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L’introduzione nel codice penale del nuovo art. 434 bis che punisce le occupazioni abusive finalizzate ai raduni illegali, raccontato come “reato di rave party”, oltre a reprimere qualsiasi manifestazione di dissenso, contiene addirittura sanzioni più pesanti del Testo unico del 1931

Il primo atto del governo Meloni è quanto di più simbolico e certificativo di quel filo nero che lo lega ad un passato che non passa mai.
Viene introdotto nel codice penale il nuovo art. 434 bis che punisce le occupazioni abusive finalizzate ai raduni illegali: con una vera e propria truffa delle etichette raccontato in conferenza stampa dal trio Meloni, Piantedosi, Nordio come reato di rave-party.

Chi invade terreni o edifici, pubblici o privati, per svolgervi raduni ritenuti discrezionalmente dall’Autorità pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica, con un numero di persone superiore a cinquanta, sarà punito con la reclusione da 3 a 6 anni e con la multa da euro 1.000 a euro 10.000.
Questo provvedimento è l’impronta di un governo di estrema destra, liberticida, nostalgico, reazionario e illiberale.
Sotto il regime fascista, il regio decreto del 1926 sulla pubblica sicurezza, già puniva le pubbliche riunioni non preavvisate alle autorità, ma solo con l’arresto non inferiore a 1 mese e con un’ammenda.

Venendo a tempi più recenti in cui, sotto la luce dei principi costituzionali in materia penale, il legislatore ha raggiunto una maggiore consapevolezza sull’uso (e sull’abuso) dello strumento penale, dal 14/01/2000 è stato depenalizzato l’art. 654 del codice penale, che puniva le manifestazioni sediziose con l’arresto fino a un anno.
Oggi, chi vuole organizzare una riunione in luogo pubblico, ai sensi dell’art. 18 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (il famoso Tulps  del 1931, tuttora vigente) deve darne avviso, almeno tre giorni prima, al questore.
I contravventori sono puniti con l’arresto fino a 6 mesi e con un’ammenda.
Il questore, nel caso di omesso avviso ovvero per ragioni di ordine pubblico, di moralità o di sanità pubblica, può già impedire che la riunione abbia luogo e può, per le stesse ragioni, prescrivere modalità di tempo e di luogo alla riunione.
I contravventori al divieto o alle prescrizioni dell’Autorità sono puniti con l’arresto fino a un anno e con un’ammenda.

Inoltre, esiste già, nel codice penale, il reato di invasione di edifici (art. 633) che punisce con la reclusione da uno a tre anni chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati.
La pena è aumentata da 2 a 4 anni se, come avvenuto a Modena, il fatto è commesso da più di cinque persone.
È doveroso chiedersi, allora, visto che l’invasione di edifici e le riunioni non preavvisate alle autorità di pubblica sicurezza sono già sanzionate penalmente e in modo pesante (gli organizzatori del rave di Modena rischiano da 2 a 4 anni di reclusione avendo occupato, in numero certamente superiore a 5, senza titolo, una proprietà privata) perché il governo abbia sentito la necessità di introdurre un nuovo reato.

Ecco svelata la truffa delle etichette:
la verità è che non era affatto necessaria una nuova norma incriminatrice (di condotte che sono già vietate e pesantemente sanzionate dalla legge) ma il rave-party di Modena è stato solo il pretesto per una violenta manganellata al diritto di riunione e di libera manifestazione del pensiero.
La norma è indeterminata al punto che, finché la Corte Costituzionale non ne dichiarerà l’illegittimità, finirà per essere usata per reprimere ogni manifestazione organizzata del dissenso: dalle università alle piazze, dalle scuole alle fabbriche.
Si tratta di una norma che punisce, per esempio, il diritto di manifestare degli studenti nelle scuole (le cd. occupazioni) e il diritto dei lavoratori di scioperare e manifestare occupando le fabbriche. A ben vedere il governo, col trattamento sanzionatorio, va persino oltre il testo unico di epoca fascista.
Si può affermare che “il presidente” Meloni ha finalmente preso le distanze dal fascismo, ma superandolo a destra.

