INTERVISTA. Il capodelegazione a Bruxelles: «Una discussione aspra sull’identità è inevitabile. Altrimenti saremo un partito-minestrina, insapore. Su lavoro e fisco le ricette devono cambiare radicalmente. Ora parli la diplomazia, basta armi a Kiev»
Brando Benifei, capodelegazione del Pd al Parlamento europeo. Nel suo partito hanno deciso di anticipare il congresso. Le sembra una buona idea?
Il Pd deve ridefinire la sua identità. Siamo nati nel 2007 quando l’Italia era divisa in due dal fenomeno Berlusconi, non c’erano state tutte le crisi che abbiamo attraversato. La fase costituente richiede il tempo necessario: quello previsto, da qui a gennaio, è già piuttosto serrato. Serve una discussione vera sui nodi identitari, dal congresso non può uscire un partito-minestrina, insapore, dove tutti si vogliono bene perché non si discute davvero. Quello che ci univa nel 2007 non basta più. Di fronte a una destra ideologica al governo, la nostra gente ci chiede di saper fare la sinistra, alternativa sia al polo liberale che a quello grillino.
C’è una ipotesi di fare le primarie il 19 febbraio invece del 12 marzo.
Se si accorcia la fase finale del voto tra gli iscritti e delle primarie non è un problema. Quello che conta è fare bene il lavoro delle prossime settimane, aprire la fase costituente a chi sta fuori.
Nel 2007 si disse di voler unire i diversi riformismi. È una formula ancora valida?
In tutti i partiti socialisti europei c’è un pluralismo culturale. Il problema è fissare i cardini: per me sono il lavoro, l’emancipazione dal bisogno, i diritti e la democrazia.
Non sono gli stessi di 15 anni fa?
In questi anni abbiamo avuto pericolosi cedimenti sul tema del lavoro, penso al Jobs Act che non ha risolto il tema della precarietà e ci ha spinti ad inseguire idee degli anni 90, una sorta di flex-security senza sicurezza per i lavoratori; ma abbiamo anche sbagliato tagliando le province, il finanziamento pubblico ai partiti, il numero dei parlamentari. Abbiamo ceduto alla spinta antipolitica.
Pensa che oggi sia possibile trovare punti comuni?
Chi la pensa come Renzi su temi come il lavoro o il fisco, chi non vuole politiche vere di redistribuzione e ritiene che non si debba colpire la rendita a favore dei redditi da lavoro, forse dovrebbe chiedersi perché sta nel Pd. Lo stesso vale per chi ritiene che difendere i diritti dei migranti faccia perdere voti, come è si è visto col silenzio di Conte su Catania.
Vuole fare un repulisti?
Dico che bisogna fare chiarezza, distinguerci in modo chiaro dal terzo polo e dai 5 Stelle. Non c’è più spazio per elogiare acriticamente il Jobs Act, pensare di abolire tout court il reddito di cittadinanza o sostenere posizioni antipolitiche. Questo non significa voler cacciare qualcuno. Ma metto in conto che a qualcuno il nuovo Pd possa non piacere.
Crede davvero che nel suo partito abbiano voglia di fare una discussione così profonda? Non vede il rischio di una scissione?
Penso che possiamo essere ancora un partito largo, che sa fare sintesi. E tuttavia aggirare i problemi per garantire la pace interna sarebbe pericoloso: se ci limitiamo a cambiare il segretario lasciando tutto il resto così com’è, a partire dal gruppo dirigente, sarebbe un disastro, anche in termini di consensi. Non andremmo lontano. No, non è più il momento si stare nella comfort zone, bisogna prendersi il rischio di una discussione aspra.
Lei ha organizzato il 29 ottobre una iniziativa di giovani dem, «Coraggio Pd». In coro avete chiesto di azzerare tutto il gruppo dirigente. Vi hanno definiti i nuovi rottamatori.
