Trent'anni dopo La giornata in cui il parlamento pronuncia l’ultimo sì (in attesa del referendum) alla madre di tutte le battaglie berlusconiane sul fronte della giustizia non appare poi così storica. Con il grande perseguitato ancora in vita si sarebbero forse visti volteggiare un paio di aerei, come ai tempi di altre sfide campali, su una piazza gremita e sormontata da maxischermi
Roma, silhouette di Silvio Berlusconi a un comizio del centro-destra durante la campagna elettorale del 2001
Chissà come se la immaginava, Silvio Berlusconi. Di certo sognava di essere presente, non di brindare «dall’alto». Brindare a questa «giornata storica», come la definiscono con una gioia offuscata da un velo di malinconia senatrici e senatori che uscendo da palazzo Madama raggiungono gli altri forzisti già incastrati nella stretta corsia Agonale, tra il Senato e piazza Navona, dove il Cavaliere svetta sulle teste degli azzurri effigiato su uno stendardo.
La giornata in cui il parlamento pronuncia l’ultimo sì (in attesa del referendum) alla madre di tutte le battaglie berlusconiane sul fronte della giustizia non appare poi così storica. Con il grande perseguitato ancora in vita si sarebbero forse visti volteggiare un paio di aerei, come ai tempi di altre sfide campali, su una piazza gremita e sormontata da maxischermi. O magari è solo prudenza, quella degli eredi del cavaliere: per i festeggiamenti in pompa magna meglio aspettare il referendum.
Eppure, al di là dell’omaggio al defunto re di Arcore, questa vittoria postuma suona un po’ amara per il partito ora guidato da Antonio Tajani. Non solo è venuto a mancare il motivo concreto della riforma, cioè Silvio Berlusconi, signore di tutte le leggi – anche costituzionali – ad personam che voleva proteggersi dalle leggendarie «toghe rosse politicizzate». La stessa separazione della carriere tra magistratura requirente e magistratura giudicante dopo la riforma Cartabia sarebbe di per sé superflua e quindi suona eccessivo rivendicarla come chissà quale rivoluzione (liberale). Ma, soprattutto, lo scettro della destra è ora passato a Giorgia Meloni, colei che, scriveva Berlusconi sui suoi appunti rubati da un teleobiettivo a palazzo Madama, dopo aver vinto le ultime elezioni si stava comportando in modo «Supponente. Prepotente. Arrogante. Ridicolo». Anche perché aveva deciso di nominare al ministero della giustizia non la forzista Elisabetta Casellati, ma il magistrato Carlo Nordio.
Proprio il ministro Nordio ancora ieri continuava a mostrarsi molto cauto in vista del referendum e addirittura perplesso su alcuni punti del testo della riforma. Si sa che Nordio è mobile. Ma anche congiunti stretti dell’attuale presidente del consiglio – congiunti in linea sia discendente che ascendente – hanno espresso riserve su questa riforma: dal sottosegretario alla giustizia Delmastro al presidente del Senato La Russa che si è chiesto: il gioco vale la candela? Evidentemente valutando il rischio paradossale di perdere una importantissima battaglia referendaria avendo impugnato una bandiera altrui, quella di Silvio Berlusconi, appunto.
Allo stesso tempo un Salvini vagolante tra Vannacci e Zaia si ritrova a ostentare la sua adesione totale alla guerra contro la magistratura (soprattutto quando la magistratura si occupa di lui) per mettere in secondo piano il flop leghista sull’autonomia differenziata.
Alla fine della fiera, lo schema “tre partiti tre riforme costituzionali” sembra essere saltato un po’ per tutti.
Ma Giorgia Meloni, che nella sua casella aveva la dicitura “premierato”, non è tipa da mollare la presa. Il testo di riforma costituzionale-governativa approvato ieri – che non si limita a separare le carriere delle toghe – è stato impugnato dalla presidente del consiglio come un’arma da brandire di per sé contro la magistratura, che si tratti dei pubblici ministeri, bestia nera del Cavaliere, o dei giudici, quelli che ostacolano ad esempio la guerra ai migranti dichiarata dalla stessa premier. La posta in gioco è una scossa all’assetto costituzionale propedeutica al tentativo di disarticolazione dei poteri a tutto vantaggio dell’esecutivo.
