Il governo ha deciso di dare seguito ad una “novità” da poco approvata dal Consiglio dei ministri, inserita nella bozza del DL Aiuti Quater e la cui impostazione era già stata predisposta dall’ex ministro Roberto Cingolani – ora nuovo consigliere energetico della premier Giorgia Meloni.
Parliamo della decisione di sbloccare le trivellazioni di gas metano nei mari italiani.
L’obiettivo è consentire alle società petrolifere di estrarre metano da una porzione di fondale nell’Adriatico settentrionale, di fronte a Veneto e Romagna, e di sfruttare pozzi già esistenti a largo della Sicilia meridionale.
Lo sfruttamento deve avvenire a oltre 9 miglia dalla costa, per giacimenti con un potenziale sopra i 500 milioni di metri cubi l’anno e “previa presentazione di analisi tecnico-scientifiche e programmi dettagliati di monitoraggio e verifica dell’assenza di effetti significativi di subsidenza sulle linee di costa”. Continuerebbe invece a rimanere interdetta l’area di fronte a Venezia.
È importante notare che il rilascio dei nuovi permessi e il maggiore sfruttamento di alcuni già esistenti sono subordinati alla partecipazione dei produttori ad un particolare meccanismo finanziario messo in piedi dal governo, coordinato dal Gestore dei servizi energetici (Gse) e incentrato su prezzi amministrati (calmierati) ottenuti tramite la sottoscrizione di contratti derivati, la cui natura cercheremo di spiegare. In breve: no price-cap, no concessioni, no trivellazioni, no party.
Il Gse sarebbe quindi lo snodo di un sistema di contratti di durata massima decennale per l’acquisto di diritti sul gas a un prezzo stabilito per decreto, definito applicando una riduzione percentuale, anche dinamica, ai prezzi giornalieri del punto di scambio virtuale (PSV) – che sarebbe l’indice di riferimento per l’Italia, alternativo al noto TTF olandese – a livelli che devono comunque rimanere compresi fra 50 e 100 euro per MWh.
L’obiettivo è che i titolari di concessioni mettano a disposizione del Gse, già da gennaio e fino al 2024, un quantitativo di diritti sul gas corrispondente ad almeno il 75% dei volumi produttivi attesi dagli investimenti.
Il Gse, a sua volta, aggiudicherà i diritti sul gas nella sua disponibilità ai clienti finali energivori. Il ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin, ha precisato che “potenzialmente si stimano 15 miliardi di metri cubi sfruttabili nell’arco di 10 anni dai concessionari”.
Fin qui, tutto bene, almeno dal punto di vista del metodo, anche se il merito della decisione è altamente discutibile: il governo vuole aumentare la produzione italiana di gas e opportunamente mette mano alle concessioni di sfruttamento del territorio, nel pieno delle sue prerogative. Ma da questo punto in poi il governo decide di strafare.
Un gioco d’azzardo pericoloso
Oltre agli aspetti climatici e ambientali, il potenziamento delle estrazioni di gas non è una buona idea anche perché dietro le promesse di gas sovrano con prezzi amministrati alle patrie industrie si nasconde in realtà un gioco d’azzardo pericoloso, in cui lo Stato, a seconda di come si legge un testo non del tutto chiaro, si mette a fare il trader energetico o il croupier, senza averne il mandato, le competenze, la tempistica o la struttura organizzativa.
Il governo vuole cioè fissare una fascia di prezzo tramite l’imposizione di un meccanismo di copertura del rischio finanziario legato alle fluttuazioni delle quotazioni del gas, imponendo maldestramente l’utilizzo di quegli stessi contratti derivati che spesso la politica non ha esitato a criticare come strumenti speculativi, sbagliandosi grossolanamente sia nel criticarli quando usati da fantomatici “speculatori”, sia nel volersene servire ora direttamente.
Se il governo vuole ampliare la portata delle concessioni di sfruttamento di gas in Italia è libero di farlo, per quanto anacronistica e contraddittoria sia questa decisione. Ma mettere in piedi un meccanismo di trading energetico che ruota attorno al Gse è tutto un altro paio di maniche.