L’autore: Andrea Maestri è avvocato, ex deputato e membro Commissione Giustizia della Camera

Nella foto: La presidente del Consiglio Giorgia Meloni e Matteo Piantedosi, ministro dell’Interno
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Una campagna non violenta per iniziare a costruire la pace. Per cessare il fuoco bisogna non sparare. Verso la manifestazione del 5 novembre a Roma

 

La campagna di “Obiezione alla guerra” è stata lanciata dal movimento nonviolento subito dopo il 24 febbraio, all’indomani dell’attacco russo all’Ucraina: una dichiarazione di sostegno concreto agli obiettori di coscienza delle due parti. Per fermare la guerra bisogna non farla. Per cessare il fuoco bisogna non sparare. Se ognuno attende che sia l’altro a iniziare per primo, si andrà avanti verso un’escalation che porta nel baratro dello scontro nucleare. Gli obiettori di coscienza sono coloro che hanno già iniziato a costruire la pace, non partecipando alla follia della guerra. È questa l’evidenza, la forza grande della verità, che ci porta a sostenere coloro che nelle due parti contrapposte fanno comunque il primo passo.

“Sono concretamente solidale con gli obiettori di coscienza, renitenti alla leva, disertori russi e ucraini; chiedo che vengano lasciati espatriare, riconoscendo loro lo status internazionale di rifugiati”. Dice così la petizione che ha già raccolto migliaia e migliaia di adesioni che saranno fisicamente consegnate al Presidente della Repubblica il 14 dicembre, al Quirinale, in occasione del convegno nazionale sui 50 anni della legge che ha riconosciuto l’obiezione di coscienza al servizio militare in Italia. La Campagna “Obiezione alla guerra” chiede anche ai giovani del nostro Paese di assumersi una responsabilità personale, dichiarandosi preventivamente obiettori verso possibili future avventure militari italiane.

“Lo Stato maggiore dell’esercito italiano ha già emanato una circolare di preallarme per il personale militare che si deve considerare ‘pronto all’impiego’. Considerando che la leva obbligatoria nel nostro Paese è solo sospesa e che tale sospensione resta a discrezione del potere esecutivo di governo, dichiaro fin da questo momento la mia obiezione di coscienza. Non sono disponibile in alcun modo a nessuna ‘chiamata alle armi’. Con la Costituzione italiana ripudiamo la guerra e vogliamo ottemperare al dovere di difesa della patria con le forme di difesa non militare già riconosciute dal  nostro ordinamento. Sollecitiamo il Parlamento all’approvazione urgente della legge per l’istituzione della Difesa civile non armata e nonviolenta”. Si può aderire alla campagna a questo link.

La nostra vicinanza concreta a chi, pur dentro il conflitto, ha scelto la nonviolenza, si è manifestata anche nel corso della missione di pace messa in atto con la carovana “Stop the war now” con la quale siamo andati a Kiev. In quei giorni abbiamo lanciato ponti e incontrato organizzazioni della società civile ucraina come il Movimento pacifista ucraino, impegnato da anni per la cultura di pace e il sostegno agli obiettori di coscienza, la Nonviolence International Ukraine per la resistenza nonviolenta nei territori occupati, l’Institute for Peace and Common Ground, All Ukraine Youth Centre.

Abbiamo portato loro aiuti concreti per meglio organizzarsi e attuare la loro resistenza civile e sostenere i costruttori e le costruttrici di pace. Abbiamo incontrato i loro avvocati che impostano una difesa nel rispetto dei diritti umani fondamentali, e che chiedono all’Europa di attivarsi per garantire agli obiettori protezione e accoglienza, riconoscendoli come rifugiati politici e aprendo loro le porte.

I nonviolenti russi e ucraini sono le uniche voci delle due parti che stanno dialogando tra di loro, che creano un ponte su cui può transitare la pace, grazie al coraggio e all’impegno di chi a Kiev e Mosca, rischiando di persona, lavora per la crescita della nonviolenza organizzata.
Il documento di convocazione della manifestazione nazionale del 5 novembre a Roma, su questo punto ha parole inequivocabili: "Siamo con chi rifiuta la logica della guerra e sceglie la nonviolenza", "Le guerre e le armi puntano alla vittoria sul nemico ma non portano alla pace", "Tacciano le armi. Non esiste guerra giusta".

Siamo cioè con gli obiettori di coscienza, disertori, pacifisti, nonviolenti. La scelta da fare non è quella delle armi che puntano all’occhio per occhio, e tutto il mondo diventerà cieco, ma quella del ripudio della guerra stessa e degli strumenti che la rendono sempre più insensata e insostenibile. Gli obiettori di coscienza sono una piccola luce di speranza nell’oceano delle tenebre che ci circonda.