Ma il rischio, per l’attuale premier che sa bene qual è la candela in gioco e per questo vuole evitare di personalizzare il referendum, è di doversi unire idealmente alla malinconica festa di ieri, senza nemmeno essere stata invitata.
Commenta (0 Commenti)Riforma costituzionale Le manovre del governo per aprire le urne entro metà aprile 2026
Seggio, foto imagoeconomica – foto Imagoeconomica
Il ministro Carlo Nordio ha già indicato una data: metà aprile. È quella in cui si dovrebbe celebrare il referendum confermativo sulla riforma costituzionale della separazione delle carriere che oggi verrà approvata definitivamente dal Senato. Il governo ha in mano molte delle carte per decidere il momento per lui più opportuno per fissare il giorno della consultazione popolare, ma non tutte. La legge che norma i referendum, la numero 352 del 1972, detta tempi a fisarmonica così da contemplare tutta la casistica, a seconda di chi richiede il giudizio dei cittadini sulla riforma approvata dal Parlamento. Di certo Meloni ha fretta di svolgere il referendum nella prima parte della primavera lasciandosi il margine di un ulteriore ricorso alle urne a giugno assieme alle amministrative.
Dopo pochi giorni dalla sua approvazione, la riforma viene pubblicata in Gazzetta ufficiale. A quel punto scattano trenta giorni in cui può essere presentata in Cassazione la richiesta di un referendum con relativa raccolta di firme. A farlo possono essere almeno un quinto dei parlamentari di una delle due Camere, o 500mila cittadini o anche cinque Consigli regionali. E qui arriva il primo elemento che può incidere sui tempi. Se a fare la richiesta di referendum sono solo i parlamentari, come è avvenuto ad esempio nel 2020 sul taglio del numero degli eletti, la Cassazione procede in pochi giorni al controllo delle firme, non dovendo attendere lo spirare di tutti e tre i mesi prima di dare il via libera. Nel 2001, nel 2006 e nel 2016 i gruppi parlamentari raccolsero le firme in poche ore. In questo caso, se la riforma sarà pubblicata in Gazzetta ai primi di novembre, già attorno al 10 dello stesso mese la suprema corte potrebbe dare il via libera, comunicandolo – come prevede la legge – al governo e ai presidenti delle Camere. Tuttavia se verrà presentata la richiesta di referendum anche da un Comitato che intende raccogliere le firme di 500mila cittadini, la Cassazione dovrà attendere i tre mesi entro i quali il Comitato promotore ha tempo per raccogliere le adesioni. Abbiamo due precedenti. Nel 2016 Renzi, nella sua hybris, promosse un Comitato per il sì che raccolse le firme (alla fine oltre 600mila): una scelta per mobilitare l’elettorato, che è tuttavia fallita. Nel 2001, oltre alla richiesta presentata dai gruppi parlamentari (di centrodestra e di centrosinistra), vi fu quella della Lega per raccogliere il mezzo milione di firme di cittadini. Alla fine il tentativo fallì, ma la Cassazione dovette comunque attendere il 13 giugno, tre mesi dopo la promulgazione in Gazzetta della riforma del Titolo V. Quindi se oggi qualcuno volesse rompere le uova nel paniere del governo Meloni e si presentasse ai primi di novembre in Cassazione per chiedere un referendum sulla base della raccolta di firme dei cittadini, la Corte dovrebbe attendere i primi di febbraio.
Appena concluso il controllo delle firme la Cassazione comunica a governo e presidenti delle camere il via libera; a quel punto scattano i 60 giorni entro cui il governo può decidere la data del referendum (formalmente è il capo dello stato che lo convoca «su deliberazione del consiglio dei ministri») che a sua volta si deve svolgere in una domenica tra i 50 e i 70 giorni dopo l’emanazione del decreto di indizione. Qui la fisarmonica è massima, ma sappiamo che il governo Meloni ha fretta. Nel primo scenario, quello con la richiesta di quesito referendario dei soli parlamentari, il governo sarebbe effettivamente in grado di convocare le urne nella prima metà di marzo (fuori gioco la pasqua cattolica, che cade il 5 aprile, la pesach ebraica, il 2-9aprile, e la domenica delle palme il 29 marzo) o, appunto a metà aprile come ha preconizzato il guardasigilli. Nel secondo caso, quello della richiesta di referendum supportata da firme dei cittadini, si arriverebbe più avanti, ma comunque Meloni stringerebbe la fisarmonica dei tempi al massimo.
