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Il direttore di Limes Lucio Caracciolo riflette sui possibili scenari legati alla guerra in Ucraina: tra la minaccia atomica che potrebbe essere utilizzata da Putin come risorsa di ultima istanza e complessi rapporti tra potenze

In conferenza stampa ad Astana, in Kazakistan, dove ha incontrato il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, Vladimir Putin ha dichiarato che non vede necessità di colloqui con il presidente degli Stati Uniti Joe Biden in Indonesia, a margine del prossimo G20. "Non è il momento di parlare di negoziati diretti con lui - ha chiarito -, dobbiamo ancora vedere come la Russia parteciperà al vertice di Bali", ma ha anche ribadito che uno scontro diretto tra la Russia e la Nato comporterebbe "una catastrofe globale". La conferenza asiatica Cica si era aperta all'indomani della risoluzione Onu che ha bocciato l'annessione russa dei territori ucraini. In molti in Europa si aspettavano un segnale dall'incontro tra il capo del Cremlino e Erdoğan, magari nella direzione di un cessate il fuoco. Così non è stato. In questa intervista a Lucio Caracciolo, il direttore di Limes - che da oggi, 15 ottobre, è in edicola e in libreria con il nuovo numero - alcune riflessioni sui possibili scenari che ci troviamo davanti a partire dal temuto rischio nucleare.

Quanto è realisticamente elevato questo pericolo? 

Nella questione della bomba atomica c’è una forte componente

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CONFLITTO. Appello al governo di 45 ex diplomatici perché si faccia promotore in Europa di una forte iniziativa diplomatica per l’immediato cessate il fuoco e l’avvio di negoziati.

Guerra e rischio calcolato dell’«inverno nucleare» Il poster "This is the Enemy" foto Wikimedia Commons

Quante sono state in un decennio le occasioni perdute dalla diplomazia internazionale per evitare il fratricidio tra russi e ucraini? Tante. Con qualche sofferto compromesso la soluzione era a portata di mano. 1° neutralità protetta dell’Ucraina; 2° referendum nel Donbass sotto l’egida Oscee; 3° rinuncia alla Crimea (da Krusciov ceduta a Kiev senza ragione).

AL CONTRARIO si è preferita l’autodistruttiva pulsione a guerreggiare in un fratricidio – prima con la guerra civile tra Kiev e il Donbass, poi con la scellerata aggressione di Putin -, e ora le truppe sono impantanate in scontri d’usura, imboscate, cadaveri in putrefazione fra le rovine di città in rovina. Questa guerra d’attrito ha un sapore ottocentesco, sa di fango e sangue. Ma ora sta emergendo qualcosa che ci riporta al Medioevo.

Nel 1145 Bernardo di Chiaravalle predicò

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ELEZIONI. Le parole di La Russa e Fontana confermano che la Costituzione è gravemente a rischio. Magari anche con il concorso di quei 17 voti già andati in aiuto a La Russa.

I due presidenti neoeletti mettono le mani sulla Costituzione 

Per essere una prima assoluta nella storia della Repubblica, la destra di governo parte secondo il costume antico, colluttando sulle poltrone. Dal totopresidenti sono usciti La Russa (FdI) e Fontana (Lega), eletti con 116 e 222 voti.

Persino a destra si poteva trovare di meglio. In specie, spetterà a La Russa sostituire il Presidente della Repubblica in caso di assenza o impedimento. Auguriamo all’occupante del Quirinale di godere ottima salute, e gli chiediamo di viaggiare il meno possibile, magari curando di esercitare le funzioni in remoto.
Il momento più alto di questo avvio di legislatura è stato il discorso di Liliana Segre. Le sue parole ci hanno fatto intravedere l’Italia che avremmo voluto. I nomi dei neo-eletti ci danno la misura di quanto ne siamo oggi lontani, e di quanto può essere difficile ritrovarla. Un obiettivo affidato alle opposizioni, che fin qui non hanno dato prova di esserne all’altezza. I discorsi di investitura dei presidenti sono stati in ampia parte, e fisiologicamente, scontati: centralità del parlamento, rapporto maggioranza-opposizioni, ruolo di chi presiede l’assemblea, emergenze da affrontare. Ma qualche punto va sottolineato.