Il dubbio interpretativo del testo di legge riguarda appunto il ruolo del Gse. La lettura forse più probabile è quella secondo cui il Gse sia una controparte vera e propria dei contratti derivati in questione. In questo caso, lo Stato si metterebbe a fare sostanzialmente il trader energetico. Un’altra possibile, ma meno probabile, lettura è che il Gestore svolga sostanzialmente un ruolo di smistamento dei contratti derivati. In questo caso, lo Stato si metterebbe a fare il croupier, mettendo idealmente in capo ai privati tutto il rischio e la responsabilità di questi contratti.
Stato-trader
Nell’ipotesi di uno Stato-trader, la bozza di decreto Aiuti Quater prevede che il “Il Gruppo Gse stipula contratti di acquisto di diritti di lungo termine sul gas… in forma di contratti finanziari per differenza rispetto al PSV, di durata massima pari a dieci anni“.
Come accennato, in questo caso, il Gse sarebbe una controparte vera e propria nei contratti sottoscritti con i produttori. Tali acquisti sarebbero stipulati appunto nella forma dei cosiddetti “contratti per differenza”. Adattati ad un contesto di prezzi calmierati, questi accordi prevedono che, a seconda che la differenza fra prezzo di mercato e prezzo amministrato sia a favore dell’acquirente o del venditore, la controparte favorita pagherà la differenza di prezzo alla controparte sfavorita, in modo da riequilibrare la transazione al livello di prezzo amministrato deciso in partenza.
Se, cioè, al momento della chiusura del contratto il prezzo di mercato fosse inferiore al prezzo amministrato, l’acquirente dovrà pagare al venditore la differenza. Se, invece, il prezzo di mercato alla chiusura della transazione fosse superiore al prezzo amministrato, il venditore pagherà all’acquirente la differenza.
Il gioco funziona per l’acquirente fin tanto che il prezzo di mercato è superiore a quello amministrato. Si tratta sostanzialmente di una scommessa da parte del governo sul rialzo dei prezzi.
In linea generale, il gioco funziona a prescindere dall’andamento del singolo contratto, se questi contratti di copertura del rischio rientrano in un più vasto portafoglio di derivati, in cui ad ogni posizione rialzista corrisponde una posizione ribassista e viceversa, come è prudente che sia per una gestione equilibrata e oculata del rischio.
Ma cosa succede se, invece di un trader professionale con un portafoglio variegato di derivati, è lo Stato che si mette a fare trading energetico, puntando tutte le sue fiches su un’unica scommessa rialzista su un unico prodotto?
Nella fase attuale potrà sembrare una verità scontata che i prezzi di mercato del gas siano destinati a rimanere per molto tempo a livelli più alti rispetto quelli decisi per decreto. In realtà, non è per niente scontato che i prezzi di mercato del gas rimarranno sopra i prezzi amministrati per dieci anni o per cinque.
Tanto per fare un esempio, il prezzo del gas del contratto per consegna nel 2026 sul TTF (la famigerata piazza olandese teoricamente in mano agli “speculatori” e in cui spesso le quotazioni sono superiori al PSV) è attualmente di 41 euro al MWh. Quelli per il 2027 e 2028 sono attorno a 34 euro. Da notare anche come gli impegni di decarbonizzazione, con la prevista diminuzione della domanda di gas, prefigurino allo stesso modo un calo dei prezzi nel medio termine.
Cosa succede, dunque, se fra qualche anno il prezzo di mercato scendesse sotto la soglia minima dei 50 €/MWh calmierarti dal governo? Succede che gli energivori incastrati nel meccanismo di derivati finanziari creato dal governo-trader pagheranno il gas più di quanto non dovrebbero. Oppure, che il Gse, lo Stato, i contribuenti si ritroveranno sul groppone gas sopra-pagato, sotto forma di diritti sul gas, che gli energivori non vorranno prendere in consegna e che andranno ad aumentare le passività pubbliche.
Rimane da capire se gli energivori, una volta acquisiti i diritti sul gas nella disponibilità del Gse con una non meglio precisata procedura d’asta, possano o meno tirarsi indietro. Tali diritti diventerebbero cioè obblighi di acquisto a quei prezzi oppure gli aggiudicatari potrebbero comunque rinunciare ad esercitare quei diritti? Non si sa ancora.