La fretta di Meloni dipende dal fatto che si lascia la possibilità andare ad elezioni politiche anticipate dopo il referendum, sia in caso di successo in questo che in caso di sconfitta. Una pistola posta sul tavolo non solo contro le opposizioni ancora impreparate, ma anche contro il suo alleato Matteo Salvini.
Commenta (0 Commenti)Risposta a Ginzburg Perché, secondo Ginzburg, non si dovrebbe interrompere la collaborazione con gli atenei israeliani?
Ho sempre ammirato e imparato molto dal lavoro intellettuale di Carlo Ginzburg. La lettura del suo intervento in occasione del centenario della fondazione della Hebrew University apparso sul manifesto domenica scorsa mi ha però non solo amareggiato, mi ha sinceramente addolorato. Perché se a prima vista non si può non ammirare il coraggio con cui dichiara di provare vergogna, in quanto ebreo diasporico, per quel che è accaduto e accade a Gaza, dall’altro lato l’articolo contiene un attacco a quel movimento di studenti e docenti che, negli atenei italiani (così come in quelli di tanti altri paesi), si batte per la sospensione di ogni collaborazione istituzionale con le università israeliane (senza per questo opporsi alla collaborazione e al dialogo con singoli docenti israeliani) sino a quando il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione non sarà riconosciuto e garantito.
Perché, secondo Ginzburg, non si dovrebbe interrompere la collaborazione con gli atenei israeliani? Perché questi «potranno avere più che mai, in Israele come altrove, un’importanza fondamentale, in quanto luogo di riflessione, di discussione, di insegnamento rivolto a studentesse e studenti di etnie diverse». Giustissimo, in linea teorica, ma come può Ginzburg mettere sullo stesso piano l’attacco portato da Trump (ma anche da altri, in altri luoghi) contro le università, a partire proprio dalla solidarietà che queste hanno manifestato alla causa palestinese, con la richiesta che viene dai movimenti d’isolare un paese (e dunque anche le sue università) che commette da decenni crimini di guerra, e che ha instaurato da oltre mezzo secolo nei territori occupati un regime di apartheid? Né è lecito dimenticare che le università israeliane sono in larga parte ben lungi dall’aver assolto – oggi come ieri – questa ideale funzione democratica.
Ginzburg non può non sapere che proprio la Hebrew University dalla quale ha ricevuto la laurea honoris causa, al pari di altri atenei israeliani, ha avuto un ruolo cruciale nel legittimare il progetto coloniale sionista. Lo scrive l’ebrea israeliana Maya Wind in Torri d’acciaio e d’avorio. Come le università israeliane sostengono l’apartheid del popolo palestinese (Edizioni Alegre, 2024). Non è certo un caso che, dal 1967, la Hebrew abbia esteso illegalmente il suo campus a Gerusalemme Est. Mi limito a ricordare solo alcuno dei fatti che Wind documenta ampiamente. Il dipartimento di archeologia della Hebrew University è impegnato da decenni nel progetto di «giudaizzazione» della Palestina. Questo ateneo collabora stabilmente con l’esercito israeliano e lo Shin Bet a molteplici livelli, ed è sede di un programma di intelligence militare di élite, denominato Havatzalot. L’università sottopone a sorveglianza continua gli studenti palestinesi, limitandone o impedendone qualsiasi manifestazione di dissenso, e nel corso degli ultimi due anni ha non solo cercato di licenziare ma ha fatto arrestare la professoressa Nadera Shalhoub-Kevorkian, rea di aver protestato contro il genocidio a Gaza.
Ecco, se si prova vergogna per la condotta di Israele, non sarebbe necessario interrogarsi su cosa consente sul piano prettamente socioculturale a questo stato di comportarsi in modo criminale? Come hanno ampiamente documentato, tra gli altri, Gideon Levy, Nurit Peled-Elhanan, Ilan Pappé, la disumanizzazione dei palestinesi viene da lontano ed è frutto di un’egemonia culturale con profonde radici nel sistema educativo del paese. Se si leggesse quanto scrivono questi coraggiosi studiosi israeliani, forse sarebbe più facile comprendere le ragioni di chi – dentro e fuori Israele – si batte affinché, sino a quando permarrà questa situazione, non si collabori con le università israeliane. Perché questo vorrebbe dire legittimare la loro continua e fattiva partecipazione alla sistematica distruzione del popolo palestinese.