Una formula in cui non mi ritrovo affatto. Quel termine fu usato da Renzi per cooptare i suoi amici e far fuori tutti gli altri. Noi diciamo che già ci sono forze nel Pd che si sono sperimentate sui territori e nelle battaglie per lavoro e ambiente. Il rinnovamento c’è già, non deve essere concesso dall’alto. Ma finora non ha fatto irruzione nel dibattito nazionale, dove parlano sempre gli stessi da 10 anni. Se vogliamo essere credibili non possiamo non sostituire i protagonisti, e anche le parole d’ordine.
Elly Schlein ha citato la vostra iniziativa nel discorso con cui si è iscritta al congresso Pd. La sosterrete in una eventuale corsa per la segreteria?
Ho molto apprezzato che abbia menzionato «Coraggio Pd», l’obiettivo di aprire all’esterno è comune. Sulle candidature ci esprimeremo al momento opportuno e ad oggi resta forte l’ipotesi di esprimere una nostra candidatura. Ma sono scelte che andranno fatte dopo aver sciolto i nodi di fondo.
La guerra sarà un tema decisivo per il nuovo Pd? Servono altri invii di armi a Kiev?
Nei mesi scorsi il sostegno militare si è rivelato necessario. Oggi non si può continuare ad inviare armi se non è chiaro cosa stiamo facendo. Questo è il momento in cui l’Europa deve fare fino in fondo il suo ruolo sul fronte diplomatico, senza farsi scavalcar dalla Turchia. Grandi potenze come Cina e India si stanno muovendo, non possiamo restare schiacciati sulle posizioni americane. E il Pd deve superare una postura troppo militare.
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Lo scorso 15 febbraio, l’Università di Milano-Bicocca e Eni hanno firmato un Joint Research Agreement (accordo di ricerca congiunta) della durata di cinque anni, in cui si sono impegnate a collaborare su «progetti di ricerca di interesse comune» relativi alla transizione energetica (batterie, geotermia, geo-bio-idro-chimica di reservoir fratturati, e fusione magnetica, tra le altre cose).
Dopo diversi tentativi infruttuosi di ottenere chiarimenti su questa partnership, ho deciso di dimettermi dall’incarico di direttore dell’unità di ricerca Antropocene del Centro di Studi Interdisciplinari in Economia, Psicologia e Scienze Sociali (Ciseps) dell’Università Bicocca.
L’unità Antropocene si occupa, tra l’altro, di questioni legate alla transizione energetica, che è appunto al centro dell’accordo fra l’università e Eni. Con le dimissioni da questo incarico intendo prendere le distanze ufficialmente dall’accordo che non condivido fra la mia università e il gigante italiano dei combustibili fossili.
I motivi di questa non condivisione sono diversi e non derivano da pregiudizi ideologici, quanto piuttosto dalla mia conoscenza della questione che deriva da anni di ricerca e di pubblicazioni scientifiche sul ruolo e le responsabilità dell’industria petrolifera nei cambiamenti climatici.
In generale, sono preoccupato da tale collaborazione in un ambito di ricerca – la transizione energetica – che aspira a risolvere i problemi che Eni, e il resto dell’industria petrolifera mondiale, causa e continua a esacerbare. Ritengo che questo rapporto sia antitetico ai valori accademici e sociali fondamentali delle università, che ne possa addirittura compromettere la capacità di affrontare l’emergenza climatica.
A mio parere questo tipo di collaborazioni contravvengono agli impegni dichiarati dalle università – e anche dalla mia università – per la sostenibilità. Le compagnie dei combustibili fossili hanno nascosto, banalizzato e distorto la scienza dei cambiamenti climatici per decenni. Oggi, nonostante la scienza ci dica incontrovertibilmente che nessun investimento in nuovi progetti fossili sia possibile se vogliamo limitare il riscaldamento globale a 1,5°C, le maggiori compagnie di combustibili fossili – e anche Eni – continuano a pianificare nuovi progetti di estrazione incompatibili con gli obiettivi dell’accordo sul clima di Parigi.
Sebbene le compagnie fossili si presentino come leader della sostenibilità, i loro investimenti fossili continuano a essere enormemente maggiori di quelli in energie rinnovabili, che rappresentano solo una piccola percentuale del totale delle loro spese in conto capitale. Perciò ritengo che la pretesa dell’industria fossile di essere leader della transizione energetica non dovrebbe essere presa sul serio: collaborare con questa industria è contrario agli impegni delle istituzioni accademiche per il clima.