Fontana ha parlato in pieno stile leghista, per di più in salsa veneta. Parte con un “ringraziamento personale” a Bossi, che già può considerarsi inappropriato per un presidente di assemblea, ed è particolarmente significativo venendo a valle del “comitato del Nord”. Ha poi insistito fortemente sulle autonomie, ricchezza dell’Italia “da valorizzare nelle modalità previste e auspicate dalla Costituzione”. Il riferimento all’art. 116.3 e all’autonomia differenziata è trasparente. L’omologazione – leggi il potere nazionale che limita l’autonomia – è espressione di totalitarismo. L’Italia non deve omologarsi a realtà estere più monolitiche e a culture che non diversificano.

Tanto valeva far parlare Zaia. Il discorso di Fontana è palesemente squilibrato e di parte. Colpisce poi che la sola diversità che riconosce ed esalta è quella territoriale. Altre diversità, non meno importanti e costituzionalmente protette, non contano. Il cattivo giorno si vede dal mattino. E trova almeno in parte conferma nel discorso di La Russa. Per un verso scontato, come quello di Fontana, e invece significativo sulle riforme: modificare la Costituzione nella seconda parte, mentre la prima viene definita intangibile (tesi che i legami tra le due parti dimostrano infondata); assemblea costituente o commissione bicamerale; volontà politica di riformare.

Anche La Russa meglio avrebbe fatto a tacere. Probabilmente pensa al presidenzialismo, ma non nega l’autonomia differenziata. E qui gioca anche il modo in cui è stato eletto. La non partecipazione dei forzisti al voto in Senato per l’errore di Berlusconi, sconfitto e colto nel vaffa, può solo indebolire la capacità contrattuale di Forza Italia nella rissa sui ministeri che ora è in agenda, consolidando la posizione della Lega. Poi, contano i nomi. Se ne parla molto con riferimento ai ministeri economici, cui guardano l’Europa e i mercati. Ma ci sono anche altri fronti.

Tra questi, si fa il nome della Stefani – leghista – per il ministero delle autonomie, che poco servirebbe pudicamente ribattezzare come ministero per gli affari regionali. Sarebbe grave se il ministro venisse da un partito che esplicitamente riprende come priorità la tutela degli interessi del Nord e la questione settentrionale. Preoccupazione accresciuta, nella specie, perché proprio la Stefani ha espresso la stagione peggiore dell’autonomia differenziata, ponendosi dichiaratamente al servizio delle pulsioni separatiste di Zaia & Co.

Le parole di La Russa e Fontana confermano che la Costituzione è gravemente a rischio. Magari anche con il concorso di quei 17 voti già andati in aiuto a La Russa. Renzi nega che ci siano anche i suoi, ma nessuno gli crede, anche per qualche segnale già dato alla destra. Sbaglia Cassese quando afferma che sono sufficienti gli argini posti alla revisione. E vorremmo poter essere d’accordo con Segre quando afferma che “Il popolo italiano ha sempre dimostrato grande attaccamento alla sua Costituzione, l’ha sempre sentita amica”.

Purtroppo, non è così. È almeno dal 1994 e dal I governo Berlusconi che una parte significativa del paese poco si riconosce nella Costituzione, cui paga un omaggio puramente verbale. Il voto del 25 settembre ne dà conferma. La Costituzione è oggi vicina più che mai ad essere stravolta.

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UCRAINA. Il conflitto tra nazionalismo grande-russo e nazionalismo ucraino ha origini e svolgimenti di crescente auto-alimentazione con carattere speculare. Sono ambedue il frutto della necessità delle oligarchie dominanti nella Federazione Russa ed in Ucraina di trovare una legittimazione forte su un terreno che esclude riflessione e lotta sulla questione sociale, sulla democrazia sociale.