Concludo con un breve cenno a una questione che, per essere affrontata seriamente, richiederebbe ben altro spazio. Nel suo articolo Ginzburg riassume quanto, con la consueta erudizione e intelligenza, argomenta in un saggio sul «vincolo della vergogna» (the bond of shame) apparso sulla New Left Review nel 2019. Per quanto trovi le questioni che Ginzburg solleva in quella sede stimolanti, la sua tesi di fondo, per cui «il paese cui si appartiene non è, come vuole un’abituale retorica, quello che si ama ma quello di cui si prova vergogna» temo possa minare la portata etica e politica della critica rivolta ad Israele.
Se provare vergogna della comunità cui si appartiene (o s’immagina di appartenere) è la regola, qual è il significato politico della vergogna per i crimini commessi da Israele?
Terra rimossa Ormai legalità per Usa e Israele è una parola vuota. Il segretario di Stato Usa, Marco Rubio, ha affermato che l’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, è «una filiale di Hamas» e per questo motivo non avrà alcun ruolo nella distribuzione degli aiuti a Gaza
Un edificio distrutto a Khan Younis – foto di Abed Rahim Khatib/Ap
Nel giorno degli ottant’anni delle Nazioni unite Trump e la sua amministrazione hanno dichiarato aperta la guerra all’Onu e al multilateralismo. A farne le spese saranno gli aiuti umanitari a Gaza che Trump vuole trasformare una sorta di protettorato americano in attesa di qualche delirante progetto del tipo Gaza Riviera.
Se ci saranno anche i palestinesi questo per lui è un dettaglio, per Israele eliminarli un obiettivo da perseguire. La destra al potere non ha mai creduto in una coesistenza con i palestinesi e non ha rinunciato con la tregua al progetto di pulizia etnica della Striscia, da estendere alla Cisgiordania dove è in corso un’annessione rampante con l’espropriazione violenta dei terreni agricoli e la costruzione di nuove colonie illegali.
Ma ormai legalità per Usa e Israele è una parola vuota. Il segretario di Stato Usa, Marco Rubio, ha affermato che l’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, è «una filiale di Hamas» e per questo motivo non avrà alcun ruolo nella distribuzione degli aiuti a Gaza nell’ambito del piano di cessate il fuoco sostenuto dagli Stati uniti. Rubio è in pratica il ventriloquo del ministro degli esteri israeliano, Gideon Sa’ar, secondo cui l’Unrwa “impiega” oltre 1.400 terroristi di Hamas. Ovviamente, come replica l’agenzia, è un falso e la Corte internazionale di giustizia ha riconosciuto che Israele non ha mai portato una prova in proposito.
Ma l’importante è sparare ad alzo zero sull’Onu e su ogni principio di legalità internazionale. Quanto agli aiuti, la situazione umanitaria nella Striscia resta critica, avvertono le organizzazioni internazionali. Israele continua a bloccare l’ingresso dei convogli accusando Hamas di violare i termini del cessate il fuoco perché non ha ancora restituito tutti i corpi degli ostaggi morti. Decine di migliaia di tonnellate di viveri e prodotti di prima necessità sono stati caricati su camion in attesa ai confini dei vicini Egitto e Giordania ma le autorità israeliane continuano a tenere chiuso il valico di Rafah. La fame come arma di guerra continua a essere usata sistematicamente come ha dimostrato la vergognosa pagina della Gaza Humanitarian Foundation (Ghf), la fondazione sostenuta da Israele e Usa e contestata dalle Nazioni Unite: prima di chiudere, dopo cinque mesi, circa 2.700 palestinesi sono stati uccisi all’interno o nelle vicinanze dei siti di distribuzione degli aiuti. Si può pensare che gente che ha architettato un simile piano possa realmente aiutare i palestinesi?
Per attuare la pulizia etnica della Striscia serve infatti eliminare prima di tutto i testimoni e tra questi quello più scomodo è proprio l’Unwra. Ma ovviamente sono tutte le Nazioni unite nel mirino di Trump, come ha dimostrato il suo discorso al Palazzo di vetro. «Qual è lo scopo delle Nazioni unite? – aveva chiesto alla platea di capi di stato – Sembra che tutto quello che fanno sia scrivere lettere dai toni molto forti. Sono parole vuote, e le parole vuote non risolvono la guerra». Aveva criticato poi duramente la leadership del segretario generale, António Guterres dicendo ai giornalisti: «L’Onu potrebbe essere incredibile senza certe persone al comando».