Politicamente sarebbe un suicidio per il governo obbligare gli energivori a comprare gas a prezzi superiori a quelli di mercato, anche se legalmente lo Stato potrebbe in teoria cercare di far valere i risultati delle aste in modo coercitivo.
Stato-croupier
Nel caso di un Gse-croupier, anche solo passare di mano le carte, cioè smistare i contratti, promuovere forzatamente queste operazioni, vincolando i nuovi permessi di estrazione alla partecipazione al sistema messo in piedi dal governo crea un incentivo perverso e mistificante.
Perverso perché stimola una produzione di gas addizionale molto marginale, più costoso da produrre, che farà poco per aumentare l’offerta e che invece danneggerà gli sforzi e la reputazione di decarbonizzazione italiani.
Mistificante perché tutto basato su meccanismi finanziari destinati a sviare l’attenzione dal fatto che i presunti vantaggi di questa operazione hanno un’altra faccia della medaglia, e cioè che l’intero rischio e responsabilità sono scaricati sulle spalle dei produttori e dei privati, nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore, anche in questo caso, lo Stato potrebbe doversi accollare, direttamente o indirettamente, le passività private generate dal suo meccanismo.
La bozza del DL Aiuti Quater indica che il meccanismo finanziario in questione funzionerà “senza nuovi o maggiori oneri per il Gruppo Gse”. Questa frase è la pietra angolare su cui poggia per intero l’ipotesi dello Stato-croupier, cioè lo scenario di uno Stato che non intende rimetterci in questa operazione.
È una pietra angolare unica e un po’ esile, però, visto che, altrettanto espressamente e in più passaggi, la bozza di decreto dice che: “Il Gruppo Gse stipula contratti di acquisto di diritti di lungo termine sul gas… in forma di contratti finanziari per differenza rispetto al PSV” e “i diritti offerti sono aggiudicati all’esito di procedure di assegnazione, secondo criteri di riparto pro quota. In esito a tali procedure, il Gruppo Gse stipula con ciascun cliente finale assegnatario un contratto finanziario per differenza per i diritti aggiudicati”.
Questi ultimi due passaggi potrebbero essere in fondamentale contraddizione con quello secondo cui tutto deve avvenire “senza nuovi o maggiori oneri per il Gruppo Gse”. Se il Gse è controparte dei produttori di gas prima e degli energivori poi, come traspare dal testo, sembra difficile e imprudente escludere a priori gli scenari e le eventuali passività descritti sopra, in realtà molto probabili. Se lo Stato crede cioè di poter fare semplicemente da croupier e che la cassa del casinò non perda mai, rischia di sbagliarsi di grosso.
In questo caso, la perdita, il pasticcio, diventano molto più probabili perché la scommessa è fatta per un solo gioco, su un solo tavolo, con regole non chiare, da un croupier improvvisato, che a differenza di un croupier di casinò è anche politicamente esposto e responsabile.
Il fatto che in un’operazione di copertura finanziaria del rischio ci sia una parte che ci perde e una che ci guadagna è del tutto normale. Quello che non è normale è che sia lo Stato a entrare direttamente in questi meccanismi di mercato.
È vero che nessuno obbliga i produttori di gas o gli energivori a aderire a questo meccanismo, ma vincolare i nuovi permessi di estrazione alla partecipazione al sistema di derivati messo in piedi dal governo rischia di essere alla fine un gioco delle tre carte, dove però rischiano di perderci tutti, Stato compreso.
Sarebbe opportuno quindi che lo Stato lasciasse i derivati a chi si occupa per mestiere di questi strumenti e li usa giornalmente per fissare i prezzi di molteplici materie prime a varie scadenze; tutte cose che i trader sanno fare molto meglio del governo o del Gse, che stanno già facendo e che hanno contribuito a ridurre nelle ultime settimane i prezzi del gas sui mercati europei. Tutto ciò senza bisogno di interventi a gamba tesa di governi con la fissa del price cap, anche quando si sa che funzionano poco e male o non funzionano per niente.
Narrazioni
Il governo italiano avrebbe potuto ottenere più efficientemente lo stesso risultato di aumento dell’offerta limitandosi semplicemente ad allargare le maglie delle estrazioni nazionali, o facilitando ulteriori acquisti di gas sul mercato internazionale, senza dover riattivare giacimenti italiani precedentemente chiusi.