I partenariati di ricerca delle università con le compagnie dei combustibili fossili giocano un ruolo chiave nel greenwashing della reputazione di queste compagnie. Essi forniscono loro la tanto necessaria legittimità scientifica e culturale. Legittimità preziosa, poiché permette a queste compagnie di presentarsi all’opinione pubblica, alla politica, ai media e ai loro azionisti come agenti che collaborano con istituzioni accademiche pubbliche autorevoli su soluzioni per la transizione, rendendo più verde la loro reputazione e offuscando il loro coinvolgimento nell’ostruzionismo climatico, nonché avvallando le false soluzioni che sostengono.
Infine, temo che le università che mantengono stretti legami con l’industria dei combustibili fossili possano incorrere in un sostanziale rischio reputazionale. Collaborando con l’industria fossile, oltre a violare le loro stesse politiche e i loro principi, minano la loro missione sociale e accademica. Sempre più spesso, la partnership con l’industria dei combustibili fossili sta erodendo la fiducia negli impegni delle istituzioni scientifiche per l’azione sul clima, portando un certo numero di esse – tra cui, per esempio, le Università di Oxford nel Regno Unito e di Princeton negli Stati Uniti – a tagliare ogni legame con l’industria, e moltissime altre in giro per il mondo a disinvestire dai fossili.
In sintesi, ritengo che le università siano vitali per pensare una transizione ecologica rapida e giusta. Tuttavia, i nostri sforzi a me sembrano minati dalla prossimità al mondo dei combustibili fossili. L’accademia e la scienza non dovrebbero aiutare, neanche involontariamente, il greenwashing fossile; piuttosto dovrebbero impegnarsi, almeno per quanto riguarda le questioni climatiche, per cambiare radicalmente una situazione che non è più accettabile, che è diventata, come dice il segretario generale delle Nazioni Unite Guterres, una «pazzia morale ed economica», che potrebbe portarci al «suicidio collettivo».
* professore ordinario di geografia economica e politica all’Università di Milano-Bicocca, si occupa di politiche ambientali e di governance del clima. Ha lavorato presso Birbeck, University of London ed è stato Visiting Scholar in università e centri di ricerca in Europa, Stati Uniti e Australia
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EFFETTI COLLATERALI. Ogni volta che durante questo conflitto sanguinoso è apparso un timido, oppure un forte spiraglio di mediazione, come in questi giorni, capace di aprire una trattativa per porre fine alla guerra cominciando da un cessate il fuoco, ecco che proprio in questi rari ma preziosi momenti è sempre accaduto qualcosa che ha rimesso in discussione ogni tentativo
Il cratere di un missile a Przewodow, in Polonia. Al confine con l'Ucraina - Immagine presa da twitter
A questo punto non dovremo forse aspettare i Pentagon ucrainans papers per conoscere quanto è accaduto con il missile (o frammenti di missile) caduto sul villaggio di Przewodow in territorio polacco. Perché un fatto è certo, non si è trattato di un deliberato attacco della Russia a un paese della Nato per una estensione ancora più criminale dell’aggressione russa all’Ucraina. Visto tra l’altro che tra le prime notizie c’era quella che la Nato indagava, come se non controllasse anche per via satellitare le traiettorie di tutti i missili che attraversano la martoriata Ucraina, e visto che la Polonia non ha attivato né l’articolo 4 dell’Alleanza atlantica che allerta alla reazione congiunta, né l’articolo 5 che chiama alla reazione militare di tutta la Nato se un solo paese è aggredito.
Ma soprattutto visto
Leggi tutto: La pace e «l’incidente» polacco - di Tommaso Di Francesco
Commenta (0 Commenti)Il dibattito precongressuale del Pd, complice l’accavallarsi della tornata di elezioni regionali, è incentrato sulla questione delle alleanze. Come se il gruppo dirigente, incapace di recuperare una bussola che ne orienti l’azione politica, esternalizzasse il problema....