In realtà gli Stati uniti stanno già da tempo affossando l’Onu che loro stessi avevano creato nel dopoguerra. Si sono già ritirati dall’Unesco (cultura, scienza ed educazione), dall’Oms (sanità) e dal Consiglio dei Diritti Umani. L’amministrazione Trump ha finora tagliato un miliardo di dollari di contributi finanziari all’Onu e si prepara ad amputare un altro miliardo di dollari. Non solo: il piano del presidente americano prevede anche l’azzeramento dei fondi per il mantenimento della pace, cosa piuttosto ironica, se non fosse tragica, per uno che si presenta come il pacificatore del mondo. Washington farà sparire in tutto quattro miliardi di dollari dal bilancio delle Nazioni unite compresi i fondi destinati ai rifugiati e alla migrazione, altro pallino di Donald Trump.
E intanto adesso a Gaza si sta insediando il protettorato di Trump, si chiama Centro di Coordinamento Civile-Militare (Ccmc) con a capo un ambasciatore e un generale che si occuperanno del cessate il fuoco e di supervisionare la consegna degli aiuti umanitari alla Striscia. Circa 200 soldati statunitensi sono stati inviati a Kiryat Gat, con base in un magazzino dove lavorano con truppe israeliane ed europee e rappresentanti di Emirati e Giordania. Il segretario di stato Rubio ha visitato il sito ieri e l’ha definito un’impresa «storica». Come no, un altro pezzo di storia coloniale che si chiama protettorato.
Commenta (0 Commenti)Il ballo del mattone «Assolutamente negativa, è una truffa». La Cgil boccia la legge di bilancio bollinata ieri dalla Ragioneria generale dello Stato. E lancia un allarme sulle conseguenze che avrà il testo licenziato dal consiglio dei ministri. Spiega quali il segretario confederale del sindacato di corso Italia, Christian Ferrari.
Christian Ferrari, segretario confederale della Cgil – Imagoeconomica
«Assolutamente negativa, è una truffa». La Cgil boccia la legge di bilancio bollinata ieri dalla Ragioneria generale dello Stato. E lancia un allarme sulle conseguenze che avrà il testo licenziato dal consiglio dei ministri. Spiega quali il segretario confederale del sindacato di corso Italia, Christian Ferrari.
Non salva niente della manovra?
No, siamo di fronte ad una vera e propria truffa politica, a un raggiro propagandistico. Danno qualche spicciolo con una mano mentre con l’altra si riprendono centinaia, se non migliaia, di euro attraverso il drenaggio fiscale: un meccanismo infernale che, se non viene neutralizzato, proseguirà nel 2026 e negli anni successivi. L’inflazione causata dalla guerra è stata scaricata sui redditi fissi, che hanno subito un impoverimento brutale, aggravato dalla mancata restituzione del drenaggio fiscale. Oltretutto, il maggior gettito che ne è derivato non verrà restituito né reinvestito nelle vere emergenze del Paese come la sanità, l’istruzione e le politiche della casa. È stato invece utilizzato da Giorgetti per fare più austerità di quella richiesta dall’Unione europea.
Perché è un raggiro? Il governo si vanta di aver riformato l’Irpef.
Faccio un esempio: un lavoratore con un salario di 25 mila euro subisce, nel solo 2025, un drenaggio fiscale di 569 euro; e il beneficio che otterrà dalla riforma Irpef è pari a zero, visto che scatterà solo sopra i 28 mila euro. Un lavoratore che percepisce 35 mila euro subirà quest’anno un drenaggio fiscale di ben 1.142 euro; per lui l’abbattimento dell’aliquota dal 35 al 33% varrà appena 88 euro nel 2026. Di queste cifre stiamo parlando.
L’esecutivo ha fatto un pasticcio con la tassa sugli affitti brevi mentre il piano casa sembra archiviato.