Mao Valpiana è Presidente del Movimento Nonviolento
Esecutivo Rete italiana Pace e Disarmo

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INTERVISTA. Il vicesegretario: l'impianto originario del partito è superato dalla storia. Va rifondato mettendo al centro lavoro e disuguaglianze. Io candidato? C’è tempo fino a gennaio, ora parliamo di idee. Il reato di rave è liberticida e incostituzionale

Giuseppe Provenzano, foto LaPresse Giuseppe Provenzano - LaPresse

Giuseppe Provenzano, vicesegretario del Pd. Reato di rave, via libera ai medici no vax, rinvii sul caro bollette. Come valuta le prime mosse di Meloni?

Dal primo giorno vedo un solo pregio, quello della chiarezza. Non è centrodestra e non è nemmeno destra “sociale”. È una vecchia, vecchissima destra, che tiene insieme la stretta securitaria e il “me ne frego” sulle responsabilità sociali. Non solo non dà risposte sulle bollette, ma non si pone nemmeno le domande su come difendere salari e redditi dall’inflazione. Ad oggi, c’è solo un nuovo reato che si può applicare a qualsiasi manifestazione e si presta all’arbitrio dell’autorità pubblica, in palese violazione dell’articolo 17 della Costituzione. È allarmante e liberticida, si compie così il passaggio dallo «stato sociale» allo «stato penale».

Presentando la norma sul carcere ostativo, la premier ha ribadito pugno duro nella lotta alla mafia. Ha fiducia che sarà così?

Sull’ergastolo ostativo Meloni ha cambiato idea ma, con molta franchezza, non penso sia questo il terreno su cui rilanciare l’antimafia. C’è una domanda di mafia in interi comparti dell’economia e in pezzi della politica, come abbiamo visto alle elezioni amministrative in Sicilia. Non basta l’azione penale, per la lotta alla mafia oggi servono partiti sani e soprattutto un’economia giusta, regole sulla finanza, rispetto dei contratti, trasparenza su appalti e filiere. Il primo segnale del governo, alzare il tetto dei contanti, va nella direzione opposta. È un favore non solo agli evasori, ma al riciclaggio e alla corruzione, e dunque alle mafie.

Quale dovrebbe essere il vostro atteggiamento all’opposizione? Non rischiate di apparire un po’ fuori tono con gli stessi temi della campagna elettorale, vagamente demonizzanti?

Dovremmo smettere di dire che le parole di La Russa sul 25 aprile o le nomine di Durigon e di quel tizio che vestiva da nazista sono indegne di una Repubblica antifascista? Certo, non dobbiamo farci trascinare nella discussione sugli articoli determinativi ma portare avanti una nostra agenda sul terreno sociale, oggi il più esposto e scoperto. La priorità è alzare salari, con un fisco giusto, i contratti, il salario minimo e la lotta la precarietà. Sulla giustizia sociale e ambientale abbiamo un buon impianto di proposte, che supera errori e timidezze del passato. Ma tutto è stato percepito come “troppo poco e troppo tardi”. Ora dobbiamo dimostrare, anche dall’opposizione, di fare sul serio. Che c’è la destra e c’è la sinistra.

Il Pd si è infilato in un lungo e tortuoso percorso congressuale. Lei ha chiesto che sia una costituente vera, aperta ai non iscritti, vincolante sui contenuti. E ha ventilato l’ipotesi che alla fine convivano 3-4 partiti in uno. C’è il rischio che il Pd si sfarini da qui a marzo?

Ricordo che dalla sconfitta del 2018 all’elezione di Zingaretti passò un anno esatto, ma è ridicolo discutere di una settimana in più o in meno. Il rischio di immobilismo si supera partendo subito, non con il rodeo delle candidature, ma con una discussione vera, aperta, anche aspra, tra noi e col mondo progressista fuori di noi. Su alcuni punti fondamentali, dal lavoro all’autonomia differenziata, non ci possono essere due partiti in uno, perché così perdiamo credibilità tutti. Questi mesi saranno un’opportunità solo se ci crediamo davvero. E se saremo capaci di legare la nostra discussione al bisogno di alternativa a questa destra.

Ritiene che la spinta propulsiva di un progetto nato nel 2007, in piena euforia da globalizzazione e terza via, sia ancora attuale? O la sinistra dovrebbe risorgere in un nuovo contenitore?