E, più o meno consapevolmente, delegasse il compito di recuperare una propria identità ed una propria funzione: diciamoci con chi andiamo e scopriremo chi siamo.
Che in questo giochi un ruolo il particolare calendario elettorale del Paese - complice l’instabilità che contraddistingue, per paradossale che possa sembrare, il sistema ultra-maggioritario applicato ai nostri enti locali, ogni anno si vota per qualcosa di importante - lo si è già detto.
Se però ci si distacca dalla contingenza, ci si trova di fronte a due ulteriori fattori, di ben più vasta portata, che acuiscono le fibrillazioni nel campo democratico; entrambi portati a galla dall’esito delle elezioni del 25 settembre.
Il primo è la nascita, sui due fianchi destro e sinistro del partito tradizionalmente baricentro del centro-sinistra, di opzioni politiche altrettanto credibili, elettoralmente robuste e potenzialmente in grado di aggredirne la base di voti, ed oltretutto reciprocamente inconciliabili: il renzismo-calendismo ed il contismo.
In questo panorama lo schema ulivista non è riproponibile; anche a causa del venir meno del collante anti-berlusconiano, sono inevitabili non solo una scelta tra due tipi di alleanza antitetici; ma anche, a scelta fatta, massicce concessioni all’alleato. Anzi, visti i rapporti di forza ed il trend elettorale, nel caso di alleanza con Conte sarebbero i Cinque Stelle nelle condizioni di fare alcune concessioni ai democratici, anche se nel loro caso pesa la storica debolezza in elezioni dove la posta in gioco non sia il governo nazionale.
C’è poi un elemento di ancor più lungo periodo, che il 25 settembre ha solo contribuito ad evidenziare con maggior forza, e cioè la perdita della propria funzione nello schema politico italiano, per cui è del tutto comprensibile il tentativo di ritrovarla schiacciandosi sul momento elettorale ed affidando al dibattito sulle alleanze la propria ragion d’essere.
Il Pd è stato il vero partito della globalizzazione reale, post-ideologico e post-conflittuale, che ha ravvisato nell’apertura dei mercati globali un fattore di progresso per l’intera società, e soprattutto per una classe media, espressione dei settori creativi della finanza e della cultura, cui si guardava come al perno della vita nazionale. Non solo. Essendosi il partito fatto portatore di una visione del paese (aliena alla storia del movimento operaio) che lasciato a se stesso non avrebbe potuto far altro che abbandonarsi a derive corporative se non anti-democratiche, i suoi dirigenti hanno sposato con foga da neofiti l’ideologia del vincolo esterno: non c’è possibilità, in base a questa ideologia, che il paese accetti la “cura” necessaria ad aprirsi ai mercati, se non ingabbiato in istituzioni sovranazionali che ne determinino il corso con disciplina di ferro.
Un primo grosso vulnus a questa impostazione è stato inferto già dalla crisi del 2008, che ha aperto la stagione, nella quale ci troviamo tutt’ora immersi, della crisi della globalizzazione capitalistica. Ma è stata la guerra russo-ucraina a dare il colpo di grazia. Perché fino a quando il vincolo esterno da interpretare è stato quello dell’Europa (qualsiasi cosa si intendesse con questo riferimento) il Pd aveva buone carte da giocare nel presentarsi come l’unico garante degli intricati nessi politico-sociali che ne favorissero l’implementazione in Italia. Ma la guerra ha cambiato tutto. Se il vincolo esterno da garantire è quello militare della fedeltà alla Nato, la destra ha tutte le carte in regola per farsene portatrice. In perfetta continuità col draghismo cui pure si erano formalmente opposti, i Fratelli d’Italia su questo non hanno lasciato spazio all’ambiguità.