Uno dei nostri obiettivi è proprio quello di svelare la sostanza di una legge di bilancio che, al di là della propaganda e di micro-misure spot che non cambiano nulla, è già blindata e vincolata: sia a causa dalla camicia di forza che ci siamo auto inflitti con il nuovo patto di stabilità, sia dalla corsa al riarmo che drenerà centinaia di miliardi dalle vere priorità del paese, come l’emergenza salariale che colpisce milioni di lavoratori e pensionati. Inoltre, questa è una manovra che, per dichiarazione dello stesso governo, avrà impatto zero sull’economia reale del paese, e quindi sulle condizioni materiali delle persone.
Sulle politiche industriali vi aspettavate di più?
Nel 2026 non sono previsti investimenti pubblici. Giusto qualche mancia e qualche incentivo automatico dato a pioggia alle imprese che non risolverà nulla. E siamo nel pieno di un processo di deindustrializzazione che è in corso da tre anni e sta mettendo in discussione la stessa prospettiva manifatturiera del paese, a partire dall’industria di base come la siderurgia. La linea del governo è: riarmo al centro e austerità per tutto il resto. Il ministro lo ha detto chiaramente che intende uscire in anticipo dalla procedura di infrazione per poter attivare, già dal 2026, la famigerata clausola di salvaguardia nazionale che permette di scomputare dai vincoli del patto la sola spesa militare.
La maggioranza non gradirà la definizione di manovra d’austerità.
Lo è. Il vero programma di politica economica del governo Meloni, che intendiamo smascherare e denunciare, consiste nell’impoverimento di salari e pensioni e nel taglio della spesa sociale. È stata addirittura peggiorata la legge Fornero con l’aumento dell’età pensionabile per il 99% dei lavoratori e con l’abrogazione delle già insufficienti flessibilità in uscita come opzione donna e le varie quote. L’unica alternativa è prendere i soldi dove sono – extraprofitti, rendite, grandi ricchezze, evasione fiscale – per investirli in salari, pensioni, sanità, istruzione, politiche industriali.
Non è un governo orientato alle patrimoniali.
È stato evidente durante l’incontro a Palazzo Chigi: abbiamo proposto un contributo di solidarietà dalle grandi ricchezze da applicare soltanto all’1% degli italiani più ricchi per dare risposte al restante 99%. La reazione è stata quasi di scandalo, come se avessimo pronunciato una bestemmia. Per lor signori è normale prendere 25 miliardi di drenaggio da chi fatica ad arrivare a fine mese, anziché chiederne 26 a milionari e miliardari.
Sabato a Roma la Cgil manifesterà contro la manovra.
Abbiamo indetto questa manifestazione nazionale con obiettivi precisi: aumentare i salari e le pensioni, contrastare la precarietà, dire no al riarmo e investire invece sul sistema pubblico dei servizi. Quello di piazza San Giovanni è solo il primo fondamentale appuntamento, abbiamo l’intenzione di continuare la mobilitazione per cambiare la manovra.
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America oggi Trump aggiorna Nixon e adesso confonde non più solo i nemici ma anche gli alleati. Eppure l’Unione europea lo segue comunque e si aggrappa alla minaccia russa per comprare armi
La «teoria del pazzo», attribuita a Richard Nixon, prevede che il nemico venga spaventato rendendo credibile l’idea che le proprie scelte strategiche di fondo non siano compiutamente razionali. «Non è bene dare di noi stessi un’immagine troppo razionale o imperturbabile è utile che alcuni elementi possano sembrare fuori controllo» – recita un noto documento strategico risalente ai tempi della guerra in Vietnam. Oggi assistiamo a una nuova, paradossale svolta nella dottrina: invece di alimentare l’incertezza del nemico circa la propria mossa successiva, la versione fluttuante di Trump alimenta l’incertezza della propria parte: i propri alleati europei o la stessa Ucraina, alla cui difesa gli Usa danno un contributo sostanziale, cercando sempre più di trarre beneficio scaricando il costo.
«Non ho mai detto che avrebbero vinto, ho detto che avrebbero potuto farlo. Tutto può succedere. Sapete bene che la guerra è una cosa molto strana» ha commentato Trump lunedì, parlando degli ucraini in una delle sue consuete esternazioni alla stampa. Da uomo d’affari che, come ama ripetere, ha dedicato l’intera vita all’arte del deal, Trump sa che l’imprevedibilità è un asset negoziale, se si opera in un ambiente nel quale sono state demolite norme e istituzioni. Del resto, arrogarsi un potere di giudizio così instabile da risultare arbitrario è indubbiamente un tratto coerente con il disegno autoritario perseguito dai Maga al potere, tanto sul piano internazionale quanto su quello domestico, dove neo-maccartismo e criminalizzazione dell’opposizione insidiano le elezioni di mid-term.