Quell’impianto è superato dalla storia, da allora c’è stata una spirale di crisi epocali. Lo dico sempre che il Pd non è nato tardi, ma è nato vecchio, perché la lotta alle disuguaglianze e la battaglia per un nuovo modello di sviluppo sostenibile non erano nella sua carta d’identità. Malgrado alcuni sforzi e un programma che aveva messo a fuoco questi temi, l’accumulo delle contraddizioni maturate non solo a causa di Renzi, ma anche in troppi anni di “governo senza consenso”, hanno fatto perdere credibilità e appannato il profilo di sinistra. È qui, io credo, al di là degli errori e delle divisioni della campagna elettorale, la radice della nostra sconfitta. Ecco perché c’è bisogno di un nuovo Pd.

La sfida del M5S al Pd è molto forte: dalla guerra al reddito di cittadinanza Conte sta drenando altri voti. Qual è la risposta giusta? Crede sia ancora possibile una alleanza?

Premesso che io ho lavorato per l’alleanza fino all’ultimo, in Sicilia, anche dopo la rottura nazionale, e che proprio quella vicenda dimostra la volontà di Conte di andare da solo, penso che la risposta giusta sia nel fare la nostra parte fino in fondo. Ora c’è una competizione. E abbiamo il dovere di non regalare al M5S il patrimonio e l’ispirazione della sinistra italiana, che vive ancora, spesso fuori dai partiti. Ma in politica non ci sono vuoti. La sinistra rinasce nella questione sociale. Se lasciamo quello spazio senza un forte presidio, ad occuparlo saranno altri. E si torna sempre all’identità, tutto dipende da lì. Per me le alleanze vengono dopo.

Come dovrebbe essere il “nuovo Pd” per risultare attrattivo verso chi non ce la fa, chi si sente escluso? La vittoria di Lula cosa vi insegna?

Lula insegna soprattutto che in politica, come nella vita, è essenziale essere credibili. Lui somiglia alle cose che dice, vince anche per questo. Noi no, o comunque non abbastanza. Ci sono pezzi di gruppo dirigente che negli ultimi anni hanno sostenuto tutto e il contrario di tutto. Anche per questo perdiamo. Ma poi c’è un punto di fondo. Io penso che quell’identità vada ricercata proprio nel lavoro. Chi difende oggi il lavoro nel mondo che cambia? E chi lo promuove come strumento per migliorare il mondo? Io penso che dobbiamo diventare il Partito del lavoro, in tutte le sue forme, non solo quello dipendente. Il partito di chi vive o vuole vivere del proprio lavoro, con dignità.

Ad oggi manca un candidato o una candidata alla guida del Pd che rappresenti istanze di sinistra. Come lo spiega? Lei esclude di correre?

Le candidature si presenteranno a fine gennaio. Fin qui sono emersi molti nomi e poche idee. Le istanze di sinistra devono animare già la fase costituente. Perché se il nuovo Pd non sarà percepito come un grande partito della sinistra europea, progressista nei valori, riformista nei metodi e radicale nei contenuti, non avrà futuro

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GOVERNO. La ricchezza finanziaria e immobiliare ammonta a circa 10Mld; pari a 5 volte il Pil. Abbiamo uno Stato povero e indebitato, e una ricchezza privata smisurata e in poche mani

Senza patrimoniale si avvicinano i tagli alla spesa sociale L’opera "Newspaper Carriers (Work disgraces)" di Georg Scholz

Disuguaglianze, povertà e clima, temi cari alla sinistra, nemmeno a parlarne. Indulgenza per gli evasori, avversione verso gli immigrati. Di salario minimo neanche a parlarne. Equità fiscale e politiche redistributive non sono contemplate.

Manca uno straccio d’idea su come riparare veramente gli italiani dalla tempesta (inflazione più recessione) che ci viene addosso. Si gioca sull’ambiguità delle parole e sul travisamento della realtà.
Navighiamo a vista in un’emergenza senza precedenti, amplificata dalla guerra, con le casse dello Stato praticamente vuote e con l’Ue incerta e divisa sui provvedimenti da assumere. Non appaiono all’orizzonte provvedimenti somiglianti al Sure e al Next generation Eu. Si capisce soltanto che dal reddito di cittadinanza si passerà all’«evasione di cittadinanza» e che per le promesse elettorali bisognerà attendere. I soldi disponibili vanno sui sussidi.