Ma la riapertura di vecchi pozzi e le concessioni per quelli nuovi hanno in realtà uno scopo diverso e più importante per il governo, e cioè legittimare la narrazione di un esecutivo che si rimbocca subito le maniche, prendendo il toro energetico per le corna, difendendo l’interesse nazionale anche a mani nude se necessario.
Questo è il film che probabilmente la premier Meloni si è fatta e a cui magari crede anche sinceramente. La realtà rischia di essere più prosaica. Quello che probabilmente il governo Meloni dovrà fare è chiedere e ottenere dalle Camere l’autorizzazione ad uno scostamento di bilancio per coprire eventuali maggiori oneri che lo Stato potrebbe doversi accollare per questa operazione, pur mantenendo formalmente gli intenti di neutralità di bilancio “per il Gse”, che non vuol dire per i contribuenti italiani.
È molto probabile, quindi, che il governo finisca per aumentare non tanto la disponibilità di gas per gli energivori italiani, quanto l’indebitamento dello Stato per pagare una produzione di gas nazionale marginale e più costosa, che si sarebbe potuto evitare con importazioni meno dispendiose o limitandosi a favorire semplicemente l’aumento dell’offerta nazionale.
Come in un gioco di specchi o delle tre carte, sembra che una cosa ci sia e poi invece non c’è, è solo un’illusione ottica, e nel frattempo i soldi di tutti – energivori o contribuenti – potrebbero essere volati via.
Commenta (0 Commenti)La pericolosità del governo Meloni è spesso risolta così: sarà quasi tutto uguale, in economia le mani sono legate – da energia, Ucraina, effetti del Covid, inflazione -, in politica estera ancora di più. In fin dei conti, il discorso di Meloni lo ha dimostrato, è una destra moderata.
Lo ripete quotidianamente il Corriere della sera. A sinistra, una delle interpretazioni più frequenti tende a sminuire il rischio rappresentato da questo governo. La battaglia si concentrerà sul fronte dei diritti civili, si dice. L’immigrazione è un diversivo. Distrae dai problemi veri, materiali degli italiani. Appartiene alla sovrastruttura e all’ideologia, si azzardano a dire alcuni.
Così, la contrapposizione tra noi e loro che si vorrebbe abolire viene riaffermata. Il sociale, l’economico riguarda la nostra classe media in declino e i nostri operai in affanno. Roba di “italiani”. Ma il fenomeno migratorio ha un’importante dimensione economico-sociale. Le persone straniere in Italia sono un consistente pezzo di classe operaia (il 9%, che produce 144 miliardi, il 10% del Pil, dati F. Moressa del 2022). E, a differenza degli italiani, hanno un accesso limitato alle risorse del welfare e al riconoscimento sociale e politico. I tassi di povertà e disoccupazione, accesso a salute e abitazioni sono strutturalmente più bassi di quelli degli italiani. I tassi di carcerazione sono più alti. E non certo per la predisposizione al crimine di cui postfascisti e sociologi fintamente progressisti parlano. Chi ha la cittadinanza essendo nato altrove, a sua volta, non è considerato italiano al pari di chi discende da italiani bianchi. Non lo è dai media, né dalla politica, né dalle imprese, né nella cultura.
Sottovalutare l’estrema destra di governo tradisce un privilegio («non se la prenderanno con me») e una visione dei diritti e del rapporto tra ideologia e politica debole. Bisogna invece comprendere che accanirsi su migranti – dentro e fuori i confini – e sui diritti riproduttivi non ha nulla di astratto. Sono piuttosto operazioni che incidono sulla materialità dello sfruttamento. Regolano il prezzo della forza lavoro e delle condizioni in cui si possono o meno rivendicare diritti. Donne, comunità Lgbtq+, migranti non sono minoranze. Sono (anche) forza lavoro.
Da questo punto di vista, l’intervista rilasciata da Roberto Speranza a Repubblica (8 novembre) è significativa. Egli invita a non farsi rinchiudere nelle ridotte identitarie legate al rapporto con i migranti. Bisogna occuparsi «di italiani», di quelli più svantaggiati in particolare. Come sembra fare, tanto retoricamente quanto efficacemente, Giuseppe Conte. Al contrario, Luigi Manconi, sullo stesso quotidiano, invitava a far ripartire il Pd dal molo di Catania. Enrico Letta ha accolto positivamente la richiesta. La sua scelta si colloca a metà tra le buone intenzioni a costo zero e un cattivo passato da riscattare.