Contro, contro e ancora contro 

Dal punto di vista dei conflitti che attraversano ogni paese, non ci sono differenze tra miserevoli micro-nazionalismi, grandi nazionalismi con vocazione di imperialismo territoriale, grandi nazionalismi, più «moderni», con vocazione di imperialismo globale.

Come ha ben rimarcato il 7 ottobre Marco Bascetta «il «nazionalismo significa, quasi esclusivamente (e classicamente), la cancellazione delle fratture e delle linee di conflitto che attraversano, in ogni paese, la società e i suoi immensi squilibri».

In tale contesto la conoscenza/comprensione del momento attuale è impossibile senza l’analisi delle nuove forme imperialismo e del loro svolgimento nel sistema postsovietico delle relazioni internazionali. In tale contesto valgono ancora di più le ragioni di quel «contro», «contro», evocato da Tommaso Di Francesco, sempre su il manifesto, agli inizi dell’«operazione militare speciale». La guerra in Ucraina, infatti, si manifesta come il luogo-rivelazione di un insieme causale e di un orizzonte prospettico misurabili su tempi e spazi assai diversi da quelli della contingenza. Papa Francesco ha detto che «è un errore (…) pensare che questa è una guerra tra Russia e Ucraina e basta. No: questa è una guerra mondiale». Qualsiasi seria analisi porta a queste conclusioni: siamo di fronte ad una guerra mondiale che (per ora) si combatte su terreno ucraino.

Una guerra mondiale con due protagonisti: la Russia di Putin e gli Usa con la loro dépendance Nato-Ue. Poi all’interno di questa cornice si combattono altre guerre. Insomma un terreno fecondo per il moltiplicarsi dei Gavrilo Princip.

Il conflitto tra nazionalismo grande-russo e nazionalismo ucraino ha origini e svolgimenti di crescente auto-alimentazione con carattere speculare. Sono ambedue il frutto della necessità delle oligarchie dominanti nella Federazione Russa ed in Ucraina di trovare una legittimazione forte su un terreno che esclude riflessione e lotta sulla questione sociale, sulla democrazia sociale.

Un terreno dove il russo, l’ucraino poveri, possano sentirsi uguali ai loro oligarchi. Questo è l’unico progetto di uguaglianza che quelle oligarchie possono proporre ai popoli di cui sono dominanti più che governanti. Il Gavrilo Princip che, con l’invasione, ha trasformato un conflitto a bassa intensità nell’orrenda carneficina che si svolge sotto i nostri occhi, non è portatore di nessun messaggio di giustizia, tantomeno di giustizia sociale. Putin è il rapprentante di oligarchie che, sulla base di rapporti capitalistici del tutto senza regole, accentrano profitti altissimi di contro all’area di povertà assai estesa esistente nella Federazione russa.

I contendenti di questa guerra non sono gli alfieri di modelli ecomico-sociali alternativi. Nello scontro tra l’idea di un mondo regolato tra imperialismi molteplici sostenuta da Putin ed il mono-imperialismo accanitamente difeso da Stati Uniti e assimilati, coloro che di sicuro usciranno sconfitti li troveremo in tutti i gradi della condizione subalterna. Anche i più accesi nazionalisti non ne sfuggiranno.

Nella Ue, prontamente allineatasi a Stati Uniti-Nato tanto da risultarne indistinguibile, questi effetti saranno, lo sono già, particolarmente sensibili. Nella Ue infatti, nonostante il forte ridimensionamento nel «trentennio inglorioso», la presenza dello Stato sociale non è stata ancora eliminata. La perdita di quel poco di autonomia politica che da alcune parti si era cercato di costruire, la connessa subordinazione economica agli interessi del Grande alleato, ci portano a passi veloci all’uniformità con il modello sociale statunitense.