Nel corso del dibattito sulla fiducia al governo di larghe intese, l’intervento di La Russa lo ha messo bene in chiaro. Mentre Meloni ha più volte evocato per il futuro del Paese il modello polacco: stretta reazionaria sui diritti e l’ordine pubblico accompagnati da una fedeltà a Washington ben oltre ciò che la prudenza consigliasse ad altre cancellerie europee. Risalta il parallelo tra la perdita della funzione autonoma dell’Europa sullo scacchiere geopolitico e la perdita di funzione del Pd - che dell’europeismo reale è stato il principale araldo.
La tentazione, tanto da parte dei 5Stelle quanto da parte della sinistra diffusa, sarebbe quella di crogiolarsi assistendo agli ultimi sussulti di un Pd salutarmente destinato alla dissoluzione (auspicata perfino da suoi autorevoli dirigenti). Tentazione legittima. Tuttavia la questione che rimane aperta è quella dell’elettorato democratico: ceti medi intellettuali, tecnici, quella che un tempo avremmo chiamato “aristocrazia operaia”. Una congerie sociale che ha sempre fatto parte di partiti o coalizioni di sinistra, e nei confronti della quale è necessaria un’azione politica, se si vuole costruire un’alternativa popolare alla destra.
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ATTENTATO DI ISTANBUL . L’attentato di domenica nel cuore di Istanbul riapre il «libro nero» della Turchia e del Medio Oriente. L’ultima ondata di attentati, 2015-2017, era stata soprattutto di marca jihadista e questa […]
L’attentato di domenica nel cuore di Istanbul riapre il «libro nero» della Turchia e del Medio Oriente. L’ultima ondata di attentati, 2015-2017, era stata soprattutto di marca jihadista e questa attribuzione della autorità ai curdi del Pkk, che indicano addirittura il centro dell’operazione a Kobane – città siriana martire che nel 2014 ha resistito eroicamente al Califfato – lascia molti dubbi. Sia per la dinamica, assai sospetta, dell’arresto della presunta responsabile – verrebbe da Afrin che è però zona saldamente controllata dai turchi, come ha ricordato Murat Cinar sul manifesto – , sia per la smentita del Pkk (che solitamente colpisce i militari non i civili).
Siamo nel pieno del «malessere turco», come scrive nel suo saggio lo studioso turco Cengiz Aktar, nelle contraddizioni di un Paese sempre belligerante, all’esterno e all’interno, classificato dall’Indice della Pace Globale al 149esimo posto su 163 Paesi.
Che cos’è il «libro nero» della Turchia (e del Medio Oriente)? È una costante nella storia di decenni di attentati e assassinii condotti in un intreccio torbido tra terrorismo, guerriglia e servizi segreti, a partire dagli anni ’70-80 quando, dopo il golpe nel 1980 del generale Evren, gli attentati erano una minaccia alla vita dei turchi ma anche uno strumento per seminare paura e repressione. Erdogan – ieri a colloquio con la premier Meloni a Bali – dal 2019 lancia attacchi militari, spacciati come «lotta al terrorismo» , contro i curdi in Siria usando come mercenari miliziani (e terroristi) di Isis, Al Qaeda e Al Nusra che commettono crimini di guerra con la complicità dei generali turchi e l’assenso dell’opposizione «legale», visto che quella curda dell’Hdp in Parlamento è stata decapitata e incarcerata. In prigione qui ci sono 300mila persone (al secondo posto in Europa dopo la Russia) di cui quasi la metà per motivi politici e reati di opinione.
Questa Turchia assai poco democratica e oscura è stata indicata come il “Deep State” turco, lo stato profondo, quello manovrato in varie epoche prima dai militari e poi dall’Akp il partito del presidente Erdogan, al potere da 21 anni che punta nel 2023 alla rielezione. L’ultimo attentato è avvenuto in un quadro politico complesso e che potrebbe spingere la Turchia a una nuova operazione militare in Siria dove occupa un’ampia fascia del Nord manovrando, oltre all’esercito, le formazioni jihadiste, milizie che i turchi hanno schierato in Siria ma anche in Libia e nel Nagorno Karabakh.