La detenzione amministrativa nei centri di identificazione ed espulsione (oggi Cpr) è stata introdotta dal centro-sinistra con la legge Turco-Napolitano nel 1998. Tuttavia, più recentemente, diversi europarlamentari del Pd hanno tentato di modificare il regolamento di Dublino. Altri esponenti nazionali, a fasi alterne, si sono schierati contro la Bossi-Fini e con le Ong nel Mediterraneo centrale, dopo che il loro partito aveva contribuito a delegittimarle nella fase del governo Gentiloni. I decreti Minniti-Orlando hanno introdotto un “diritto etnico” per chi fa domanda di asilo. Non è chiaro se quell’eredità sia stata ripudiata o meno. La partecipazione di vari esponenti del Pd al presidio a Roma contro gli accordi con la Libia fa sperare in tal senso. Lo ius scholae, che è una mediazione a destra dello ius soli, viene dopo che il Pd ha sprecato varie occasioni per introdurre forme di accesso alla cittadinanza meno escludenti.
Il Pd non ha la coscienza sufficientemente pulita per essere credibile nella lotta al razzismo. E ancora meno lo ha il M5S di Conte che ha volutamente trascurato la questione delle migrazioni nel suo programma elettorale – che pure vale poco, come quello di tutti i partiti. Tuttavia, se è vero che il modello di Meloni è quello polacco (ossia appartenenza al blocco euroatlantico e repressione interna di donne, Lgbtq+ e migranti), chi pagherà maggiormente il prezzo del postfascismo sarà chi è considerato irrimediabilmente altro dal modello di cittadino che l’estrema destra vuole difendere.
Commenta (0 Commenti)ECONOMIA. La svolta storica che il mondo sta vivendo, da qualcuno deprecata in quanto the age of megathreats (“l’età delle megaminacce”), viene descritta come policrisi per indicare una convergenza drammatica di […]
La svolta storica che il mondo sta vivendo, da qualcuno deprecata in quanto the age of megathreats (“l’età delle megaminacce”), viene descritta come policrisi per indicare una convergenza drammatica di molte crisi (economica, sociale, energetica, ambientale, democratica, militare) che si alimentano a vicenda. Un elemento critico, però, spicca tra gli altri ed è il punto a cui è giunto il processo di circolazione finanziaria analizzato nel libro di Riccardo Bellofiore.
In L’ultimo metrò. L’Europa tra crisi economica e crisi sanitaria scritto con Francesco Garibaldo per Mimesis, Bellofiore descrive la natura del meccanismo “svincolato dai rapporti commerciali” e reali grazie a una liquidità quasi illimitata, non frenata dall’andamento dell’occupazione e dei fondamentali della cosiddetta economia reale, un meccanismo che, nei decenni passati, ha potuto “espandersi senza limiti su scala transnazionale” anche “in caso di bolle delle attività (finanziarie e immobiliari)”.
Si tratta di quella liquidità creata dalle politiche monetarie “non convenzionali” (quantitative easing e molto altro) adottate progressivamente dalla crisi del 2007/2008 dalle Banche centrali di tutti i paesi in conseguenza delle quali il mondo è stato salvato dall’abisso, ma che ora vengono ritirate svelando i loro aspetti controproducenti. Primo fra tutti il concorso a un’ulteriore finanziarizzazione la quale è connessa con l’”iperglobalizzazione” del recente passato, così come il suo annaspare è connesso con la “globalizzazione selettiva” che sta subentrando.
L’ipertrofia finanziaria è stata alimentata da bassa inflazione e bassi tassi di interessi (addirittura negativi) e ora, con inflazione e tassi di interesse in vertiginosa ascesa, si trova di fronte a una impasse, come testimoniano lo sconquasso valutario e monetario provocato nel Regno Unito da una improvvida manovra di finanza pubblica poi ritirata, le crescenti turbolenze dei mercati azionari, il crollo dei rendimenti delle piattaforme, le difficoltà delle Big Five altamente tecnologizzate.