Toccherà presumibilmente agli storici trovare una spiegazione per la particolare deferenza che Trump riserva al Cremlino. Secondo il Financial Times, durante il recente, burrascoso incontro con Volodymyr Zelensky, tale deferenza si sarebbe spinta a definire «operazione speciale» l’offensiva di guerra russa, intimando agli ucraini di cedere terra o essere distrutti. Zelensky è uscito dalla Casa bianca senza i Tomahawk, i missili capaci di colpire in profondità l’apparato militare russo proiettato sull’Ucraina. Deep strikes che l’inviato speciale Kellogg, a fine settembre, aveva dichiarato legittimi. Lo stesso Trump, a fine agosto, aveva criticato Biden per non aver consentito agli ucraini di rispondere al fuoco, paragonandoli a una squadra che entra in campo senza poter giocare in attacco. Una dinamica in apparenza bipolare nel senso più schiettamente psichiatrico che politologico: tappeto rosso e incensazione da un lato, delusione e minaccia dall’altro.
Zelensky ha descritto l’incontro con Trump come un successo che ha portato l’Ucraina all’acquisto di 25 sistemi di difesa aerea Patriot dagli Usa. Ha poi aggiunto che questa settimana sarà impegnato in molti incontri e negoziati in Europa, incluso un Consiglio europeo in programma domani a Bruxelles (mentre è adesso molto in forse il rendez-vous preliminare fra Rubio e Lavrov a Budapest). Emergerebbe un ampio sostegno tra gli Stati membri dell’Ue per un nuovo prestito di 140 miliardi di euro a Kyiv, il cui finanziamento sarebbe possibile superando le resistenze sull’impiego dei beni congelati di Mosca. Mentre i paesi volonterosi preparano a fornire «forze di stabilizzazione» a guida franco-britannica, la nostra Leonardo, assieme a Thales e Airbus cerca la via per una nuova joint-venture satellitare europea che possa competere con Musk.
In sostanza, dopo essersi dichiarato pronto a giocare al tavolo con Zelensky l’asso dei Tomahawk, a fronte alla telefonata in extremis di Putin e al rischio di escalation, Trump avrebbe rimesso nella manica la carta offensiva, per offrire invece un’opzione difensiva (i Patriot) che permetterebbe agli ucraini di rintuzzare gli attacchi con droni e missili sempre più numerosi su città e infrastrutture. Il risultato atteso sarebbe di logorare il potere di fuoco russo, verosimilmente chiedendo agli europei di passare alla cassa a saldare il conto. I leader Ue non si sono fatti pregare, allineandosi a Trump nella richiesta di un accordo basato sul congelamento delle linee del fronte attuali. Un compromesso che Mosca non è propensa ad accettare.
Sul terreno, dopo 1.337 giorni di guerra, i fatti si ripetono e si assomigliano. La meta-analisi recentemente pubblicata dall’Economist mostra che, considerando le risorse impiegate, l’offensiva estiva di Mosca ha ottenuto risultati piuttosto magri: solo lo 0,4% del territorio ucraino è stato conquistato, senza che nemmeno far cadere Pokrovsk (anche se iniziano ad affiorare cadaveri di civili per le strade). D’altro canto, l’economia di guerra costruita da Mosca sarebbe al limite, mentre nel solo 2025 si conterebbero sul lato russo circa 100mila morti. Insomma, grazie anche al sostegno degli alleati e degli Usa, l’Ucraina – pur ferita – si mostrerebbe oggi meglio in grado di gestire la guerra d’attrito, mentre crescerebbero i dubbi circa la capacità della Russia di continuare a combattere al ritmo attuale.
Certamente i leader che si sono dati appuntamento a Budapest vedrebbero con favore il disgregarsi dell’Unione europea, grazie alla conquista del potere delle destre nazionaliste. Davanti a una Russia ritenuta non in grado di vincere in Ucraina, sembra più difficile sostenere che gli europei debbano armarsi fino ai denti, snaturando il patto sociale e la democrazia a base della loro unione, nel nome di una concezione della deterrenza che si fonda sulla versione aggiornata della «teoria del pazzo».
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