Inoltre la Turchia sta negoziando con Stoccolma l’estradizione di esponenti curdi o almeno la loro «neutralizzazione»: senza un’intesa Ankara mantiene il veto all’ingresso nella Nato di Svezia e Finlandia. La Turchia, Paese Nato che non ha imposto sanzioni a Mosca, pur rifornendo di droni Kiev, si è posta come mediatrice con Putin ed esercita un ricatto sugli alleati occidentali – compresa la questione dei 3,5 milioni di profughi siriani per cui la Ue versa sette miliardi di euro – puntando al riconoscimento, più o meno formale, della sua occupazione in Siria.
Se guardiamo in prospettiva i rapporti tra Putin, Erdogan e Israele – che con il ritorno di Netanyahu si rafforzano (l’israeliano è il leader che è stato più volte al Cremlino) – notiamo che Russia, Turchia e Israele sono stati che occupano territori altrui in violazione delle leggi internazionali e delle risoluzioni Onu. La cartina di tornasole di questa situazione è stata proprio la guerra in Ucraina. Forse qui in Italia è sfuggito che la scorsa settimana in una risoluzione Onu sul coinvolgimento della Corte internazionale di giustizia nella disputa sulla Cisgiordania, Roma ha abbandonato la linea dell’astensione votando contro assieme a 16 altri Paesi. Ma soprattutto Kiev ha votato a favore annusando aria di accordo tra Putin e Netanyahu. L’occupazione russa di una parte dell’Ucraina per Israele potrebbe essere accettabile in cambio del via libera di Mosca ai raid sui pasdaran iraniani in Siria mentre la Turchia nella stessa area continua a bombardare i curdi quando vuole.
Il governo ucraino era, fino a qualche mese fa, incredibilmente filo-israeliano. Uno dei primi atti di Zelensky fu ritirarsi dal comitato Onu sui diritti dei palestinesi. E nelle interviste rilasciate durante i bombardamenti su Gaza, nel 2021, Zelensky ha affermato che l’unica tragedia nella Striscia era quella vissuta dagli israeliani. Ora invece Ucraina e Israele sono ai ferri corti perché è evidente che Tel Aviv punta sempre sul quel «doppio standard» internazionale che ha segnato tragicamente la sorte dei palestinesi, dei curdi, e, appunto, dei territori occupati.
L’obiettivo della Turchia è far sparire il Rojava, l’entità delle Forze democratiche curde, alleate del Pkk ma anche degli Usa nella lotta al Califfato e che insieme agli Stati Uniti e ad altre milizie arabe controllano l’Est siriano dei pozzi petroliferi. Ecco perché la Turchia ha rifiutato le condoglianze Usa per l’attentato di domenica: Ankara accusa Washington di armare il Rojava e di essere dietro il fallito golpe del 15 luglio del 2016, quando Erdogan chiuse la base americana di Incirlik con i missili Usa puntati contro Mosca e Teheran. Erdogan aveva già minacciato un’altra invasione del Nord della Siria in primavera ma era stato fermato da Russia e Iran – presenti al Nord in appoggio alle forze di Damasco – che con Ankara fanno parte del cosiddetto formato di Astana. Il Rojava è una doppia minaccia per la Turchia: è curdo ma anche caratterizzato da leggi democratiche, laiche e multi-etniche. Non sia mai che nel cuore del Medio Oriente nasca qualcosa di diverso dal «libro nero» denso di crimini e ingiustizie.
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INTERVISTA. Il coordinatore di Articolo 1: serve una vera rifondazione della sinistra per dar vita a una forza socialista. Se i dem non si danno una chiara identità saranno cannibalizzati da Conte e Calenda. No ad altre armi a Kiev
Arturo Scotto, coordinatore di Articolo 1. Voi dovreste essere tra quelli che partecipano alla fase costituente del nuovo Pd. Ma i dem vogliono accelerare le primarie, non vogliono più restare nel limbo.
Il Pd, e lo dico con rispetto, deve decidere se aprire una fase costituente con una chiamata larga verso soggetti esterni, o se intende limitarsi a fare il suo congresso ordinario. Anche quest’ultima sarebbe una scelta legittima, che rischia però di produrre una fase di riflusso e non di rilancio. Il limbo non sta nel vuoto di leadership, ma nell’assenza di scelte chiare.