Il mostruoso sistema finanziario ombra, che nel tempo è stato creato, articola una miriade di posizioni “fuori bilancio”, in veicoli ad hoc, mercati dei derivati, cartolarizzazioni, nuovi fondi ad alta leva finanziaria, strumenti non convenzionali che esaltano la frammentazione finanziaria e dissolvono la percezione del rischio sistemico. Le stesse multinazionali globali presentano un accentuato carattere finanziario, ricorrendo crescentemente per fare profitti al carry trade, al capital transfer, ad alchimie finanziarie spesso tutt’altro che lecite.
Grazie anche all’imponente rivoluzione informatica tutto ciò che è trasformabile in operazione finanziaria è stato utilizzato per trarne un guadagno, dal credito al campo assicurativo, alle speculazioni, ai cambi, alla securitization, ai derivati, ai futures markets.
La nuova fauna di intermediari, sfruttando la benevolenza dei regolatori, ha creato strumenti e veicoli per distribuire e gestire il rischio e ha trasformato in titoli scambiabili sul mercato rapporti di debito e di credito prima non scambiabili, permettendo di incrementare a dismisura i profitti. Ma ciò facendo la fauna degli intermediari ha anche aumentato la complessità dei mercati stessi, dando vita a singolari piramidi finanziarie (gran parte delle cui operazioni sono fuori bilancio) e trasformando la gestione del rischio in aggressiva assunzione del rischio.
La “eutanasia del rentier”, che Keynes aveva auspicato per imbrigliare l’intrinseca predisposizione del capitalismo alle crisi periodiche e dare vita a duraturi programmi di pace e di giustizia sociale, è stata rovesciata nel suo contrario. Di conseguenza si moltiplicano le fonti di instabilità, dalla crescita esponenziale di debiti soprattutto privati, agli alti e bassi delle valute, alle convulsioni negli andamenti delle bilance dei pagamenti, al saliscendi di apprezzamenti e deprezzamenti di assets interni, a repentini cambiamenti nei movimenti di capitale. Tutto ciò è quanto sta avvenendo intorno a noi, amplificato dalle conseguenze economiche della guerra in Ucraina.
Non sappiamo con precisione dove siano e come funzionino i meccanismi di leva finanziaria, cioè la tendenza ad assumere debiti, ma ora vediamo quanti costi aggiuntivi e quante difficoltà essi hanno generato. Poiché in fondo la finanziarizzazione e la iperglobalizzazione sono state un modo di contrastare la stagnazione e di cercare fonti alternative di profitto, sarebbe esiziale se, invece di rimodellare in tutt’altra direzione e con tutt’altri contenuti l’intero processo di sviluppo economico e sociale puntando sul lavoro e i bisogni reali sociali insoddisfatti, si volesse perseguire la pericolosa ipotesi di basare il rilancio della crescita e la ricerca di nuove fonti di profitti su una “minore protezione e una maggiore concorrenza nei servizi” (la qale comporterebbe tagli alla spesa sociale e nuove privatizzazioni su scala globale in campi strategici come la sanità e affini).
Cosi come sarebbe esiziale arrendersi all’idea che l’innovazione sia possibile solo se veicolata da spese in armi e in guerra (a cui andrebbe, pertanto, finalizzato in via prioritaria il sostegno dell’intervento pubblico), mentre è negli investimenti per la pace che vanno urgentemente identificate le sorgenti dell’innovazione del futuro.
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Alessandro Bergonzoni: "È finito il tempo del torto e della ragione, inizi quello del ragionamento. Sì all'accoglienza: la miglior difesa è l'attracco"
https://www.collettiva.it/copertine/italia/2022/11/11/video/guerre-perse-armi-bergonzoni-2482698/
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Si accarezzano le pulsioni virili ed autoritarie della destra estrema. Ma non mettiamoci il paraocchi. In parallelo si attenuano i toni antieuropei, si accentua l’atlantismo filo Usa, si assumono toni più responsabili sui temi del bilancio. Cosa significa questo mix? Vedremo meglio col tempo, ma probabilmente sì cercherà di dare una consistenza politica e culturale, una sorta di nuova identità allo schieramento conservatore.