La gravità e la durata della crisi, insieme al deperimento della democrazia, espongono il nostro paese al rischio di una deriva corporativa e autoritaria. Nel capitalismo italiano, com’è noto, punte di eccellenza e alti livelli di competitività convivono con settori arretrati che prosperano all’ombra della finanza pubblica.
Per chi continua a guadagnare, nonostante la crisi, e per chi detiene rendite di posizione e privilegi da tutelare, l’attuale governo rappresenta l’ancora a cui aggrapparsi. In questa parte non piccola della società italiana i tratti «identitari» della destra italiana trovano riscontro e nutrimento. Non è tempo di riforme serie in materie di fisco, di concorrenza e di giustizia.

Sebbene il governo Meloni si muova nel solco della conservazione (del peggio) dell’esistente, diversi impedimenti oggettivi ne rendono assai accidentato il cammino. Nuovi scostamenti di bilancio rischiano di imbattersi nel giudizio negativo dei mercati finanziari e nell’orientamento, che si fa strada a Bruxelles, di sostituire i vecchi parametri (del rapporto deficit-Pil) con vincoli basati essenzialmente sull’andamento della spesa pubblica.

Da qui, da queste difficoltà, la sinistra deve ripartire, indicando con chiarezza “dove” prendere le risorse per l’emergenza (per la sanità, la scuola e gli altri servizi) e “come” rispondere alla domanda di protezione sociale e ambientale presente nei movimenti di giovani e di popolo.
Non mancano i soldi, non c’è la volontà di prenderli. La ricchezza finanziaria e immobiliare ammonta a circa 10 mila miliardi; pari a 5 volte il Pil. Viviamo in un paese con uno Stato povero e indebitato, da un lato, e con una ricchezza privata smisurata e concentrata in poche mani, dall’altro. Sono censiti 40 miliardari e circa 400 mila milionari, senza considerare quanti sul territorio nascondono al fisco soldi e beni. Tassare chi gode di enormi fortune – spesso non per merito – diventa una battaglia di civiltà e di giustizia distributiva.

La «patrimoniale», contrariamente a quel che si pensa, è una imposta liberale, non di sinistra. Si deve ad Arthur Cecil Pigou, un economista liberale vissuto nella prima metà del Novecento, l’idea di un prelievo del 25 per cento (una tantum) sulla ricchezza. Bisognava risanare il debito della Gran Bretagna, cresciuto in modo esponenziale durante la prima guerra mondiale. E’ un grave errore, per Pigou, pagare i costi della guerra, come di qualsiasi altra emergenza, prendendo molti soldi in prestito e tassando poco la ricchezza. I titoli di Stato, tra l’altro, grazie ai tassi d’interesse, contribuiscono ad incrementare il capitale delle persone facoltose e delle società di intermediazione finanziaria che li acquistano. Nel governo britannico prevalse l’argomento dei conservatori che la tassa avrebbe disincentivato il risparmio e provocato la fuga di capitali. Della proposta non se ne fece niente.

Oggi come allora, si ripresenta la questione di chi debba pagare i costi dell’emergenza economica e sociale. Se non vengono tassate le grandi ricchezze e le imprese che macinano esorbitanti profitti (vedi l’energia, le armi, le banche, le finanza, big pharma, big tech, ecc.), non resta che la prospettiva di tagli pesanti alla spesa sociale e decenni di tassazione sui ceti meno abbienti e sulle generazioni future. Non ci sono alternative.

La lezione di Pigou, conosciuto anche per la teoria delle esternalità negative, resta di grande attualità. Le tasse sulla ricchezza come quelle sull’inquinamento sono, per il professore di Cambridge, uno strumento per mitigare l’impatto negativo della guerra e del modo di produzione capitalistico sulla società e sull’ambiente
L’economia non è una scienza esatta verso cui la politica debba inchinarsi, bensì una cassetta degli attrezzi in cui rovistare per trarne indicazioni valide e giuste. La tassa sul patrimonio, in conclusione, non è un’idea balzana dei comunisti, ma fa parte del migliore bagaglio culturale dei liberali, che la destra italiana volutamente ignora.

 

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WHISTLEBLOWER. Il dibattito si è svolto nella cornice del Premio Morrione per il giornalismo investigativo

Assange è un maestro di giornalismo, non un nemico pubblico

Venerdì, 28 ottobre, a Torino, nell’ambito del Premio intitolato a Roberto Morrione, si è svolto un emozionante dibattito sulla vicenda di Julian Assange. Com’è noto, il giornalista di origine australiana rischia di essere estradato dalla Gran Bretagna negli Stati Uniti dove incombe su di lui una condanna a 175 anni di carcere.

