
 “L’annuncio della presidente della Commissione Ue di voler proporre il ritiro della proposta legislativa sui pesticidi – commenta Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente * – è incomprensibile e rappresenta un sonoro passo indietro rispetto al grande tema dell’agrogeologia e al futuro dell’agricoltura.
 
Così facendo non si aiutano gli agricoltori, né l’ambiente e la salute dei cittadini. Si tratta dell’ennesima strumentalizzazione politica in vista delle prossime elezioni Europee. Questo regolamento, che era attualmente in discussione, avrebbe potuto rappresentare uno dei fondamenti della nuova politica agricola comune, architrave di un più ambizioso green deal europeo e uno strumento importante per raggiungere gli obiettivi della strategia Farm to fork, quali la riduzione del 50% dell’uso di pesticidi chimici e la riduzione del 50% dell’uso di pesticidi più pericolosi entro il 2030.
 
Senza contare che uno dei temi al centro della proposta di regolamento, oggi messa in discussione dalla Commissione Ue, riconosce in termini decisi il ruolo dell’agricoltura biologica nella riduzione dei pesticidi indicandola come priorità nei piani d’azione nazionali. Il nostro auspicio è che la nuova proposta di regolamento che la Commissione Ue dovrà formulare vada nella stessa direzione del regolamento appena ritirato per difendere davvero la qualità e l’eccellenza delle produzioni europee, l’ambiente e la salute degli agricoltori e dei consumatori”.  
 
“Come denunciamo da anni con il nostro report Pesticidi nel piatto – aggiunge Angelo Gentile, responsabile nazionale agricoltura di Legambiente – buona parte della frutta, della verdura e degli alimenti che mangiamo tutti i giorni contengono residui di pesticidi.
Un fatto grave su cui è fondamentale lavorare per arrivare ad una regolamentazione. IL SUR andava in questa direzione per cui quanto annunciato oggi dalla presidente Commissione UE ci lascia sgomenti.
Parliamo di un regolamento che fino ad oggi ha avuto un iter travagliato, e che faticosamente stava cominciando a vedere la luce. L’Europa ci ripensi, mentre a livello nazionale torniamo a ribadire anche l’urgenza dell’adozione del PAN (Piano d’azione Nazionale per l’uso sostenibile dei fitofarmaci) e l’approvazione di una legge nazionale contro il multiresiduo che vieti la compresenza di principi attivi”. 
 
Al Governo Meloni, che oggi ha commentato la notizia per voce del Ministro dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste Francesco Lollobrigida e del Ministro dei trasporti e delle infrastrutture Matteo Salvini, l’associazione ambientalista ricorda che gli agricoltori possono essere aiutati in altro modo. A livello nazionale, come ha già sottolineato ieri Legambiente, servono interventi per supportare la transizione ecologica del settore ma al tempo stesso garantire il reddito: si snellisca la burocrazia, si garantisca assistenza tecnica e politiche che premiano economicamente chi punta su agrogeologia e servizi ecosistemici, si incentivi lo sviluppo delle rinnovabili in ambito agricolo per ridurre i costi energetici e si approvi l’inserimento dei delitti delle agromafie nel codice penale per fermare l’illegalità e la concorrenza sleale del settore.
 
 
* Ha iniziato la sua storia in Legambiente nel 1998 grazie al servizio civile, dal 2006 al 2011 ne è stato il responsabile scientifico, vicepresidente dal 2011 al 2015, direttore generale dal 2015 al 2018.È stato membro dei seguenti organismi: Consulta per le politiche delle infrastrutture e della mobilità sostenibili istituita presso il Ministero (2021-2022); Coordinamento nazionale del Forum del Terzo Settore (2018-2021); Gruppo di lavoro ‘Mafie e ambiente’ degli Stati generali della lotta alla criminalità organizzata promossi dal Ministero della Giustizia (2017); Comitato scientifico dell’Osservatorio per l’analisi normativa del Corpo forestale dello Stato (2016-2017); Comitato di indirizzo sulla gestione dei rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche presso il Ministero dell’ambiente (2008-2012).È stato consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti della XIV legislatura (2001-2006).È membro del Comitato scientifico di Ecomondo, la fiera di Rimini su tecnologie verdi e sviluppo sostenibile, e di K.EY, la fiera di Rimini sull’energia rinnovabile. È stato membro del Comitato direttivo di Chimica Verde Bionet e del Comitato di indirizzo di RemTech, la fiera di Ferrara sulla bonifica dei siti contaminati.È coautore dei seguenti libri di Legambiente: "Rapporto Ecomafia”, 2003-2018, Edizioni Ambiente, Simone Editore, Marotta & Cafiero Editori; "Bioeconomia”, 2015, Edizioni Ambiente; "Ecogiustizia è fatta”, 2015, La Biblioteca del Cigno; "Rifiuti Made in Italy”, 2009, Edizioni Ambiente; "Uscire dal petrolio”, 2003, Edizioni Le Balze.Autore di numerose pubblicazioni su economia circolare, inquinamento industriale, bonifica dei siti inquinati, aria, acqua, energia, nucleare, amianto, ecoreati ed ecomafia.Docente in master, seminari e corsi di formazione organizzati da enti privati e pubblici, tra cui la Scuola Superiore della Magistratura, l'Ordine dei giornalisti di Roma, Fondazione Treccani Cultura e La Strada degli Scrittori.