La nostra parte, debolissima, che pure deve trovare gli strumenti adatti «contro» l’imperialismo dalle forme arcaiche di Putin, «contro» il monoimperialismo moderno ed insieme tradizionale degli Stati Uniti, può esercitare una qualche funzione soprattutto battendosi «contro» le nostre oligarchie.

La guerra in corso è la questione più importante dell’attuale agenda politica. Altro che agenda Draghi. Possiamo affrontare il problema solamente dando corpo «all’unico spettro che ancora si aggira, molto timidamente, per l’Europa», cioè la lotta di classe. Questo deve diventare il nocciolo duro di tutti i progetti di rinascita della sinistra. All’orizzonte però prevalgono ancora le chiacchiere vuote intorno al riposizionamento di coloro che tale nocciolo hanno cancellato dal loro orizzonte analitico e politico.

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LA VERTIGINE. Un drammatico primato di cui le sinistre divise e il Pd portano tutta intera la responsabilità

Senato, da Liliana Segre a Ignazio Benito La Russa in pochi minuti:  l'autobiografia della nazione

La vertigine confessata dalla senatrice Liliana Segre, nel pronunciare, dal più alto scranno del senato, il discorso di apertura della XIX legislatura, a cento anni dalla marcia su Roma, è un sentimento che abbiamo condiviso con lei. Insieme a una sensazione di smarrimento nell’assistere al passaggio del testimone tra la sua figura e quella del neopresidente del senato, Ignazio La Russa, geloso custode della memoria fascista.

Con parole semplici, forti, da partigiana, la senatrice Segre ha riassunto il senso profondo delle nostre radici repubblicane, da Calamandrei a Matteotti. Un discorso importante, dal grande valore simbolico (che pubblichiamo integralmente).

Che a rappresentare le istituzioni repubblicane nate dalla Resistenza sia oggi la schiera politica che non ha mai condiviso la celebrazione del 25 Aprile, né quella del Primo Maggio, cardini della nostra Costituzione, antifascista e fondata sul lavoro, è un doloroso bagno di realtà offerto dal

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LA CLASSE OPERAIA TORNA IN PARLAMENTO. Quindici anni di fabbrica, poi tutta la trafila da delegato a segretario nazionale Fiom: non voglio essere un panda, punto a ricostruire un dialogo con la società. La politica li ha lasciati soli: da 30 anni votano a destra. Torniamo internazionalisti perché torni la solidarietà

Tino Magni: «Via il Jobs act e i lavoratori ci riascolteranno»

 

Tino Magni, lei ha fatto quindici anni – veri – di fabbrica: dal 1961 al 1976 in una piccola azienda lecchese. È stato prima delegato di fabbrica, poi ha fatto tutta la trafila sindacale nella Fiom fino a diventare segretario nazionale. E domani entra ufficialmente in senato fra i quattro eletti dalla Alleanza Verdi-Sinistra italiana riportando un operaio in parlamento dopo due legislature: gli ultimi furono Antonio Boccuzzi (Pd) della Thyssen di Torino e Antonio Barozzino (Sel) licenziato (e poi reintegrato) dalla Fiat a Melfi. Un piccolo segnale di riscossa per il mondo del lavoro?

Per me è una cosa insperata. Sono molto contento di come sono stato percepito durante la campagna elettorale e dai compagni del partito. Ma non mi basta: vorrei riuscire a costruire un rapporto con la società. Non mi vorrei occupare solo di fabbriche in crisi, non vorrei essere un panda, ma impegnarmi per riaffermare la cultura del lavoro. Io ho fatto 15 anni di fabbrica e con il mio salario potevo progettare il futuro, oggi con la precarietà dilagante non è più possibile: ne va della dignità stessa delle persone.

Tino Magni, senatore eletto con l’Alleanza Verdi-Sinistra Italiana
Tino Magni, senatore eletto con l’Alleanza Verdi-Sinistra Italiana

L’assenza di operai in parlamento è coincisa con la totale sparizione dei temi del lavoro dall’agenda politica. Un processo molto lungo però: lei vede un punto di svolta in questa regressione?