È stato costruito a tavolino un “mostro”, reo di avere messo il naso negli arcani e negli omissis delle guerre di Irak e Afghanistan, nonché nei cabli riservati delle cancellerie o nello scandalo di Guantanamo. Chi l’ha accusato -ricorda sempre il presidente della Federazione della stampa Giulietti- va in giro a tenere conferenze ben remunerate, chi ha permesso di conoscere la verità viene di fatto condannato a morte. Per di più, dopo tredici anni di via crucis, le condizioni psicofisiche del fondatore di WikiLeaks sono assai preoccupanti.

Proprio in questi giorni il collegio di difesa, di cui è parte la moglie avvocata di Assange Stella Moris, sta attendendo il giudizio delle corti inglesi sulla possibilità di appellare le decisioni finora favorevoli all’estradizione. Anche se rimane sempre aperta la strada del ricorso alla Corte europea dei diritti umani. Ha ben spiegato la situazione la giornalista e scrittrice Stefania Maurizi, il cui volume “Il potere segreto” (in uscita l’edizione aggiornata in lingua inglese) è stato il punto di riferimento della contro narrazione. Si è rotto un lungo colpevole silenzio, mentre si va chiarendo che Assange è il capro espiatorio di una vera e propria tendenza repressiva: oggi lui, domani tutte e tutti coloro che non piegano la schiena.

Sulla stessa lunghezza d’onda è intervenuto Gian Giacomo Migone, ex presidente in tre legislature della Commissione Esteri del Senato, che ha aggiunto una netta critica al completamente della Svezia, dove avvenne l’innesco della parabola giudiziaria. L’evento centrale della serata è stato la consegna da parte del Presidente Carlo Bartoli della tessera ad honorem dell’Ordine dei giornalisti per il figlio al padre di Assange John Shipton.

Si è trattato di un momento commovente, con il folto pubblico in piedi ad applaudire: un piccolo risarcimento simbolica a fronte di una plateale ingiustizia. Bartoli ha sottolineato come la paventata sconfitta di Assange costituirebbe un precedente gravissimo per il diritto di cronaca e la libertà di informazione. Tra l’altro, come ribadito in numerose sentenze italiane ed europee, è un dovere del giornalista pubblicare senza remore le notizie di evidenza pubblica, per rispondere al diritto dei cittadini ad essere informati. Ne ha parlato anche, in conclusione, Mara Filippi Morrione, anima della manifestazione intitolata a chi insegnò ad intere generazioni a considerare il giornalismo non solo una professione, bensì pure e soprattutto un’etica civile.

Assange è stato, tra l’altro, nominato Garante dall’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, come ha annunciato chi scrive. Hanno dato l’adesione all’iniziativa la “Rete NoBabaglio” e il “Coordinamento per la democrazia costituzionale”. Sono stati, infine, proiettati alcuni degli oltre 80 video di testimonianza per la libertà del fondatore di WikiLeaks raccolti dal Comitato “La mia voce per Assange”, coordinato dalla docente della Sapienza Grazia Tuzi assenta per indisposizione. “Articolo21” continuerà con incessante determinazione la campagna, passaggio cruciale in questa stagione di prove tecniche di sovranismi autoritari.

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DESTRE. Silenzio sulla «marcia su Roma»; scandalosa, aperta ostilità a Resistenza e antifascismo; vittimismo per gli anni ’70 delle stragi e dello squadrismo nelle fabbriche e nelle università

Giorgia Meloni, un falso passato per governare il presente

 

Nelle elezioni politiche del 7 giugno 1953 il Msi triplicò i suoi voti rispetto al 1948, portando in Parlamento 38 tra deputati e senatori. I fascisti, da poco rientrati da latitanze e fughe dopo il crollo dello stato fantoccio di Salò, cominciavano ad accomodarsi.

Sistemandosi all’interno di quelle istituzioni democratiche che avevano combattuto e che disprezzavano dalla radice. «Il 25 aprile è nata una puttana, le hanno dato nome, Repubblica italiana» cantavano quei camerati, salvati alla fine del conflitto mondiale dagli Alleati anglo-americani ormai protesi verso la Guerra Fredda anticomunista.