Dopo la fase del liberismo all’italiana e quella del populismo d’accatto arriva al governo una professionista della politica, nata e cresciuta nella destra storica, che ha messo all’angolo gli alleati prendendo decisamente il comando dello schieramento e che gode di una maggioranza parlamentare consistente.
Non è da escludere, allora, che questo fronte, così fortemente ristrutturato al suo interno abbia davanti a sé una vita non breve e possa, perciò, porsi obiettivi ambiziosi di medio – lungo termine. Anche perché, sul versante opposto, siamo ben lontani da un rinnovamento-rafforzamento dei soggetti politici. Intendiamoci: non siamo di fronte ad una ondata di consensi al fronte conservatore e ad un drastico ridimensionamento dei progressisti. Siamo di fronte a due schieramenti, quantitativamente non dissimili, ma uno di essi ha il vento in poppa, mentre l’altro è allo sbando ed ha perso la bussola.
Finora ci si è attardati su una spiegazione di questa divaricazione: la destra ha saputo unirsi e sfruttare la legge elettorale, il centro sinistra no. Tutto vero. Quasi però. Il problema è capire perché questo è accaduto, dove e perché si è sbagliato e come agire perché questa situazione non si protragga a lungo.
Penso sia giunto il momento di ammettere, a malincuore, che l’idea del campo largo sia stata una vera e propria illusione. Una scorciatoia nata dalla speranza di affrontare al meglio un confronto elettorale improvviso per il quale non eravamo preparati. Pensare di mettere insieme un Pd in parte piccolissima amico del M5S ed in maggioranza nemico ed un M5S in parte figlio dell’antipolitica e che vedeva nel Pd il simbolo dell’establishment ed era nel pieno di una mutazione genetica appena avviata, è stata una speranza. Nella quale, adesso è evidente, non credeva nessuno.
Il fronte conservatore ha articolazioni e differenze, ma ha un tessuto connettivo che nei momenti importanti prevale. E non solo per logiche di potere, ma perché il paese è impregnato di valori, culture, interessi radicati e diffusi. Oltre che di mezzi e strumenti di formazione di opinioni e di senso comune.
Quello che oggi chiamiamo fronte progressista, invece, è altra cosa. Siamo lontanissimi dai tempi della vecchia grande sinistra, articolata, ma consistente, ed anche dalla fase dell’illusione neocapitalista e della globalizzazione come orizzonte di emancipazione del mondo e di riduzione della disuguaglianze. E siamo lontani anche dall’ondata del progressismo ulivista che voleva unire le speranze migliori della cultura di sinistra e di quella cattolica, ma che è stata gestita con la visione burocratica e di potere di una vecchia classe politica. Un fronte progressista all’altezza della attuale fase competitiva non c’era e non c’è. E da qui che dovremmo ripartire.
Ho avuto modo di accennare ad un fronte articolato perlomeno in due soggetti rinnovati intorno ai due pilastri del Pd e del nuovo M5s. Ma anche questa sarebbe una scorciatoia. Come lo è la corsa al congresso del Pd con il rito stanco delle primarie. Invece, forse, dovremmo invertire l’ordine delle azioni.
Partire dall’opposizione, praticarla ed articolarla nei gangli vitali della società, nei luoghi di produzione dei beni, della ricerca, del pensiero, in quelli di vita e di svago, in quelli troppo affollati e nelle aree abbandonate, in quelli del disagio giovanile, del degrado e dell’abbandono, delle solitudini e delle paure….
Un lunghissimo elenco di luoghi di riorganizzazione e di costruzione di una ripartenza collettiva. Da frequentare insieme e da vivere nelle e con le tante diversità. Dentro una visione generale tutta da ricostruire sui grandi temi del clima e della pace che dovrebbero essere gli assi portanti di un nuovo e moderno arco progressista.
Compito difficilissimo – in uno scenario globale di guerra e riarmo, di potenziali nuovi conflitti mondiali, di ridefinizione di confini e sfere di influenza – mettere insieme il tutto, l’emergenza dell’oggi ed il futuro, ritrovare la bussola. Si, difficilissimo. Ma nel mondo ci sono realtà più difficili e persone straordinarie che trovano la forza di rialzarsi.