Penso la cosiddetta “marcia dei 40mila” a Torino. E la conseguente rottura sindacale. Da quel momento il mondo del lavoro è passato sulla difensiva. Io ho vissuto le grandi conquiste degli anni settanta in fabbrica: i Consigli, l’Flm, lo Statuto dei lavoratori. In quegli anni oltre ai diritti aumentarono i salari, ci fu una redistribuzione del reddito a favore dei lavoratori. Per farla breve: la Costituzione entrò in fabbrica. Dagli anni ottanta in poi invece il lavoro è stato frantumato: noi eravamo tutti assunti con le stesse condizioni e quindi eravamo una controparte unica per il proprietario. Nelle fabbriche di oggi ci sono tanti appalti esterni e lavoratori con condizioni e contratti tutti diversi. Se vogliamo ridare dignità al lavoro la prima cosa da fare è riunificare le condizioni con un solo contratto di lavoro, magari dopo un periodo di prova ma che poi diamo modo ai giovani di avere un contratto a tempo indeterminato per potersi creare un futuro sicuro.

Treu, Sacconi, Fornero e infine il Jobsact di Renzi: le riforme del lavoro approvate dal parlamento quasi senza opposizione hanno progressivamente tolto diritti e futuro ai lavoratori, specie ai giovani.

Il Jobs act è stata veramente la peggiore, una vera frattura anche perché fatta da chi sosteneva di essere di sinistra e invece era neoliberista. Siamo tornati agli anni sessanta quando il padrone poteva licenziarti per un alzata di ciglia. E ha trasformato il lavoro in merce: anche se ha torto, l’imprenditore ti licenzia in cambio di poche mensilità. Tutte queste “riforme” vanno cancellate, come in Spagna.

Da vent’anni si polemizza sugli operai che votano a destra quando il problema è averli lasciati soli. Non pensa che il problema sia nella perdita di coscienza di classe e nell’aver smesso di trasmettere loro il senso di solidarietà?

Quando a Milano divenne sindaco il leghista Formentini nel 1993, come Fiom commissionammo un’indagine a Mannheimer e venne fuori che gli operai votavano già in massa la Lega. Ma lo facevano – anche se è facile dirlo adesso – perché si sentivano sostanzialmente soli: il capitale si era riorganizzato e reso globale, la classe operaia e il sindacato non sono stati ancora in grado di rispondere internazionalizzandosi: ci siamo solo difesi a livello nazionale, un paese contro l’altro. E allora quando hai paura, ascolti uno che ti dice come difenderti, senza accorgerti che stai perdendo i tuoi valori, a partire dalla solidarietà. Ma gli operai non possiamo biasimarli, la colpa è più nostra.

C’è però anche un problema di conoscenza dei problemi: in fatto di pensioni la Quota 41 proposta da Salvini salverà qualche operaio 65enne ma non la stragrande maggioranza che oramai non hanno carriere così lunghe e anni di contributi.

È vero, sulle pensioni presto in molti si accorgeranno che Salvini non li aiuterà: serve una pensione di garanzia e aumentare i coefficienti.

Lei sabato era in piazza con la Cgil: è d’accordo con Landini che si è tenuto lontano dalla campagna elettorale facendo leva sull’autonomia del sindacato dalla politica?

La più grande manifestazione metalmeccanica a cui ho partecipato è del 2 dicembre del 1977 in polemica con il Pci e buona parte della Cgil sulle «convergenze parallele». Io non sono sempre stato d’accordo con Sabattini ma l’autonomia del sindacato dalla politica è giusta. Detto questo, destra e sinistra però non sono la stessa cosa.

La solidarietà fra lavoratori si può ricostruire partendo dalla pace?

Certamente, è una priorità manifestare e costruire la pace. Io sono stato volontario 25 anni nei Balcani e so benissimo che ogni guerra si alimenta con le armi. C’è difficoltà a mettere in campo un movimento ma dobbiamo assolutamente provarci chiedendo a gran voce il disarmo globale.

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