JUNIO VALERIO BORGHESE, già alla guida della X Mas, fu messo in salvo da James Jesus Angleton un agente di vertice dell’Oss (antesignana della Cia) che lo caricò su una jeep statunitense. Diventerà presidente del Msi e organizzerà il golpe del 7-8 dicembre 1970; Giorgio Almirante scappò in abiti civili dalla porta di servizio della Prefettura di Milano il giorno della Liberazione indossando un bracciale tricolore partigiano. Diverrà il principale capo missino nei decenni repubblicani; Augusto De Marsanich, già deputato fascista e membro del governo Mussolini, in quel 1953 ricopriva la carica di segretario del partito, il cui presidente onorario, dal 1952, era il criminale di guerra Rodolfo Graziani.

FORSE ERANO LORO «le persone che non ci sono più» a cui la neo Presidente del Consiglio ha dedicato la vittoria la notte dei risultati elettorali del 25 settembre scorso. Oppure erano figure di quella «destra democratica» di cui si è vantata di aver fatto parte nel suo discorso in Parlamento il giorno della fiducia al suo governo. Pino Rauti, fondatore di Ordine Nuovo ovvero il gruppo responsabile delle stragi di Piazza Fontana e Piazza della Loggia. Oppure Mario Tedeschi, direttore de «Il Borghese» e della formazione scissionista missina di «Democrazia Nazionale», oggi indicato dalla procura di Bologna come uno dei responsabili della strage del 2 agosto 1980 alla stazione.

Forse Giorgia Meloni pensava ai protagonisti della «rivolta di Reggio Calabria» guidati dal deputato missino Ciccio Franco oppure ai «ragazzi» di Piazza San Babila a Milano, primattori degli scontri che il 12 aprile 1973 portarono alla morte dell’agente Antonio Marino e che videro in piazza anche un giovane dirigente del Msi oggi seconda carica dello Stato e collezionista privato di busti di Mussolini.
DI FRONTE AL FORMARSI del governo di oggi tornano alla mente le parole dell’epigrafe che Piero Calamandrei scrisse, all’indomani delle elezioni del giugno 1953, rivolgendosi ai partigiani caduti della Resistenza: «Non rammaricatevi dai vostri cimiteri di montagna se giù al piano, nell’aula dove fu giurata la Costituzione murata col vostro sangue, sono tornati, da remote calingi, i fantasmi della vergogna». Il falso racconto del passato, finalizzato al governo del presente, propalato oggi dalle alte cariche dello Stato e dell’esecutivo ha iniziato il suo cammino.

CON IL SILENZIO nel centenario della «marcia su Roma»; con la dichiarata ostilità all’antifascismo ed alla Resistenza scandalosamente criminalizzati e negati da Meloni nella sua improbabile ricostruzione della storia d’Italia; con la «fuga», attraverso il vittimismo, dagli anni Settanta delle stragi e dello squadrismo nelle fabbriche e nelle università.
Nelle aule del Parlamento italiano abbiamo visto concretarsi ciò che Calamandrei preconizzava: «Apprenderemo, da fonte diretta, la storia vista dai carnefici». Non ci troviamo certo di fronte a un ritorno del «fascismo eterno».

TUTTAVIA LE RADICI profonde di questa destra (fin dal dopoguerra radicalmente «atlantica») riemergono oggi dalla voce di Giorgia Meloni o nel loro identitarismo classista che dichiara di «non voler disturbare» industriali e ceti proprietari; di voler avversare i migranti; di promuovere la guerra contro le donne che non vogliono omologarsi all’essere soltanto «madri e cristiane», come urlato nei comizi filo-franchisti di Vox in Spagna.

L’inquietudine che suscita il bagaglio storico rivendicato dalla destra è pari soltanto a quella alimentata dalla lettura della stampa italiana, l’unica restìa a chiamare postfascista il partito Fratelli d’Italia; l’unica incapace di raccontare la natura profonda di una Presidente del Consiglio politicamente accarezzata dalle familistiche ed eterne (quelle si) classi dirigenti nazionali che ieri ebbero tra i loro padri e nonni fondatori i veri sostenitori del regime fascista e che oggi posseggono di tutti i principali mezzi di informazione.
DA QUESTE consapevolezze sarà necessario ripartire per una battaglia culturale e politica di difesa della verità storica, della Costituzione e dei diritti della persona.
«Troppo presto li avevamo dimenticati – ammoniva Calamandrei – è bene che siano esposti in vista su questo palco. Perché tutto il popolo riconosca i loro volti e si ricordi».Des

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