Voi siete usciti dal Pd nel 2017. Perché rientrare adesso che quel partito è in piena crisi di identità?
Alle politiche abbiamo contribuito ad una lista unitaria che aveva un programma molto netto su lavoro e diritti. Non è stata una scelta di ripiego, ma il primo passo verso la costruzione di una “cosa nuova”, come dice Bersani. La costituente può essere una grande occasione per tutta la sinistra per ripensarsi. Ma se nel Pd ritengono che sia una perdita di tempo si sprecherà un’occasione preziosa con una operazione estetica che non appassiona nessuno. In quel caso, facciano le primarie entro fine anno, poi la costituente si vedrà dopo.
E voi restereste alla finestra?
Se sarà un normale congresso del Pd tante forze esterne, non solo noi, non saranno interessate. Accelerare per la paura della concorrenza di Calenda e Conte sarebbe un errore. Serve un processo rifondativo vero per uscire da quella che Bettini ha definito «mezzadria dell’anima». In questo tempo non si può essere contemporaneamente socialisti e liberali: bisogna scegliere. E lo strumento giusto non sono le primarie: se ti limiti a fare quelle i nodi irrisolti si riproporranno un minuto dopo.
Il Pd però è nato proprio come un partito interclassista che voleva contenere socialisti, liberali e anche altri: il partito della nazione.
Lo stesso Letta ha spiegato che, rispetto al 2007, siamo in una fase storica nuova e bisogna ripensare tutto. La fase dell’ottimismo verso la globalizzazione neoliberista è finita, si è aperta una stagione più dura del capitalismo, il welfare è a rischio e la domanda di protezione sociale si orienta a destra. Non è più tempo di un centrosinistra classico, ma di un nuovo pensiero socialista. I leader vengono dopo.
Alla fine è possibile che, se nel Pd prevale una linea liberale, la sinistra esca. Invece di rientrare voi ci sarà una nuova scissione?
Non parlo di nuove scissioni, ma di come si costruisce una costituente vera, una rifondazione della sinistra.
Alle regionali nel Lazio e in Lombardia si annuncia una nuova debacle.
Continuiamo a farci del male. Di fronte a una destra ancora più divisa dopo le prime settimane di governo, il campo progressista continua a insistere sulle differenze. Vale nel Lazio come in Lombardia, dove Calenda continua con le provocazioni come la candidatura di Letizia Moratti.
Nel Lazio sosterrete Alessio D’Amato con il Pd?
Abbiamo condiviso l’esperienza di Zingaretti, di cui D’Amato è stato un bravo assessore sul fronte della difesa della sanità pubblica. Io credo che si debba ancora ragionare con Conte, cercarci e capirci.
Elly Schlein ha fatto un passo avanti nel congresso dem.
È una delle personalità più forti emerse negli ultimi anni a sinistra. Ha carisma e pensiero. Ricordo però che non si è candidata a nulla, ha solo annunciato che sarà nella costituente. Anche lei è consapevole che senza ridefinire identità e missione, le primarie non risolveranno nessun problema. Sa bene che la sfida non è una nuova leadership individuale.
Forse i dem accelerano proprio per frenare la sua corsa.
Mi pare prevalga la paura dell’attacco da parte delle altre opposizioni. Ma più il Pd è reticente nel darsi una nuova identità, più sarà automatica la cannibalizzazione da parte delle altre forze.
La guerra è uno dei temi chiave del percorso che si apre? La linea del Pd pare immutabile.
Il messaggio di piazza San Giovanni è molto chiaro: occorre correggere la linea di politica estera degli ultimi mesi e impegnarsi per un ruolo più assertivo della diplomazia. La cultura della pace deve essere un pezzo fondamentale della nuova identità.
Voterete altri invii di armi?
Non credo che oggi il tema sia inviare nuove armi. Ora l’Italia e l’Europa devono lavorare davvero per chiudere questo conflitto. E questo non si ottiene spingendo l’Ucraina verso una vittoria militare sul campo aprendo la strada a una escalation nucleare: le armi ora devono tacere.
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